martedì 30 settembre 2008

Mauritania: la giunta militare ignora l’ultimatum dell’UA


Il leader del colpo di stato militare che ha preso il potere in Mauritania il mese scorso ha respinto un ultimatum dell’Unione Africana (UA) volto a reintegrare Sidi Ould Sheikh Abdallahi come Presidente, dicendo che la cosa non è nell’interesse del Paese.

All'inizio di questa settimana, il blocco dell’UA, forte di 53 membri, ha dato alla giunta militare al potere in Mauritania il termine del 6 ottobre per "ripristinare l'ordine costituzionale" e reintegrare Abdallahi, il primo presidente democraticamente eletto del Paese.

"La posizione dell'Unione africana non è né costruttiva, né positiva", ha detto ai reporters il Generale Ould Mohamed Abdel Aziz lo scorso sabato, nella capitale Nouakchott.
"La cosa non serve all’interesse superiore del popolo della Mauritania", ha aggiunto il leader del colpo di stato.. "E 'irrealistico e illogico. Quello è un ex presidente ... Non possiamo tornare al passato".

Abdallahi, rimosso dal potere il 6 agosto, è agli arresti domiciliari dal momento del golpe.

Il suo primo ministro, Ahmed Ould Yahya Waghf, è stato prima liberato e poi nuovamente arrestato il 22 agosto e messo anch’egli agli arresti domiciliari.

La giunta militare al potere è sotto pressione da parte dell'Unione Africana, delle Nazioni Unite e della comunità internazionale per reintegrare Abdallahi, attraverso sanzioni e isolamento initernazionale.

Governo formato

Una dichiarazione rilasciata dalla Presidenza del Consiglio di Stato il 1 ° settembre diceva che un governo di 22 ministri era stato costituito, in carica dal giorno precedente.

Un certo numero di potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti e la Francia, hanno rifiutato di riconoscere il governo militare, denunciandolo come "illegittimo".

In una rara dichiarazione stampa sabato scorso, il Generale Aziz ha ammesso che il colpo di agosto è stato "anormale".

"Siamo effettivamente in una situazione anormale in assenza di un presidente eletto", ha detto.

Ma "si deve riconoscere che le altre istituzioni costituzionali (l'Assemblea nazionale e il Senato) stanno lavorando come al solito", aggiungendo che prevede lo svolgimento di elezioni presidenziali in futuro.


Tratto da:

Mauritania coup leader rebuffs AU
su Al Jazeera.net
, Qatar, 28 settembre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Colpo di stato militare in Mauritania



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Il diritto al ritorno non è negoziabile


La seguente lettera aperta è stata consegnata al Presidente dell'Autorità Nazionale Palestiese e capo dell'OLP Mahmoud Abbas da 78 organizzazioni e partiti politici palestinesi mercoledì 22 settembre 2008.

Caro presidente,

La salutiamo per il suo ritorno,

Noi, le sottoscritte organizzazioni palestinesi dei rifugiati, movimenti della società civile e istituzioni nella patria palestinese e in esilio, siamo organizzazioni nazionali che lavorano per la difesa del diritto al ritorno. Le facciamo ora appello perché siamo convinti che l'allineamento della posizione ufficiale palestinese con la posizione del popolo palestinese a proposito di uno status finale negoziale è della più alta priorità. Tra questi temi spicca la causa dei rifugiati palestinesi.

Siamo convinti che l'allineamento delle posizioni popolari e ufficiali è la principale garanzia di una forte posizione palestinese nell'attuale processo negoziale, che sta prendendo luogo in un contesto locale, regionale e globale che mette a rischio i diritti nazionali del popolo palestinese. In questo contesto, siamo preoccupati in particolare riguardo il diritto dei rifugiati palestinesi, e degli sfollati interni a far ritorno alle terre di origine e alle loro proprietà, di vedersi restituite le loro case, terre e proprietà, e di ricevere compensazioni per i danni prodottisi negli ultimi 60 anni. In base al principio che questi diritti sono garantiti dal diritto internazionale, e in base alla nostra consapevolezza delle enormi pressioni subite dai negoziatori palestinesi e delle tattiche negoziali, come la segretezza sul procedere dei negoziati, le chiediamo di adottare una strategia negoziale basata sull'apertura verso l'intero popolo palestinese - indipendentemente dal loro attuale luogo di residenza - in relazione a tutti gli aspetti e dettagli del processo negoziale. L'implementazione del diritto al ritorno dei rifugiati è stato e continua a essere lo scopo principale per cui l'Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fu creata, uno scopo che è il pilastro centrale della legittimità dell'OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. La trasparenza e l'integrità dei nostri rappresentanti verso tutti i settori della nostra società garantirà che i nostri diritti siano meglio difesi, e rafforzerà la nostra posizione di fronte alla enorme pressione.

E' sempre stato chiaro a tutti gli stadi del negoziato che questo processo mira ad eliminare la questione centrale della lotta arabo/palestinese per la libertà e la giustizia: i rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno e alla restituzione. Di fatto, l'eliminazione di queste rivendicazioni centrali arabo/palestinesi costituisce l'obiettivo centrale delle politiche israeliane e statunitensi. Inoltre non è un segreto che durante il cosiddetto "processo di Oslo" queste politiche hanno usato tattiche insidiose per annullare semplicemente questi diritti. Queste tattiche includono tentativi di sostituire il ritorno dei rifugiati e la restituzione con compensazioni economiche; la riduzione del numero di quelli che hanno diritti ad esercitare questi diritti dagli oltre sette milioni di rifugiati palestinesi e sfollati interni a una piccola minoranza, comprendente i cosidetti "casi difficili" che sarebbero arbitrariamente definiti da Israele; il suggerimento che i rifugiati tornino in case situate nelle aree amministrate dall'Autorità Pastinese; e altre svendite umilianti per le quali ci si aspetta che i Palestinesi rinunciano al diritto di tornare alle case, alle terre e alle proprietà d'origine in cambio di altri diritti o rivendicazioni, come l'autodeterminazione, le frontiere, il reclamo di Gerusalemme, e la rimozione degli insediamenti coloniali illegali. La leadership palestinese ha rigettato questo degradante mercanteggiamento in precedenti negoziati, in particolari quelli noti come il secondo vertice di Camp David e l'iniziativa Clinton. Il vecchio presidente Yasser Arafat ha respinto queste tattiche, e ciò gli costò la libertà e la vita.

Laddove il diritto al ritorno, alla restituzione e alla compensazione è inscritto nel diritto internazionale e specificamente affermato nella Risolusione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dalla Risoluzione 237 del Consiglio di Sicurezza;

laddove vediamo che una crescente pressione USA mira a forzare i negoziatori palestinesi ad accettare un'oscuro accordo quadro, da sottoscrivere al più presto e con ogni mezzo, per fargli servire scopi interni al contesto delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti;

laddove è ormai chiaro che l'amministrazione USA sta lavorando su altri fronti per vendere il suo oscuro accordo quadro per una soluzione nella sezione del settembre 2008 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite;

laddove comprendiamo, alla luce della nostra difficile esperienza con la politica di Israele, che gli attori politici israeliani cercano di risolvere una crisi politica interna ventilando la distruzione del fronte palestinese attraverso varie pratiche e politiche, le quali tutte puntano a consolidare l'occupazione, il colonialismo e l'apartheid israeliano, e puntano ad ottenere il riconoscimento di Israele come "stato ebraico";

laddove piattaforme elettorali occidentali e israeliane non devono essere impiegate per fare pressione sui negoziatori palestinesi, che non dovrebbero minimamente essere parte di manovre di candidati USA e israeliani, particolarmente al fine di proteggere la legalità, la legittimità, e la santità dei diritti nazionali palestinesi, senza badare a chi emerge vittorioso da elezioni che si tengono all'estero; laddove percepiamo l'arretramento della posizione europea, una volta basata su principi, e la trasformazione di questa posizione in qualcosa che si conforma alla politica USA di totale complicità e sostegno a Israele;

laddove vediamo chiaramente la debolezza e l'incapacità dei paesi arabi a prendere posizione o a giocare un qualsiasi ruolo efficace;

laddove testimoniamo all'acuto e doloroso deteriorarsi dell'arena politica interna palestinese;

laddove è ormai ovvio che potenti pressioni esterne mirano ad annullare i diritti dei rifugiati palestinesi, particolarmente il diritto al ritorno alle loro terre di origine, alle proprietà e alla restituzione di queste terre e proprietà;

laddove Israele e gli Stati Uniti, secondo funzionari israeliani, stanno intensificando i loro sforzi per raggiungere un accordo quadro per una soluzione che sia accettabile sia a Israele che agli USA e sarà praticabile indipendentemente dal partito al governo;

laddove il principale criterio di legittimità di ogni soluzione rimane la misura in cui sarà esercitato il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese; comprendendo principalmente il diritto dei rifugiati palestinesi a scegliere di tornare alle loro case di origine e alle loro terre indipendentemente dal loro attuale luogo di residenza e di esilio;

noi ci rivolgiamo a lei con questa dichiarazione basata sul nostro forte desiderio di tracciare un percorso al più alto livello di chiarezza e onestà verso il popolo palestinese; una via in avanti che punti a rafforzare la posizione palestinese a questo delicato stadio della lotta palestinese; una via in avanti che assicuri che ogni accordo quadro per una soluzione includa i seguenti principi definiti con linguaggio chiaro e immutabile:

1. I diritti dei rifugiati palestinesi e degli sfollati interni al ritorno, alla resituzione e alla compensazione sono diritti fondamentali in base al diritto internazionale e a importanti risoluzioni ONU - particolarmente la Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale e la Risoluzione 237 del Consiglio di Sicurezza. Il contenuto di questi diritti non è negoziabile, al di là di come essi verranno esercitati;

2. Il diritto al ritorno è un diritto individuale posseduto da ogni rifugiato palestinese e da ogni sfollato. Questo diritto è trasferito da una generazione all'altra, in base alla scelta individuale di tornare o no, un diritto inalienabile e indivisibile, non influenzato da qualunque trattato o accordo bilaterale, multilaterale o internazionale. Qualunque accordo deve rispettare i fondamentali precetti e principi del diritto internazionale;

3. Il diritto dei rifugiati palestinesi e degli sfollati interni al ritorno è un diritto collettivo non limitato a un gruppo o a un altro, ed è parte integrante del diritto palestinese di autodeterminazione;

4. Il diritto dei rifugiati palestinesi e degli sfollati interni al ritorno non è soggetto a referendum.

Confidiamo che lei rimanga fermo nella nostra lotta per la libertà e la dignità.

Agosto 2008


Firmato: 194 Association (Syria); Abassiya Association (Palestine); Abnaa al-Balad Center for the Defense of the Right of Return (Syria); Aidun Group (Lebanon); Aidun Group (Syria); Al-Awda Palestine Network (Holland); Al-Awda Palestine Right to Return Coalition (North America); Arab Cultural Forum (Gaza, Palestine); Arab Liberation Front; Arab Palestinian Front; Association for the Defense of the Rights of the Internally Displaced (Palestine); Badil Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights (Palestine); Beit Nabala Association (Palestine); Bisan Association (Syria); Coalition of Right of Return Defense Committees (Jordan); Coalition of Right of Return Defense Committees (Jordan); Committee for the Rights of Palestinian Women (Syria); Confederation of Right of Return Committees (Europe: Denmark, Sweden, Norway, Switzerland, Greece, Germany, France, Holland, Poland, Finland); Coordinating Committee of Palestinian Organizations Working in Lebanon (Lebanon); Council of National and Islamic Forces in Palestine (Palestine); Democratic Front for the Liberation of Palestine; Democratic Palestine Committee; Depopulated Towns and Villages Associations (Gaza, Palestine); Farah Heritage Society (Syria); Grassroots Palestinian Anti-Apartheid Wall Campaign (Palestine); Higher Follow-up Committee on Prisoners (Palestine); Higher National Committee for the Defense of the Right of Return (Palestine); Inevitable Return Assembly (Syria); Islamic Jihad Movement; Islamic Resistance Movement [Hamas]; Istiqlal Youth Union (Lebanon); Istiqlal Youth Union (Syria); Ittijah: Union of Palestinian Non-Governmental Organizations (Palestine); Jafra Youth Center (Syria); Jimzo Association (Palestine); Lajee Center, Aida Camp (Palestine); National Assembly of of Palestinian Civil Society Organizations (Palestine); National Committee to Commemorate the Martyr Ahmad al-Shuqairy (Jordan); National Nakba Commemoration Committee (Palestine); Palestine Democratic Union [Fida]; Palestine House Educational and Cultural Center (Canada); Palestine Liberation Movement [Fatah]; Palestine Remembered (US); Palestine Right of Return Coalition (Global); Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (Palestine); Palestinian Civil Society Coordinating Committee in Palestine and Abroad (Global); Palestinian Liberation Front; Palestinian National Democratic Movement (Palestine); Palestinian National Initiative; Palestinian People's Party; Palestinian Popular Struggle Front; Palestinian Refugee Rights Defense Committee (Balata Camp, Palestine); Palestinian University Professors Union (Gaza, Palestine); Palestinian Women's Grassroots Organization (Syria); Palestinian Youth Democratic Union (Syria); Palestinian Youth Organization (Syria); Palestinian Youth Struggle Union (Syria Branch); People's Assembly of the Towns and Villages Depopulated in 1948 (Palestine); Platform of Associations in Solidarity with Palestine (Switzerland); Popular Committees to Defend the Right of Return (Gaza, Palestine); Popular Front for the Liberation of Palestine; Popular Front for the Liberation of Palestine - General Command; Refugee and Right of Return Committee (Syria); Refugee Camp Popular Committees (West Bank & Gaza, Palestine); Refugee Executive Office (Palestine); Right of Return committee (Switzerland); Ruwwad Cultural Center (Aida Camp, Palestine); Salameh Association (Palestine); Secular Democratic State Group (Gaza, Palestine); Union of Right of Return Committees (Syria); Union of Women's Activity Centers, West Bank Refugee Camps (Palestine); Union of Youth Activity Centers, Refugee Camps (Palestine); Vanguard for the Popular Liberation War [Sa'iqa]; Women's Activity Centers (Gaza, Palestine); Yaffa Charitable Fund (Jordan); Yaffa Cultural Center (Balata Camp, Palestine); Youth Assembly (Gaza, Palestine); Youth Struggle Union (Lebanon)


Tratto da:

Palestinian parties and organizations to Abbas: Right of return non-negotiable
su Electronic Intifada
, USA, 25 settembre 2008
tradotto da Gianluca Bifolchi su Achtung Banditen



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Karzai chiede aiuto al re saudita per la pace in Afghanistan


Il Presidente afgano Hamid Karzai ha chiesto al re dell’Arabia Saudita Abdullah di contribuire a facilitare i colloqui di pace con i Talebani, al fine di porre fine al conflitto afgano.

Il presidente afghano ha detto non vi è ancora stato alcun negoziato, solo richieste di aiuto. Ma Karzai ha spiegato che funzionari afghani si sono già recati in Arabia Saudita e Pakistan nella speranza di trovare alleati contro il terrorismo e porre fine al conflitto.

Parlando dai giardini del palazzo presidenziale, da dove ha lanciato il suo tradizionale messaggio agli afgani per la festa religiosa musulmana di Eid al-Fitr, Karzai ha detto che il suo governo sta cercando di incoraggiare i militanti islamici a deporre le armi.

Karzai ha spiegato che il suo governo è fortemente impegnato nel tentativo di convincere i militanti islamici ad abbandonare le armi e unirsi alle forze governative. Il capo dello Stato ha annunciato di avere indirizzato al Mullah Omar un messaggio che lo invita a «tornare in patria e a lavorare per la felicità del popolo» afghano. Karzai si è impegnato a farsi garante dell'incolumità del leader dei talebani al cospetto delle truppe internazionali, in caso di un suo ritorno in Afghanistan per negoziati di pace.

"Non abbiate paura degli stranieri. Se tenteranno di farvi del male, ci sarò io a proteggervi", ha detto Karzai.

Karzai ha anche dichiarato: "tutti sanno" che i funzionari afghani stanno lavorando con grande sforzo verso la pace, e che se vi sarà un qualche progresso, i funzionari afghani lo renderanno pubblico. "Non vi è nulla di concreto, ma sono fiducioso che succederà", ha detto.

La risposta del mullah Omar ha però spiazzato Karzai: il leader dei talebani erige un muro e diffonde un messaggio infuocato contro le forze di sicurezza afghane. Il capo degli “Studenti del Corano” ha definito ladri, contrabbandieri e criminali indegni della fiducia del popolo, sia l'esercito che le forze di polizia di Kabul. In un messaggio inviato in occasione dell'Eid el Fitr, che segna la fine del Ramadan, il mullah Omar si scaglia contro le forze di sicurezza dell'Afghanistan e non fa alcun cenno alla richiesta di un negoziato di pace che gli è stata recapitata da Karzai.

Il capo supremo dei Talebani, in un raro messaggio diffuso sul sito internet del gruppo, ha fatto sapere che se le forze straniere si ritirassero dall'Afghanistan, sarebbe pronto a garantirne la sicurezza: «Lo dico agli invasori: se lasciate il nostro Paese, noi garantiremo la vostra sicurezza. Ma se persistete, sarete sconfitti come i Russi lo sono stati prima di voi», ha avvertito.

Un ex alto ufficiale dei Talebani ha detto all'Associated Press la scorsa settimana che i militanti non considerano Karzai un leader forte, capace di sostenere e realizzare qualsiasi potenziale accordo contro il parere degli Americani.

Un leader dell’opposizione afghana, l’ex presidente Burhanuddin Rabbani, ha detto l'Associated Press, all'inizio di quest'anno, che i leader politici afghani hanno incontrato i Talebani e altri gruppi antigovernativi nella speranza di negoziare la pace.

I contatti hanno avuto luogo tra i leader del Fronte Nazionale di opposizione e leader di "alto livello" tra i militanti.

Rabbani dice i sei anni di guerra in Afghanistan devono essere risolti attraverso colloqui, facendo eco al punto di vista di molti nel Paese. Egli ha detto che alcuni tra i Talebani sono disposti a negoziare, ma non tutti.

La costruzione delle forze di sicurezza afghane è il centro della strategia americana in Afghanistan, e il messaggio di Omar sembra reagire a questo.

Funzionari afghani, statunitensi e altri funzionari internazionali hanno recentemente deciso di aumentare la dimensione dell’esercito afghano da 80.000 a 134.000.

"Ci sono migliaia di membri delle forze di sicurezza ... ed è chiaro che essi sono criminali, ladri, e la gente non può avere alcuna fiducia nelle forze di sicurezza", ha detto Omar in una dichiarazione pubblicati su un sito web che ha pubblicato molte dichiarazioni die Talebani in passato.

"Gli stranieri sono i ladri della nostra cultura, della fede e delle risorse naturali, allo stesso modo in cui l'esercito e la polizia rubano il denaro, la dignità e l'onore del popolo".

Omar ha anche invitato i militanti a non danneggiare i civili durante le loro operazioni.

Omar vive nascosto da quando l’invasione guidata dagli USA rovesciò il suo regime talebano, sette anni fa. Funzionari afghani hanno detto che si nasconde in o vicino alla città pakistana di Quetta. Secondo fonti pakistane è invece in Afghanistan.


Tratto da:
Afghanistan, Karzai chiede la pace al mullah Omar
su L’Unità
, Italia, 30 settembre 2008
Karzai Seeks Saudi Help for Peace Talks With Taliban
su FOX News.com
, USA, 30 settembre 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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El Salvador. La violenza è la nostra compagna di vita


Intervista in esclusiva a Puppet, capo della “Pandilla 18” nella città di El Salvador. Dice che ha letto la Bibbia tre volte e che i pandilleros - i membri delle pandillas, le bande di strada - sono “non solo esecutori, ma anche vittime del sistema di violenza” in El Salvador.

Ci sono voluti tre mesi per riuscire a parlare con “Puppet” (burattino), dopo diversi tentativi falliti e misure di sicurezza molto simili a quelle che servivano per entrare in contatto con i gruppi della guerriglia ai tempi della guerra civile (1980-1992).

Per raggiungere il luogo concordato, abbiamo dovuto addentrarci per i vicoli di un paesino di cui non possiamo rivelare il nome, nella parte occidentale di questo paese centroamericano.

E vincere la diffidenza del nostro interlocutore, un ragazzo di 28 anni, nei confronti dei giornalisti. Tendete sempre a “mostrare solo il lato perverso delle pandillas”, assicura. Forse proprio per rimediare questa mancanza, anche lui un giorno vorrebbe diventare giornalista.

Per molto tempo si è dedicato allo spaccio di droga e al furto. “Mi ha dato la possibilità di fare molti soldi e di avere molte macchine", un’attività che, insiste, ha già abbandonato da tempo.

Puppet ammette che le pandillas hanno anche praticato l’estorsione e che molti pandilleros vengono reclutati, a titolo personale, dalla criminalità organizzata, come sicari.

Il suo aspetto fuga ogni dubbio: sulle braccia e sul petto mostra tatuaggi che lo hanno segnato per sempre, visto che un pandillero “non smette mai di essere membro della banda anche se non è più attivo”. Ha una figlia di quattro anni, Puka. E non si separa mai dal suo telefono cellulare.

IPS: Quanti anni avevi quando sei entrato nella banda?

PUPPET: Avevo 13 anni.

IPS: Perchè?

P: Dopo la fine della guerra, era diventata una moda. Pura curiosità. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto, nonostante le mie follie e quello che sono diventato. Ho sempre vissuto con i miei genitori e ho sempre avuto un ottimo rapporto con loro. La mia famiglia non è mai stata la ragione per cui sono entrato nella banda.

IPS: Hai superato il rito di iniziazione (essere picchiato da diverse persone per 18 secondi)?

P: Ovvio, è la regola.

IPS: Di cosa ti occupavi in quel periodo?

P: Le nostre attività erano proteggere e difendere il nostro quartiere da altre bande, che venivano a rubare e a maltrattare i più piccoli. Così ci siamo guadagnati il rispetto degli abitanti della comunità, che si sono resi conto che noi li proteggevamo. Una protezione che non avevano neanche dalla polizia.

IPS: Come vi difendevate?

P: All’inizio non avevamo armi da fuoco, usavamo solo coltelli, machete, bastoni e pietre.

IPS: E voi non facevate le stesse cose nel quartiere dominato dall’altra banda?

P: Dove sono cresciuto, ho imparato che le famiglie, e quelli che non sono membri delle bande, non sono tuoi nemici; i tuoi nemici sono le altre bande. Per questo cresciamo in gruppo. Nei quartieri sotto il nostro controllo non chiediamo nemmeno soldi e non viene rubato niente, perché noi proteggiamo queste comunità.

IPS: Fate uso di droghe?

P: La droga - marijuana e alcol - in questo ambiente sono cose normali. Dal 1995, la vendita di cocaina e crack fa parte del business, ma il loro consumo è proibito, per i danni alla salute. Noi vendiamo droga per sopravvivere. La stessa polizia ci vendeva la droga che aveva sequestrato da qualche altra parte. Quella droga la comprano avvocati, giudici, dottori e gente con i soldi.

Per un anno sono stato dipendente dalla cocaina, ma mi sono reso conto dei danni che provocava a me e alla mia famiglia; sono riuscito ad uscirne. Dio mi ha aiutato a lasciare le droghe.

IPS: Se sapete che la cocaina provoca danni, perché la vendete?

P: Così riusciamo a sopravvivere. Ai pandilleros quasi nessuno dà lavoro. Abbiamo bisogno di mangiare, di vestirci, e i nostri figli devono andare a scuola, mangiare.

IPS: Come sei diventato leader?

P: Ci sono molte persone nella banda che mi danno retta. E poi, ovunque vada nel paese c’è gente che mi conosce e sa che potrei aiutarli a fare molte cose, e probabilmente è così. Ogni zona ha un suo leader. L’idea dei leader nazionali in passato è stata una stupidaggine.

Mi riconoscono e mi rispettano come leader, forse perché mi conoscono da quando ero molto giovane, per il mio comportamento con gli “homeboys” (compagni). Non mi è mai piaciuto fare del male alla gente del mio quartiere. Se uno rispetta gli altri, gli altri lo rispettano. Anche quando un membro della banda esagera con gli abitanti del quartiere…

IPS: Che succede?

P: Prima preferisco parlare con loro e fargli capire che stanno facendo una cosa sbagliata. Poi, se si è già parlato e il pandillero non ha capito, bisogna punirlo perché nella pandilla esistono delle regole. La deve pagare, un sacco di botte.

IPS: E in casi estremi, giustiziarlo?

P: Anche. È una regola che hanno tutte le organizzazioni in tutto il mondo.

IPS: Cosa significa la violenza per voi?

P: Fa parte della storia de El Salvador: violenza dentro la famiglia, abuso e abbandono di minori, disgregazione, violenza privata e istituzionale, e abusi e tortura psicologica della polizia e nelle carceri, anche se le autorità assicurano che siamo praticamente solo noi, le pandillas, la causa della violenza.

So di due pandilleros che sono diventati matti nel carcere di massima sicurezza di Zacatecoluca (centro del paese), come conseguenza della reclusione totale. Uno di loro ha finito per mangiare sapone.

Noi siamo esecutori ma anche vittime del sistema di violenza del paese. La violenza è diventata la compagna di vita di tutti i Salvadoregni.

IPS: Gli esperti della sicurezza e le autorità assicurano che le pandillas si sono trasformate, da quando il governo di Francisco Flores (1999-2004) ha cominciato a usare il pugno di ferro con il suo piano del 2003-2004. Da organizzazioni giovanili sono diventate bande criminali.

P: È stato così in alcune zone. Nel mio caso, io vivo in semiclandestinità. Le pandillas hanno dovuto cercare altri metodi per sopravvivere in un ambiente che ci obbliga a non stare più per la strada.

Dobbiamo ricordare che hanno modificato i programmi di governo per poterci perseguire. E se loro fanno un passo avanti, anche noi facciamo un passo avanti per difenderci dalla morte, dal carcere. Le pandillas non possono essere fermate, neanche impiegando “gruppi di sterminio”. Per questo ci associano alla criminalità organizzata, per avere il diritto di sterminarci.

Noi ci siamo decentralizzati, e agiamo per gruppi. La struttura è più orizzontale, la catena di comando verticale appartiene al passato. Quando serve una riunione nazionale, si convocano solo i “pezzi” (membri) che permettono di prendere decisioni globali; ma se poi si prendono decisioni che un leader locale giudica controproducenti, in alcuni posti non si mettono in pratica. C’è autonomia.

IPS: È difficile riunire diversi leader?

P: … (Sorride e prende in mano il cellulare)

IPS: Siete entrati a far parte della criminalità organizzata?

P: Se facessimo parte della criminalità organizzata, una buona parte di pandilleros non sarebbe in prigione, e saremmo prosperi, avremmo la polizia dalla nostra parte, come fa la mafia in altri paesi.

IPS: Le autorità attribuiscono alle pandillas la maggior parte dei delitti, e il 70 per cento degli omicidi.

P: Non è umanamente possibile... Molti gruppi si fanno scudo delle pandillas. Siamo i capri espiatori. Esistono altri gruppi criminali, c’è molta gente che ha fame e commette atti criminali. Ma come dice il proverbio, “fatti la fama e dormici sopra”.

IPS: Qual è il tuo futuro come pandillero?

P: Nella mia zona, la mia “clica” (banda) è disarticolata. La maggior parte dei membri è in galera e appena qualcuno esce, lo rimettono subito dentro, che abbia o meno commesso un altro reato. La polizia e la procura mettono in prigione i pandilleros senza prove.

Ho alcuni amici che per anni non sono stati più attivi nella pandilla, ma per il solo fatto che vivevano nel mio quartiere li hanno presi di nuovo, li hanno associati a delitti in cui non c’entravano niente, e condannati a tantissimi anni di carcere.

Voglio finire gli studi e diventare giornalista. Il mio obiettivo, tra cinque anni, se non sarò in carcere, è vivere in un luogo stabile, lavorare e forse avere un nuova famiglia, un altro figlio. Aiutare la mia Puka.


Tratto da:
La violenza è la nostra compagna di vita di Raúl Gutiérrez
su IPS
, Italia, 29 settembre 2008


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lunedì 29 settembre 2008

Palestina: alta tensione


Pian piano, ma con passo costante, la tensione cresce, in Israele e Palestina. Il periodo è delicato, si sa. Elezioni, transizioni, incarichi esplorativi, presidenti a fine mandato... La tensione, però, è di quelle che cresce con episodi piccoli, che non fanno notizia, sino ad arrivare a gesti che scuotono l'ambiente, come il ferimento del professor Zeev Sternhell, noto pacifista , storico del fascismo europeo, un uomo di una certa età che vive da molti anni in una casetta con giardino, in un quartiere tranquillo di Gerusalemme ovest, dov'ero stata molti anni fa, per una lunga intervista nel suo piccolo studio 'intriso' di libri. Quartiere tranquillo, anonimo quasi, sino a che Sternhell non è stato ferito (per fortuna leggermente) in un attentato dalla chiara matrice di destra. Della destra radicale. Attentato che poteva costare a Sterhell entrambe le gambe.

Prima e dopo il ferimento di Sternhell, però, gli episodi dell'Alta Tensione ci sono stati, in numero sempre crescente. Da una parte e dall'altra. Lanci di pietre, ogni sera: ieri sera a ovest di Betlemme e dalle parti di Hebron, bersaglio macchine e autobus israeliani, là dove la crescita delle colonie non accenna a fermarsi. Lanci di pietre che fanno seguito alla notizia dell'uccisione di un ragazzo palestinese di 18 anni nella Valle del Giordano. Lo hanno trovato crivellato di colpi, vicino a una colonia. I palestinesi accusano i coloni. Le autorità israeliane indagano.

E così, Haaretz ha oggi il secondo (forse il terzo?) titolo in sei mesi su di una possibile "terza intifada"..., proprio quando il dimissionario Ehud Olmert dice che Israele può solo cedere territorio, se vuol raggiungere un accordo: l'ultima chance prima che l'ipotesi di due stati uno accanto all'altro non ceda del tutto il passo alla cosiddetta one state solution (per ora irrealizzabile). Ora, né Olmert né tantomeno Haim Ramon, colui che appare in questi mesi come l'architetto del negoziato, almeno su Gerusalemme, vogliono ritornare alla linea del 1967. Niente di tutto ciò. Si parla di cessione di territori occupati solo in misura molto parziale, per raggiungere almeno un'intesa.

La Gerusalemme est di cui parla Ehud Olmert non è la Gerusalemme est occupata nel 1967, perché nel frattempo sono stati costruiti quartieri ebraici dentro la parte orientale che ospitano circa 200mila israeliani. E lo stesso vale per la Cisgiordania: le colonie che potrebbero essere smobilitate sono poche, rispetto agli insediamenti costruiti dalla nascita di Gush Emunin in poi. E saranno molto probabilmente quelli che si collocano ora a est del Muro di separazione, diventato de facto il possibile confine di Israele.

La frase preoccupante dell'articolo di Haaretz è l'ultima, quando dice che un episodio violento da parte dei coloni potrebbe fare da detonatore, come - dicono gli autori dell'articolo - successe con la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, esattamente otto anni fa. Una passeggiata che fu la miccia della seconda intifada. Un episodio, stavolta, potrebbe accendere del tutto il disagio crescente in Cisgiordania, dove la Fatah della base non va d'accordo con la Fatah che gestisce ora i servizi di sicurezza palestinesi, e che nello scorso anno e mezzo ha arrestato centinaia e centinaia di militanti di Hamas. Se un giorno scoppiasse una rivolta, non potremo certo dire che non ce lo aspettavamo.


Tratto da:
Alta Tensione di Paola Caridi
su invisiblearabs, Italia, 29 settembre 2008



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Parigi studia l’ipotesi dello scioglimento del partito basco Batasuna


Giovedì 25 settembre, il primo ministro spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero aveva confermato la sua intenzione di chiedere lo scioglimento, in Francia, del partito basco Batasuna, sospettato di appoggiare l’ETA.

La ministra francese dell’Interno, Michèle Alliot-Marie aveva inizialmente fatto sapere di non aver ricevuto alcuna domanda formale al riguardo ma poi Parigi, sotto la pressione di Madrid, si è chinata sullo scenario della messa al bando di Batasuna, che in Spagna è è stato sospeso nel 2002 perchè considerato la vetrina politica dell’ETA e poi definitivamebnte interdetto un anno dopo.

La notizia viene riportata dal quotidiano francese le Monde, il quale rileva come da tempo speciali commissioni d’inchiesta congiunte franco-spagnole collaborino nella lotta contro l’organizzazione separatista basca dell’ETA, una collaborazione che in futuro potrebbe estendersi ad un terreno giuridico e politico.

Batasuna in Francia è legale e addirittura ha una sua sede ufficiale a Bayonne, cittadina nei Pirenei Atlantici, ad una trentina di chilometri dal confine spagnolo. L’articolo di Le Monde spiega che in territorio francese Batasuna non è stato costituito come partito politico ma è registrato con lo statuto giuridicio di “associazione” e secondo una legge francese che risale al 1901 questo ne fa un organismo protetto.

Mercoledì scorso, nell’ambito di un’inchiesta di finanziamenti e dei legami di Batasuna con l’ETA, la sede di Bayonne è stata perquisita dalla polizia. Sono state arrestate una quindicina di persone legate alla causa basca, fra cui alcuni responsabili di Batasuna ma l’operazione non ha condotto a nulla di tangibile e gli arrestati sono stati tutti rimessi in libertà.

“L’inchiesta prosegue - ha commentato la magistratura di Parigi - perchè la diramazione in Francia di Batasuna è seriamente sospettata di finanziare l’ETA. Lo scopo è dichiarare illegale Batasuna anche in Francia e proibirne le attività.”
Nel dipartimento della Loira, martedì scorso erano stati arrestati Uno Faino e Maria Lizarraga Merino (nella foto), sospettati di appartenere all’apparato militare dell’ETA e per i quali vi era un mandato di cattura a livello europeo. I due verranno estradati in Spagna fra qualche giorno.


Tratto da:

Parigi studia l’ipotesi dello scioglimento del partito basco Batasuna
su Ticinolibero.ch, Svizzera, 28 settembre 2008

Articoli di riferimento:
Il Tribunal Supremo spagnolo mette fuori legge ANV, partito basco considerato successore di Batasuna



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Ecuador: il Presidente Correa proclama la vittoria del sì nel referendum costituzionale


Schiacciante successo del 'si' nel referendum per la nuova Costituzione ecuadoriana promossa dal governo di Rafael Correa. Il ‘sí’ ha ottenuto una solida maggioranza del 65,2% a metà dello scrutinio, secondo quanto annunciato dal Tribunal Supremo Electoral (TSE). Il ‘no’ alla Costituzione, promosso dalle opposizioni, ha raggiunto finora il 27,02%, mentre le schede bianche e non valide sono il 7,64%.

Fondata su un 'modello di economia sociale e solidaristica', definito anche “socialismo del XXI secolo”, la nuova “Carta Magna” intende modificare in termini sostanziali l'assetto di potere in vigore finora, ritenuto molto ingiusto nei confronti dei nativi e della popolazione più povera e prevede, tra le sue principali prescrizioni, cinque diversi tipi di proprietà: pubblica, privata, mista, popolare e solidale. Rilevante è anche il divieto assoluto di installare basi militari straniere nel paese; in base a questa novità potrebbe decadere l’accordo che dal 1999 consente agli Stati Uniti l’utilizzo di una struttura ecuadoriana, ufficialmente concessa per operazioni aeree antidroga.

Tra le altre novità, le riforme previste da Correa comprendono una radicale riforma agraria con espropriazione e ridistribuzione delle terre; il controllo statale rigido su settori strategici come il petrolio, l'estrazione mineraria e le telecomunicazioni; l'assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani; l'unione civile dei gay; pene ridotte e tolleranza per l'uso individuale di stupefacenti; il controllo diretto del Presidente eletto sulla politica monetaria in sostituzione della banca centrale, e il potere del Presidente di sciogliere le Camere durante il mandato di quattro anni rinnovabili.

9,7 milioni di Ecuadoriani sono stati chiamati alle urne. Secondo gli osservatori le votazioni si sono svolte normalmente, senza violenza o gravi incidenti in tutto il paese e all'estero. In assenza di risultati ufficiali, le proiezioni elaborate dalla società demoscopica Santiago Perez suggerisce che il ‘no’ ha raccolto solo il 23,8% dei voti. Un altro studio, compilato dalla Cdatos-Gallup, punta a una vittoria del ‘sì’ con il 69% dei voti, rispetto al 26% del ‘no’.

Il Presidente Correa ha aspettato la chiusura dei seggi per proclamare la "storica vittoria" del ‘sí’ nel plebiscito.
Da Guayaquil, la sua città natale, dove si trovava nell’attesa dei risultati, Correa ha fatto appello alla "unità" per il paese e ha assicurato che coloro che "hanno mentito e hanno cercato di ingannare" durante la campagna referendaria "dovranno assumersi le loro responsabilità". "L’Ecuador ha deciso di essere un paese nuovo, le vecchie strutture sono saltate; questa è la conferma di quella rivoluzione cittadina che abbiamo offerto al popolo nel 2006", ha dichiarato Correa nel suo discorso, riferendosi all’anno inc ui ha vinto le elezioni.

"Rinfondare" l’Ecuador

La nuova Costituzione approvata in Ecuador è il culmine dei primi due anni in carica del presidente Rafael Correa. Tutto ciò che ha fatto dal momento che ha assunto il potere, il 15 gennaio 2007, è stato finalizzato ad acquisire una nuova Magna Carta, come è stato detto molte volte, per "rifondare" l’Ecuador dalle fondamenta. Correa ha promosso un referendum per chiedere agli Ecuadoriani se volevano una nuova costituzione e la gente lo ha approvato, quindi ha sciolto il Parlamento eletto nel 2006 per eleggere una Assemblea costituente e ha costruito un sito apposito a Montecristi, luogo di nascita di Eloy Alfaro, l'eroe nazionale, per redigere il nuovo testo costituzionale. "Se non viene approvato me ne vado", aveva avvertito Correa.

La nuova Costituzione, la ventesima dal disfacimento della Gran Colombia nel 1830, è l'ultimo dei progetti di riforma costituzionale che in meno di un anno sono stati lanciati dai tre governi considerati più di sinistra in America del Sud. Il testo del presidente Hugo Chávez, il più radicale, si è schiantato contro il ‘no’ nella consultazione popolare alla fine del 2007. La Costituzione della Bolivia di Evo Morales, dalla parte degli indigeni, ha provocato una forte divisione nel paese. E' stata approvata dal governo in una caserma militare nelle prime ore del mattino, in assenza dell’opposizione. I sanguinosi scontri che si sono verificati da allora hanno impedito che possa essere sottoposta a referendum. E 'stata rinviata ancora e ancora. L'ultima data prevista è il prossimo 25 gennaio.

Socialmente avanzata

Il nuovo testo ecuadoriano è socialmente uno dei più avanzati del continente. Estende la copertura sanitaria e scolastica. Il lavoro è vietato ai minori sotto i 15 anni ed è considerata obbligatoria la frequenza scolastica fino al completamento delle scuole superiori. Riconosce il diritto a emigrare e garantisce i diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie nei paesi di destinazione, così come agli immigrati in Ecuador. Include anche la famiglia nelle sue "varie tipologie", vale a dire, per esempio, tutte le coppie non sposate, indipendentemente dal fatto che siano dello stesso sesso, devono avere tutti i diritti del matrimonio. Molti detrattori di Correa non contestano nemmeno uno di questi contenuti della Magna Carta, ma non vedono possibilità di finanziamento.

Anche quando si hanno le migliori intenzioni, Correa sa che per un paese che sta crescendo a un tasso compreso tra il 3 e il 4% annuo, uno spreco di risorse pubbliche è una trappola. Il presidente ha fatto capire che, se l'imposta sul reddito regolare e le entrate derivanti dal petrolio non sono sufficienti, si fermerà il pagamento del debito estero per coprire le spese. Tuttavia, questo comporta il rischio che all'Ecuador si chiudano le porte del credito internazionale, che per ogni dollaro ricevuto gli venga chiesto di pagare un’enormità di interesse, che possa ricorrere solo al Venezuela che, come ben sanno gli altri paesi della regione, non dà via il denaro ma lo presta a un tasso di interesse non da disdegnare.

Molti economisti hanno già richiamato l'attenzione, sia all'interno che all'esterno del paese andino, sull'escalation del deficit correlato all’aumento della spesa pubblica. Nei primi sei mesi del governo di Correa gli esborsi statali non compresi i pagamenti del debito estero hanno raggiunto i 2.312 milioni di dollari, secondo la banca centrale dell'Ecuador. Nello stesso periodo di quest'anno la cifra era salita a 5.630 milioni, un 143% in più. I sussidi per i diversi settori e i programmi sociali sono aumentati dal 3,2% del PIL nel 2003 a oltre il 12% quest’anno. Quasi il 40% del bilancio è destinato alle sovvenzioni.

La rielezione, altro punto controverso

Un altro punto controverso della Costituzione è l'immediata rielezione per un ulteriore periodo di quattro anni. Con l’approvazione del testo è quasi certo Correa convocherà elezioni nel primo trimestre del prossimo anno e, in teoria, potrebbe rimanere al potere fino al 2017. Vi è la possibilità di revocare legalmente il mandato presidenziale, ma i requisiti per l'avvio del processo non sono facili da soddisfare. Per cominciare si richiede il 15% delle firme degli elettori, quasi 1,5 milioni di voti. Per qualsiasi altra autorità (governatori, sindaci) la percentuale è inferiore, il 10% delle firme.

Gli indiani, circa il 20% dei 14 milioni di Ecuadoriani, si rispecchiano nel preambolo della Costituzione di un nuovo Stato multinazionale. L'articolo 257 consente alle comunità indigene di "formare circoscrizioni territoriali che esercitino le competenze di un governo territoriale autonomo". Per molti guiristi la nuova Costituzione può avviare la comunità indigene a reclamare il possesso di terre e risorse naturali e imporre la legge degli indigeni sugli altri. Tutto questo può influenzare i rapporti delle comunità con lo Stato, comprese le industrie e le Forze Armate in quanto vi possono essere rivendicazioni nelle zone di frontiera. Al contrario, i portavoce del CONAIE, la organizzazione che raggruppa quasi una trentina di nazioni indigene ecuadoriane, ha insistito sul fatto che la plurinanazionalità non comprometta il concetto di Stato unitario.


Tratto da:
Ecuador, referendum per nuova Costituzione, vince il 'sì'
su PeaceReporter, Italia, 29 settembre 2008
Rafael Correa proclama la "victoria histórica" del 'Sí' en el referéndum constitucional di Fernando Gualdoni
su El País, Spagna, 29 settembre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Ecuador: La scommessa del cambiamento

Ecuador - Domenica al via il referendum sulla nuova Carta ...


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domenica 28 settembre 2008

Ecuador: La scommessa del cambiamento


Il desiderio di cambiamento, di fondare un nuovo Ecuador, meno diseguale, più equo e giusto, costituisce la proposta del progetto di Costituzione che verrà sottoposta domani a referendum in questa nazione andina.

Questa Carta Magna, elaborata da un’Assemblea Costituente durata otto mesi, non è che il risultato di rivendicazioni accumulatesi negli anni e che si trasformarono in voti nel novembre del 2006 con l’elezione dell’economista Rafael Correa alla dignità di capo di stato.

La sua vittoria alle urne fu allora appoggiata da una maggioranza di popolo che, sospettosa verso i politici, ma armata di speranza, scommise sull’anelata trasformazione del paese.
Ci furono altre conquiste, come la consultazione del 15 aprile del 2007 sulla creazione di una Costituente con pieni poteri, durante la quale l’87,12% dei vontanti disse si all’Assemblea.

Subito dopo, il 30 settembre di quell’anno, gli ecuadoriani tornarono alle urne per eleggere i 130 membri di questa istituzione, che si incaricò di elaborare la nuova legge che domani sarà sottoposta a consultazione.

In quelle ultime elezioni, i sostenitori del presidente vinsero e occuparono la maggioranza dei seggi della Costituente, il che facilitò che si arrivasse a un progetto di Legislazione che chiudesse le porte al neoliberismo e aprisse il cammino alla costruzione di una società più giusta e solidale.

Per questo, il testo costituzionale costituisce il risultato di un processo di pace che cerca di consolidare la trasformazione di un paese ricco di risorse naturali, ma con una povertà che supera il 60% dei suoi 13 milioni di abitanti.

Per Correa, votare si per la Costituzione è un dovere ineludibile di tutti gli interessati a mettere fine alla disuguaglianza, alla miseria, al neoliberismo.
“Non vogliamo una società di poveri, vogliamo una società di proprietari, con uno sviluppo equo, una società con maggiore giustizia”, e ciò è riflesso nella nuova legge, ha sottolineato in chiusura di campagna elettorale nella notte di giovedì scorso.

Questi propositi si scontrano con una feroce resistenza mediatica che, controllata da gruppi di potere, si oppone alle riforme e ristrutturazioni proposte dalla Carta Magna, perché significherebbe la perdita dei loro redditi.

Articoli che stabiliscono la fine del latifondo, del monopolio nella gestione di terra e acqua, l’uguaglianza del diritto di acquisizione alla terra, ai mezzi di produzione e alla proprietà dello Stato sulle risorse naturali e strategiche, cozzano con gli interessi di questa classe danarosa, che per secoli si è arricchita nello sfruttamento delle risorse di tutti.

Perciò, la propaganda dell’opposizione, dei partiti di destra, è destinata a seminare timore, paura tra la popolazione, con dichiarazioni secondo cui questa legislazione porterà via la terra e la casa, e che il governo proibirà persino la proprietà privata.

Lo stesso presidente ha messo in guardia contro le intenzioni maliziose dell’oligarchia, che confonde il rafforzamento dello Stato con un presunto “iper-presidenzialismo”.

Correa ha sottolineato che vuole poter contare su uno stato capace di realizzare politiche che assicurino la sovranità energetica e alimentare, e ha chiarito che questa Carta Politica prevede tre tipi di proprietà: privata, sociale e solidale e di Stato.

Ha chiesto alla popolazione di non farsi ingannare da gruppi molto potenti che non hanno avuto scrupoli a mentire e manipolare delicati sentimenti e credenze, per non perdere i propri privilegi, i propri spazi e i fili con cui hanno sempre manipolato e controllato le coscienze.

Il Capo dello Stato ha sottolineato che la consultazione dovrà decidere tra due mondi, tra due modelli di sviluppo completamente differenti, nel settore economico, sociale, politico e ambientale.

I sostenitori del no, guidati dal sindaco socialcristiano di Guayaquil, Jiame Nebot, e altri leader di destra, sostengono che appoggiare questa costituzione toglierebbe poteri alle autonomie e darebbe maggiori privilegi al capo dello stato.

Gli ultimi sondaggi rivelano che la maggioranza degli ecuadoriani appoggia la nuova costituzione, che se verrà approvata sarà la ventesima nella storia di questa nazione.


Tratto da:
Ecuador: La apuesta al cambio di Leovani Garcia Olivarez
su Prensa Latina
, Cuba, 27 settembre 2008
tradotto da Gianluca Bifolchi per Achtung Banditen

Articoli di riferimento:
Domenica in Ecuador il referendum sulla nuova Carta Costituzionale



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L’Occidente attacca sul fronte bielorusso


Le opposizioni sino ad ora parlano di “iniqua campagna elettorale” e molti media occidentali di ispirazione americana sostengono che il paese è nelle mani dell’ultimo dittatore d’Europa. Si riferiscono all’“autocrate” che occupa la poltrona presidenziale di Minsk e tutto questo va nel conto del personaggio – il presidente Lukascenko - che l’ovest contesta e attacca in modo particolare mentre la Bielorussia va al voto per il rinnovo del Parlamento: 282 i candidati per 110 seggi. La contestazione locale, comunque, non è nuova, perchè la dissidenza continua a farsi forte dell’appoggio degli USA, del miliardario Soros e di tutte quelle organizzazioni cosiddette umanitarie spesso collegate direttamente ed indirettamente alla CIA, tramite il National Endowment for Democracy, che è una potente organizzazione statunitense creata nel 1983, con lo scopo di “rafforzare le istituzioni democratiche nel mondo mediante azioni non governative”.

Un’istituzione che utilizza le ONG dell’Est europeo per contrastare i governi che non si allineano agli USA come, appunto, è il caso della Bielorussia. E così contro la politica del Presidente si scatenano molti schieramenti che vorrebbero vedere una Bielorussia integrata pienamente nell’Occidente, lontana dalla Russia e dalle politiche della CSI, la Confederazione di Stati Indipendenti nata sulle ceneri dell’Unione Sovietica.

Lukascenko, intanto, resiste e attua una politica di rapporti normali con il Cremlino e con gli altri paesi dell’ex URSS e contesta gli attacchi che vengono rivolti al sistema elettorale vigente. Ricorda a tutto il Paese che queste elezioni avvengono anche sotto il controllo dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) dal momento che Minsk ha consentito l’accesso alle urne agli osservatori internazionali, per accorciare le distanze con Stati Uniti ed Unione Europea che chiedono garanzie democratiche. In questo contesto di aperture democratiche, Lukascenko fa anche notare che, per la prima volta in dieci anni, nelle liste si sono ritrovati 70 candidati dell’opposizione. Le leggi elettorali, inoltre, sono state riviste e corrette in modo da venire incontro alle richieste dell’Occidente. Questo vorrà dire che Minsk è pronta a convivere con l’opposizione, sparita dal Parlamento quattro anni fa.

Nonostante queste novità di rilievo c’è però chi, contestando il sistema elettorale, ha deciso di astenersi dalla consultazione. Domina infatti molto scetticismo sulle reali possibilità di svolta democratica in Bielorussia. E da oggi in poi - sulla base dei risultati delle legislavive – si vedrà se l’Unione Europea, alleggerirà o meno le sanzioni economiche imposte a Minsk. Ma è chiaro, intanto, che le opposizioni si faranno sentire. In primo luogo alzeranno la voce personaggi come Alexander Milinkevich (che nel 2006 cercò invano di sfidare Lukascenko alle presidenziali ricevendo anche un assegno di 50mila euro grazie al Premio Sacharov), Aleksander Kozulin (ex ministro dell'Istruzione e rettore dell'Università statale bielorussa passato poi all’opposizione) e Anatoli Lebedko, leader della formazione “ODS”.

La leadership di Lukascenko sembra però sempre dominante. Il Presidente – pur se chiacchierato - trova consensi per la sua politica interna ed estera e per i princìpi che ispirano la sua concezione economica. Viene sempre più alla luce il suo carattere di uomo d’azione, legato alla tradizione, la cui politica ha appunto l’appoggio della schiacciante maggioranza della popolazione bielorussa. Perché quindi – nonostante accuse ed attacchi - tanta popolarità? La risposta per capire il “fenomeno bielorusso”, notano gli analisti più accreditati, consiste nel fatto che la Bielorussia è l’unico paese, all’interno della CSI e dell’Europa orientale, ad essersi espresso contro ogni tipo di aiuto ispirato a princìpi e idee occidentali, ad aver avuto il coraggio di dichiarare apertamente la decisa volontà di scegliere una via di sviluppo del tutto autonoma, che rispetti le tradizioni nazionali e risponda ai propri interessi.

Non va poi sottovalutato il fatto che dopo il crollo dell’URSS e la dichiarazione di indipendenza dell’agosto del 1991, la Bielorussia è riuscita a superare indenne le guerre politiche esplose nei territori postsovietici. Si è sapientemente tenuta fuori dal gioco di determinate scelte geopolitiche: o avvicinarsi alla Polonia e alla Lituania o entrare a far parte della cosiddetta “Federazione Baltico-Mar Nero” con l’Ucraina e la Lituania. Ha mantenuto una sorta di equidistanza interpretando e realizzando le aspirazioni più profonde della coscienza nazionale. Nessuna capitolazione di fronte a Mosca, ma nessun movimento anti-russo. Ed ha anche saputo ricomporre lo storico mosaico delle etnie.

Sta in questo, forse, il vero segreto della gestione di Lukascenko dal momento che il suo “opportunismo” ha alle radici un pragmatismo elementare e un populismo profondamente legato alle tradizioni slave orientali. C’è nella sua linea politica una particolare concezione del mondo e della vita, che è comune a buona parte della popolazione russa, bielorussa e ucraina. E che, tuttavia, ha poco in comune con il fondamentalismo religioso o comunista. Ad esempio, il rapporto che Minsk ha con le nuove oligarchie è piuttosto critico, ma non ostile. Si può così parlare di una Bielorussia che da un lato cerca di far sopravvivere le vecchie tradizioni sovietiche unendo a tutto questo un rispetto notevole per il libero mercato, per l’imprenditoria e l’Occidente in generale. Severità e precauzione è lo slogan dell’era di Lukascenko.


Tratto da:
L’Occidente attacca sul fronte bielorusso di Giuseppe Zaccagni
su Altrenotizie
, Italia, 28 settembre 2008


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sabato 27 settembre 2008

Birmania, un anno dopo


26 settembre 2007. Da giorni una fiumana interminabile di monaci con le loro tonache rosso scuro marciavano insieme alla popolazione di Rangoon e di molte altre città, per protestare contro la dittatura militare. Molti marciavano con le ciotole rivoltate all’ingiù.Avevano deciso di respingere le offerte di cibo dei membri della giunta militare come segno di grave disaccordo. Le potenti immagini di questa pacifica rivolta hanno inondato gli schermi delle televisioni del mondo e i giornali.

La scintilla era scoppiata alla fine di agosto quando la giunta aveva deciso di togliere i sussidi al carburante, al gas e alla benzina, provocando aumenti fino al 500% dei prezzi. L’opposizione aveva colto questo giro di vite per dispiegare il dissenso politico e sociale, così come era avvenuto 20 anni prima: nel 1988. Due sono state però le grandi differenze tra le manifestazioni di allora e quelle dello scorso anno. Il movimento democratico in questi venti anni è riuscito ad organizzarsi pur nella quasi totale assenza di sostegni politici ed economici da parte delle grandi democrazie, che non sono andate molto al di la dei comunicati, delle risoluzioni, delle dichiarazioni.

Il secondo elemento di cambiamento è stato prodotto dalla tecnologia. Le manifestazioni del 1988 sono state represse duramente nel sangue con oltre 3.000 morti, senza che il mondo potesse esserne testimone. Lo scorso settembre grazie ai telefonini, ad internet si è potuto sapere e vedere in tempo reale. Oltre 100 furono i morti. Sono caduti sotto il fuoco dei fucili dei militari, mentre manifestavano pacificamente. Uccisi dalla polizia e dall’esercito mandato per colpire e spazzare via nel sangue la protesta pacifica. Li abbiamo visti galleggiare nell’acqua di un fiume, schiacciati dalle ruote di camion militari, uccisi, come è avvenuto il 27 settembre al fotoreporter giapponese Kenji Nagai, armato di sola telecamera. Oltre 6.000 persone furono arrestate, compresi 1.400 monaci.

Molte le persone che si sono nascoste e che hanno vissuto quest’anno in clandestinità. Il mondo si è vestito di arancione, ha mostrato il suo sdegno manifestando di fronte alle ambasciate di tutto il mondo, ha chiesto un diverso impegno internazionale. Stupì all’epoca di questi avvenimenti che il governo italiano, su indicazioni della nostra diplomazia, durante il dibattito parlamentare su una mozione presentata dalla Senatrice Solian, registrasse sviluppi positivi nel dialogo con le agenzie internazionali in una situazione in cui, invece, il Relatore speciale sulla Birmania del Consiglio per i diritti umani dell'ONU, Paulo Sergio Pinheiro, aveva continuato ad esprimere la profonda preoccupazione per la continuazione delle violazioni dei diritti umani. All’epoca durante i tragici avvenimenti ancora in Italia si pensava di invitare i rappresentanti della giunta ad un corso sul diritto umanitario e si riteneva che il rafforzamento della Posizione Comune Europea non fosse accettabile in quanto tale inasprimento difficilmente avrebbe prodotto dei risultati e rischiando invece di rafforzare l’auto isolamento della giunta.

In Europa dopo le pressioni generalizzate, e un cambiamento di rotta anche del governo italiano, si poi è finalmente ottenuto l’impegno perché imporre delle vere sanzioni economiche, fino ad allora irrisorie e solo nominali. Sanzioni che sono entrate in vigore solo a marzo 2008 e che non comprendono settori vitali per la giunta come quello del gas, il settore finanziario, le banche e le assicurazioni. Marzo. Solo 6 mesi fa. E già oggi qualche autorevole voce sostiene che le sanzioni non hanno prodotto risultati e che si dovrebbe usare il bastone e la carota e forse più la carota che il bastone. In realtà la giunta militare birmana sino ad oggi ha goduto di molte aperture, sul piano politico ed umanitario.

Poi è arrivato propiziamente, per la giunta, il ciclone Nargis. Anche in questa occasione la brutalità della giunta non si è fatta attendere. Gli oltre 440.000 militari, il decimo esercito al mondo, non è stato impiegato da subito in questa tragedia umanitaria, ma è stato mobilitato per mandare avanti i piani della giunta. Si doveva attuare il referendum per la approvazione di una nuova costituzione, che avrebbe garantito per il futuro il potere ai militari, mostrando al contempo una vernice di democrazia, per i governi più esigenti. E così è stato. Il referendum si è tenuto il 10 maggio a solo una settimana dal ciclone, e il 24 maggio nelle zone colpite dalla sciagura. La gente è stata costretta a votare di fronte ai militari e ai funzionari governativi. E’ stata minacciata, ricattata, obbligata. E il risultato è stato scontato. Le organizzazioni umanitarie internazionali hanno dovuto chiedere in ginocchio di aprire le frontiere agli aiuti. Ban Ki moon si è recato in Birmania in missione umanitaria e ha promesso aiuti internazionali chiedendo disperatamente l’apertura delle frontiere per cercare di sbloccare la situazione. Qualche governo ha chiesto un intervento urgente a fronte di tanta indifferenza della giunta. Tre milioni di persone colpite direttamente, circa 200.000 morti. La giunta ha imposto condizioni e controlli rigidissimi ai cooperanti internazionali. Molte delle risorse umanitarie sono state drenate illegittimamente dai militari e dai tassi di cambio imposti. Si dice che la giunta non sia stata mai tanto ricca anche se si è arrivati ad una inflazione pari al 50%.

Nello stesso periodo la giunta ha prorogato di un altro anno gli arresti domiciliari della leader birmana Aung San Suu Kyi. L’ONU è intervenuta inviando solo poche settimane fa Ibrahim Gambari a Rangoon. Ma anche questa missione è stata inconcludente. Than Shwe, il grande capo, si è rifiutato di incontrarlo e questa volta anche la leader birmana non ha incontrato il rappresentante ONU. Anzi. Aung San Suu Kyi dal 16 agosto al 15 settembre ha messo in atto una sorta di sciopero della fame, rifiutando di prendere le scorte alimentari che le venivano recapitate al cancello della sua casa prigione. Solo le pressioni del suo avvocato che aveva riscontrato il grave deperimento del suo stato di salute hanno convinto la Signora a desistere da questa iniziativa di protesta.

Oggi di fronte a tutti questi avvenimenti, agli oltre 2130 prigionieri politici ancora in carcere, alla attuazione caparbia da parte della giunta della road map per la democrazia che avrà il suo culmine con le elezioni del 2010, al lavoro forzato, ai bambini soldato, al fatto che Transparency International indica la Birmania come il paese più corrotto al mondo, oggi l’opposizione birmana chiede al mondo e all’Italia un atto di coraggio: il ritiro delle credenziali della giunta militare all’ONU. Immediatamente arriva la risposta della giunta che conosce bene gli spazi e a volte la superficialità interessata della diplomazia internazionale. Due giorni fa vengono liberati 9002 detenuti civili, molti sono disertori, piccoli ladri, gente in carcere per reati minori. Solo 6 sono i prigionieri politici liberati. Uno dei quali: U Win Htein, 67 anni, condannato nel 1996 a 14 anni di carcere, è arrestato nuovamente il giorno dopo. A settembre 2007 i detenuti politici erano 1000, oggi sono 2.130.

Un segno di apertura, ha dichiarato Ban Ki moon dopo la liberazione dei detenuti ed ha chiesto la liberazione degli altri detenuti politici.
Si dice che la richiesta di ritiro delle credenziali sia intempestiva? E quando sarà tempestiva? Quando il sangue di ulteriori morti bagnerà di nuovo le strade di Rangoon? Quanti prigionieri politici dovranno soffrire il carcere? Quante migliaia di lavoratori forzati dovranno subire quest’ oltraggio? Quanti bambini soldato ancora? Quante ragazze, donne e anziane dovranno essere ancora stuprate per affermare che questa giunta non può rappresentare il popolo birmano nelle sedi internazionali?

La giunta punta alle elezioni del 2010, qualcuno afferma che “bisogna lavorare perché le elezioni siano libere e corrette”. Ma il governo in esilio, i parlamentari in esilio, il sindacato e le organizzazioni democratiche birmane, l’NLD, il partito di Aung San Suu Kyi, chiedono un tavolo negoziale per modificar la costituzione arbitraria appena approvata e chiedono di non riconoscere la scandenza elettorale, che legittimerà la giunta militare. Sicuramente la diplomazia e Ban Ki moon che andrà in missione politica a Rangoon devono spingere per la liberazione dei prigionieri politici e l’apertura di un tavolo negoziale in tempi certi per rivedere la costituzione. L’ONU, la UE e i governi devono agire politicamente e la richiesta di ritiro delle credenziali alla giunta militare rappresenta uno strumento importante di pressione, insieme alle sanzioni economiche e al dialogo diplomatico. Il governo in esilio ha appoggiato la richiesta dei parlamentari birmani e ad agosto in un comunicato ha affermato:

..” la cricca militare dell’SPDC non ha la legittimità a rappresentare la Birmania o il popolo del paese come si è reso evidente dai risultati delle elezioni multipartitiche e democratiche del 1990, dai giudizi del popolo di tutte le nazionalità in Birmania e secondo la legislazione internazionale. Poiché la cricca non è niente altro che un gruppo di dittatori militari, che ha usurpato illegalmente il potere dello stato attraverso la forza, qualsiasi atto effettuato per evidenziare l’illegittimità della cricca o per sfidare le sue credenziali alle Nazioni Unite o in ogni altra arena internazionale da parte di qualsiasi organizzazione all’interno del paese o all’estero è giustificatamente corretta e anche diritto di tale organizzazione”

Per cui, in conclusione, l’NCGUB desidera dichiarare che politicamente ed in principio accoglie positivamente e concorre alla richiesta di impugnare le credenziali della clicca militare birmana alle Nazioni Unite da parte delle forze democratiche guidate dalla International Burmese Monks Organization, la Sasana Moli, e l’ NCUB.”
Chi conosce un pochino la storia dell’ONU sa che la denuncia delle credenziali apre un percorso politico importante. Lo è stato per il caso del Sud Africa. Le credenziali del governo furono rigettate dal Comitato Credenziali ONU nel 1970 e questa decisione fu interpretata dal presidente della Assemblea Generale ONU come un fatto che non impediva al governo di questo paese di partecipare ai lavori ONU e infatti, dal 1970 al 1972, l’Assemblea Generale non ha accettato né rigettato le credenziali della delegazione di questo paese. Le credenziali furono rigettate nuovamente dal Comitato Credenziali nel 1974. Queste furono rigettate anche dall’Assemblea Generale ONU che chiese una decisione da parte del Consiglio di Sicurezza, il quale nel 1974 non decise di rifiutare le credenziali del Sud Africa ma decise e impose l’embargo sulle armi nel 1977 e dichiarò poi nel 1984 la costituzione come “nulla e priva di forza legale”. Lo stesso è avvenuto per l’Ungheria dopo i fatti del 1956. le credenziali furono ritirate sino al 1963, quando il regime potè dimostrare il controllo pieno del paese, senza più l’assistenza di forze straniere…
Molti altri sono stati i casi: Cambogia, Yemen, Congo. Afghanistan, per il quale dal 1996 al 2000 i Talebani furono esclusi dalla rappresentanza all’ONU. Haiti, quando nel settembre 1991 i militari effettuarono un colpo di stato e il Comitato Credenziali ONU decise di non accettare le credenziali del governo militare. Lo stesso avvenne per il caso della Sierra Leone nel 1996.

La storia di queste decisioni è un dato importante che non può essere sottaciuto. Oggi, ad un anno dai tragici avvenimenti, la giunta militare cerca ancora una volta di ottenere credito. Sta al mondo non perdere traccia di quanto è successo e agire di conseguenza, spetta ai governi accompagnare il deciso negoziato politico diplomatico diretto e mediato dall’ONU con altrettanta decisione e impegno, soprattutto a sostegno delle legittime decisioni dei rappresentanti del popolo birmano. Quelli eletti nelle uniche libere elezioni del 1990.


Tratto da:
Birmania, un anno dopo di Cecilia Brighi
su Articolo21 Liberi di
, Italia, 27 settembre 2008

Articoli di riferimento:
I birmani sono allo stremo, ma la giunta pensa al referendum



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Siria: autobomba a Damasco almeno 17 morti


Questa mattina in Siria un'autobomba è esplosa sulla strada che porta all'aeroporto della capitale Damasco. Secondo la TV di stato siriana sono morte almeno 17 persone e circa 14 sono remaste ferite. E’ stato il più sanguinoso attentato dinamitardo in Siria da decenni e arriva sette mesi dopo l'uccisione con un’autobomba dell'ex capo della sicurezza della milizia sciita libanese Hezbollah, Imad Mughniyeh, nel febbraio scorso.

L'esplosione si è verificata nei pressi di Saydah Zeinab, un santuario per i musulmani sunniti a meno di dieci chilometri di distanza che è frequentemente visitato da pellegrini iraniani e iracheni, e precisamente in Mahlak Street, un'affollata strada residenziale nella parte sud della capitale. Nella zona si trova anche una sede dell'intelligence, ma di solito le auto non possono parcheggiare nelle vicinanze e non è chiaro quanto fosse vicino al palazzo l'ordigno. La notizia è stata diffusa dalla televisione siriana. Le forze di sicurezza hanno intanto circondato l'area.

Non è ancora chiara la dinamica dell'attentato, non ancora rivendicato. La TV di stato ha spiegato che la macchina era imbottita di 200 chili di esplosivo, ma per Al Jazeera sarebbe una stima esagerata. Secondo un'emittente televisiva privata siriana, l'autobomba ha preso di mira una sede dei servizi di sicurezza.

Il ministro degli Interni siriano, Bassam Abdul-Majid, ha definito l'esplosione un "atto terroristico" e ha confermato che le vittime sono tutte civili che passavano per caso al momento dell’esplosione. Ma ha evitato di dire chi ci sia dietro l'accaduto. "Non possiamo accusare nessuno. Sono in corso indagini che ci condurranno a chi ha compiuto questo", ha detto Abdul-Majid alla TV di stato.

Il mese scorso un alto responsabile della sicurezza è stato assassinato in una spiaggia vicino alla città di Tartous.

Il 22 settembre scorso le autorità libanesi avevano annunciato che la Siria aveva inviato rinforzi militari al confine con il Libano per motivi di sicurezza interna, secondo Damasco. Circa 10.000 soldati siriani pattugliano la zona di frontiera con il Libano.


Tratto da:
Autobomba esplode a Damasco, uccise almeno 17 persone
su La Repubblica.it
, Italia, 27 settembre 2008
Al menos 17 muertos al estallar un coche bomba en Damasco
su El País
, Spagna, 27 settembre 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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venerdì 26 settembre 2008

Domenica in Ecuador il referendum sulla nuova Carta Costituzionale


Domenica 28 settembre l’Ecuador sarà teatro di quella che il suo presidente ha definito “la madre di tutte le battaglie”. Nove milioni di cittadini si recheranno alle urne per decidere il destino della Nuova Magna Carta, risultato del lavoro dell’Assemblea costituente che per otto mesi – da novembre a luglio – ha messo nero su bianco il sogno di tanti: le basi per un paese più giusto, più equo, più solidale. La vittoria del “no”, infatti, significherebbe una sconfitta epocale non solo politica, in quanto lascerebbe senza ossigeno la strada del cambiamento così faticosamente intrapreso dal piccolo Stato sudamericano.

In gioco non c’è solo la riconquista della sovranità nazionale, da decenni minacciata da interessi economici di multinazionali senza scrupoli che si sono spartiti territorio e risorse grazie a governi compiacenti; non c’è solo l’affermazione della capacità di un Stato finora schiavo dei grandi poteri di riprendere le redini del suo destino, regolando e ridistribuendo secondo l’interesse nazionale; non c’è solo l’installazione di basi egualitarie per avviarsi verso uno sviluppo sostenibile. Come ha spiegato Franklin Ramirez Gallegos di Le Monde Diplomatique “in gioco domenica c’è la continuità della trasformazione della matrice del potere sociale, in una direzione in cui le forze sociali popolari, che hanno dato impulso alla necessità di cambiamenti radicali in Ecuador, possano sostenere politicamente la propria esperienza organizzativa, riempire di contenuti democratici le loro proposte costituzionali e continuare nella lotta in nome del desiderio di cambiamento. Eccolo tutto il peso storico del voto cittadino del 28 settembre”.

Contrari, senza se e senza ma, a questa nuova Carta e a tutto quello che significa per il Paese sono la destra, i tradizionali gruppi del potere economico capeggiati dal sindaco di Guayaquil Jaime Nebot, e altri settori d’opinione trainati dall’Opus Dei, ossia il settore più oscurantista della Chiesa Cattolica. Per queste forze, quanto è uscito dall’Assemblea di Montecristi è totalmente da rigettare. Anzi la levata di scudi delle alte gerarchie ecclesiastiche contro una Costituzione che apre le porte alla legalizzazione dell’aborto e al riconoscimento delle unioni fra persone del medesimo sesso e che, in accordo con l’interpretazione data dall’intera cordata del “no”, rafforzerebbe eccessivamente il potere del Capo dello Stato, rende questa sfida non facile.

Le ultime inchieste danno il “sì” attestato sul 50 percento dei consensi, contro il 30 dei “no” e un 25 di pericolosamente indecisi, che rendono ogni previsione azzardata. Unica cosa certa, e insolita nella storia del paese, è il livello di partecipazione popolare alla discussione sul testo, diffuso in lungo e in largo. In ogni angolo non si parla d’altro, anche grazie ai grandi mass media, legati all’opposizione, che rendono difficile il compito di Alianza Pais e di Correa e con loro dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si stanno impegnando per diffondere il “sì” in nome di un nuovo Ecuador. Sono più di due milioni i centri appositamente creati dove si distribuisce e si spiegano gli articoli costituzionali, venendo incontro a ogni domanda e perplessità.

Per usare ancora le parole di Gallegos, contrariamente alla Costituzione adesso in vigore, nata nel 1998 in un quartier generale militare e senza tener conto della posizione del popolo, “la proposta del 2008 è l'insieme delle idee, domande, interessi emersi dalla resistenza popolare al neoliberalismo e dalle istanze di modernizzazione democratica e di trasformazione sociale dello Stato, della politica e dell’economia”. Una Carta che si basa, dunque, su un modello di sviluppo incentrato sull’uguaglianza sociale, sulla sostenibilità della sovranità economica e alimentare del paese, sul rafforzamento delle regole ambientali per lo svolgimento delle attività produttive, sul rafforzamento del principio di non discriminazione, della parità di genere e sul riconoscimento della plurinazionalità di uno Stato, culla di svariate culture e popolazioni ancestrali. La nuova Carta è un inno alla partecipazione sociale e democratica diretta, al primato del potere civile su quello militare, al suffragio universale (ampliato ai maggiori di 16 anni, agli ecuadoriani all’estero, agli stranieri). Il conflitto pluriennale che ha visto cadere per la rabbia popolare, uno dietro l’altro, i presidenti eletti, e che è sfociato nella Revolucion Ciudadania di Correa e nell’Assemblea Costituente appena conclusasi, ha dato quindi vita a questo testo, che esprime una visione del mondo condivisa da più parti. E il cammino per arrivare a tanto non è stato certo in discesa.

Anche all’interno della maggioranza, entità di diverse estrazioni ideologiche e tutt’altro che compatta, ci sono state defezioni, discrepanze, duri scontri. E le severe critiche e rotture non si sono fatte attendere. La più eclatante, quella con Conaie, la potente Confederazione di nazionalità indigene ecuadoriana, che, dopo aver presentato all’Assemblea un progetto di Costituzione che correggesse la storica esclusione delle popolazioni indigene e di altre minoranze, ha dovuto lottare con le unghie e con i denti affinché tali proposte venissero capite e incluse adeguatamente nei 444 articoli. E senza riuscirci completamente. Perché sul piano dei diritti delle popolazioni ancestrali questa Carta “resta carente” e la Confederazione promette lotta instancabile, specie sul piano minerario, contro ogni ulteriore estrazione petrolifera in barba ai diritti delle popolazioni ancestrali. Nonostante questo, però, la Confederazione ha deciso di promuovere comunque un “Si critico” in nome delle novità sociali, ambientali, culturali, economiche, di cittadinanza e sovranità che realmente la proposta di Montecristi garantisce. Basterà per incanalarsi nel vero rinnovamento?


Tratto da:
La madre di tutte le battaglie
di Viola Conti
su
PeaceReporter
, Italia, 25 settembre 2008


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Scambi di fuoco tra elicotteri della ISAF (NATO) e soldati pakistani


Il neo presidente pakistano Asif Ali Zardari ha tuonato contro le violazioni della sovranità territoriale di Islamabad da parte dell'esercito statunitense. "Non possiamo permettere che la nostra sovranità e integrità territoriale siano violate dai nostri amici", ha dichiarato il vedovo di Benazir Bhutto parlando ieri all'assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Zardari si riferisce agli attacchi che l'aviazione USA compie in territorio pakistano contro i miliziani filo-talebani che combattono in Afghanistan e trovano rifugio nelle zone tribali, lungo il poroso confine tra i due paesi.

La tensione tra le forze occidentali e l'esercito pakistano sul confine afghano è infatti in aumento dopo che ieri un elicottero USA è stato attaccato dalle truppe di confine pakistane.

Secondo Islamabad, i soldati pakistani hanno sparato dei colpi di avvertimento per allontanare due elicotteri americani che avevano attraversato la frontiera per entrare nella zona tribale del Nord Warizistan, nei pressi del villaggio di Saidgai.
Tali episodi sono abbastanza comuni da una decina di giorni ma per la prima volta dagli elicotteri americani sono partiti colpi di risposta verso il posto di frontiera pakistana. Le fonti statunitensi non parlano solo di colpi di avvertimento sparati a loro volta da unità di terra americano-afghane.

Da sottolineare anche che per la prima volta si è trattato di due elicotteri appartenenti alla ISAF (International Security Assistance Force), il braccio armato della NATO in Afghanistan, mentre in precedenza solo mezzi appartenenti all’operazione "Enduring Freedom" - la coalizione guidata da Americani - erano stati coinvolti in questo tipo di incidenti.

A Kabul l’ISAF ha negato che i suoi elicotteri abbiano attraversato la frontiera, garantendo che sono rimasti sul lato afghano nella Provincia di Khost. Il confine, chiamato "Durand Line" (istituito nel 1893 dagli inglesi), non è mai stato molto chiaro ed è soggetto a interpretazioni divergenti tra Pakistan e Afghanistan.

L’aumento di tensione tra le forze occidentali che operano in Afghanistan e il Pakistan è causato dalle ripetute incursioni di unità americane nelle aree tribali del Pakistan dove i santuari delle forze talebane, legate ad Al Qaeda, alimentano l'insurrezione afghana. Dopo un periodo iniziale di passività, il governo di Islamabad, di fronte ad una pubblica opinione sempre più antiamericana, ha dato ferma istruzione al suo esercito di rispondere a qualsiasi "violazione della sovranità nazionale".


Tratto da:
Zardari: no a volazioni territoriali da parte di ''amici''
su PeaceReporter, Italia, 26 settembre 2008
Echanges de tirs entre militaires pakistanais et américains di Frédéric Bobin
su Le Monde.fr
, Francia, 26 settembre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
L'esercito del Pakistan spara sugli elicotteri USA


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giovedì 25 settembre 2008

Verso una nuova guerra fredda?


Le relazioni tra Bolivia e Venezuela da una parte e gli Stati Uniti dall’altra sono ai minimi storici. Dopo che i due paesi latinoamericani hanno dichiarato gli ambasciatori Usa a La Paz e Caracas persona non grata, Washington ha risposto adottando identica misura. Ciò che risulta evidente da questa crisi è che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in America Latina , sia dal punto di vista diplomatico sia dell’esercizio di un’autorità morale in discussione come forse raramente in passato. Sia la Bolivia che il Venezuela si dicono pronti a riempire eventuali vuoti lasciati da Washington facendo ricorso alla Russia. Considerando anche i recenti eventi nel Caucaso, crescono i timori per una nuova guerra fredda che investa anche l’America Latina.

Come si spiega la crisi diplomatica nelle Americhe
L’episodio delle espulsioni di personale diplomatico tra Bolivia e Stati Uniti va inquadrato nel difficile processo di riforma costituzionale in atto in Bolivia. Il presidente Morales ha di fatto forzato una riforma costituzionale che limita l’autonomia delle province orientali, le più ricche del paese e feudo dell’opposizione, e che impone un’imposta redistributiva sugli idrocarburi. L’opposizione chiede invece maggiore autonomia soprattutto nella gestione dei proventi delle risorse petrolifere e gasifere. Lo scontro tra le due fazioni ha prodotto una trentina di morti, saccheggi e devastazioni di edifici pubblici e scarsità di approvigionamenti alimentari ed energetici.

Morales ha accusato l’ambasciatore nordamericano Goldberg di utilizzare i fondi della cooperazione Usa per sostenere invece l’opposizione e ha proceduto all’espulsione del diplomatico. Viene però da chiedersi quale reale interesse possano avere gli Stati Uniti, sostenitori della stabilità innanzitutto, nella disgregazione del paese. Tanto più che Morales si è dimostrato piuttosto efficiente nella lotta al narcotraffico, priorità numero uno di Washington in America Latina.

Il Venezuela ha espulso l’ambasciatore statunitense per solidarietà con la Bolivia. Chavez ha poi annunciato la scoperta di prove di un tentato colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti contro di lui. Per quanto le motivazioni immediate possano essere plausibili, nel caso del Venezuela più ampi interessi politici e strategici sembrano prevalere. Chavez è alla ricerca di un nuovo equilibrio di potere in America Latina e, in nome della lotta allo sfruttamento capitalista, punta a ridurre il ruolo e l'influenza degli Usa nella regione. In più le difficoltà del regime a livello interno consigliano di ridirezionare l’attenzione pubblica verso un nemico esterno e farne il responsabile di tutti i mali. Sarà anche una coincidenza, ma i governi di Morales e Chavez, oltre a essere alleati ideologici, sono anche quelli che meno risultati possono vantare al momento sul fronte economico e sociale interno.

La “mini-crisi” sembra in fase stallo e una escalation non appare probabile. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Mc Cormack, ha sottolineato come i destini di Bolivia e Venezuela non siano nelle mani degli Stati Uniti, ma dei popoli di quei paesi. Inoltre, gli Stati Uniti hanno ben altre preoccupazioni sul fronte medio-orientale e quello caucasico. Un’amministrazione agli sgoccioli, come quella di George Bush, difficilmente si imbarcherà in azioni significative in America Latina se non provocata. Dal canto suo, Chavez ha chiarito che non sono previste ulteriori misure mentre Morales accoglierebbe volentieri un ambasciatore Usa di orientamento diverso. Resta da valutare questo episodio nel più ampio contesto delle relazioni continentali.

Conseguenze per le relazioni Stati Uniti-America Latina
Ciò che emerge è la perdita di influenza degli Stati Uniti nel resto del continente. L’espulsione di personale diplomatico è una scelta grave, ma Bolivia e Venezuela sembrano averla operata a cuor leggero, con Chavez che si è spinto fino all’insulto nei confronti degli statunitensi. Bolivia e Venezuela non sembrano preoccuparsi poi troppo di perdere il favore, già precario, e gli aiuti di Washington. Fino ad un passato molto recente, qualsiasi crisi latinoamericana avrebbe visto Washington in prima fila al tavolo dei mediatori. Non è più così.

L’America Latina sembra finalmente decisa ad affrontare da sé i suoi problemi. La crisi andina del marzo 2008 è stata risolta con la “fattiva astensione” degli Stati Uniti per i giustificati timori che eventuali buoni uffici venissero invece recepiti come ingerenze indebite. Nell’attuale caso boliviano, i paesi latinoamericani hanno preferito fare da sé con la convocazione di un vertice straordinario della neonata Unione dei paesi sudamericani (Unasur). Benché un’offerta di mediazione diretta brasiliana fosse stata rifiutata, la mozione di Unasur è di chiara matrice brasiliana, ulteriore riconoscimento all’emergere del Brasile come potenza non solo regionale.

Anche l’Organizzazione degli Stati americani, un tempo il braccio multilaterale del Dipartimento di Stato nel continente sembra affrancarsi dal predominio statunitense e in ogni caso appare meno incisiva che in passato come dimostra il ruolo marginale avuto nel negoziato tra governo e opposizione in Bolivia. Gli Stati Uniti si trovano quindi a fronteggiare non solo l’avanzata commerciale e finanziaria dell’Unione Europea e della Cina in America Latina, ma anche l’embrionale creazione di un vero e proprio polo latinoamericano intorno al Brasile.

Verso una nuova guerra fredda?
Un’ulteriore variabile sembra affacciarsi sullo schacchiere continentale. Di fronte alla prospettiva di perdere svariati milioni di dollari l’anno in aiuti, traffici commerciali e forniture petrolifere in caso di irrigidimento delle relazioni con gli Stati Uniti, La Paz e Caracas hanno fatto spallucce suggerendo che eventuali vuoti lasciati da Washington potrebbero venire colmati dalla Russia. Morales ha fatto intendere che tagli Usa dei fondi contro il narcotraffico potrebbero essero compensati da Mosca. Venezuela e Russia hanno annunciato una prossima esercitazione militare congiunta nel Mar dei Caraibi, mentre alcuni caccia russi sono già stazionati in territorio venezuelano.

Secondo gli analisti russi questa potrebbe essere la risposta del Cremlino all’accerchiamento della Nato e ai progetti Usa in Polonia e Repubblica Ceca nell’ambito dello scudo spaziale. In considerazione degli avvenimenti in Georgia, crescono le ansie per una possibile nuova guerra fredda anche in America Latina. Più verosimilmente, si prospetta un ritorno al concerto delle grandi potenze e Stati Uniti e Russia potrebbero intendersi su due fronti comuni per appianare altre divergenze considerate minori: la lotta al terrorismo islamico, un pericolo anche per Mosca nelle repubbliche asiatiche, e l’ascesa cinese, temibile tanto per Washington che per Mosca.

Due riflessioni finali. Primo, gli Stati Uniti dovranno gioco forza rivedere la propria politica latinoamericana, pena un declino tanto politico quanto economico e soprattutto morale nelle Americhe. Obama e McCain sembrano già avere in cantiere profondi cambiamenti in materia. Secondo, e contrariamente a quanto molte frange intellettuali sembrano auspicare, siamo sicuri che un mondo in cui gli Stati Uniti venissero superati come prima potenza globale da una qualsiasi altra entità statale o multilaterale, sarebbe un mondo più sicuro, più prospero, giusto e armonioso?

Gian Luca Gardini è docente di Relazioni Internazionali e Politica dei Paesi Latinoamericani, e vice-Direttore dello European Research Institute, University of Bath, Regno Unito.


Tratto da:
Verso una nuova guerra fredda? di Gian Luca Gardini
su AffarInternazionali, Italia, 24 settembre 2008



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