venerdì 31 ottobre 2008

Peggiora la crisi in Zimbabwe


Le violazioni dei diritti umani restano impunite e la crisi alimentare sta peggiorando in Zimbabwe mentre il Presidente Robert Mugabe e l'opposizione polemizzano sulla formazione di un governo di unità, secondo quanto riportato da Amnesty International.

Mugabe ed i leader dell'opposizione MDC hanno stabilito lo scorso mese di condividere il potere, ma i colloqui si sono impantanati sul controllo dei ministeri. L’accordo è considerato come critico al fine di invertire il collasso economico della nazione Sudafricana.
I cittadini dello Zimbabwe stanno lottando per sopravvivere tra una carenza cronica di carne, latte ed altri prodotti di base, a seguito del crollo del settore agricolo. Il paese dipende dagli aiuti alimentari e la malnutrizione è in aumento.

"Siamo preoccupati che i diritti umani non siano stati al centro del processo negoziale," ha detto Simeon Mawanza, esperto di diritti sociali dello Zimbabwe, in un comunicato stampa che accompagna una relazione sulla situazione umanitaria nel paese.
"Mentre le parti continuano a negoziare su dettagli politici, i cittadini più vulnerabili dello Zimbabwe sono sempre più a rischio di un’estrema carestia. Oggi molti cittadini dello Zimbabwe stanno sopravvivendo mangiando solo frutti selvatici.”

Amnesty di Londra ha detto che nessuno è stato ritenuto responsabile delle percosse, delle torture e delle altre violazioni dei diritti umani che si sono verificate prima delle elezioni presidenziali di giugno anche se diverse vittime intervistate potrebbero identificare gli aggressori.

Amnesty ha ricordato che i colpevoli appartenevano in genere alle forze di sicurezza del partito di Mugabe (Zanu-PF) o erano veterani di guerra pro-Mugabe.
L’ottantaquattrenne leader dello Zimbabwe ha accusato l'opposizione per lo spargimento di sangue che ha ucciso più di cento persone.

Le elezioni presidenziali di marzo, vinte da Morgan Tsvangirai, leader del Movimento per il Cambiamento Democratico, è stata generalmente pacifica, ma il ballottaggio di giugno è stato segnato dai diffusi attacchi ai sostenitori dell'opposizione da parte delle forze di sicurezza.
Tsvangirai ha rinunciato alla seconda fase, riferendo di attacchi ai suoi sostenitori. Mugabe ha vinto la competizione presentandosi come unico candidato, suscitando una protesta internazionale ed aprendo la strada per l'inizio dei negoziati per la condivisione del potere. Tali negoziati sono culminati nell’accordo del 15 settembre che ha dato speranza di una rapida ripresa economica.
Ma l'economia ha continuato ad intricarsi durante le settimane di sterili colloqui sulla formazione del gabinetto, ed ora ci sono timori che il prossimo raccolto potrebbe essere peggiore dello scorso anno.

Amnesty International ha detto che le violenze legate alle elezioni hanno peggiorato la crisi alimentare perché molte delle vittime erano agricoltori, troppo gravemente danneggiati per arare la loro terra durante la prossima stagione delle piogge.
"Se pensiamo che la situazione alimentare in Zimbabwe è brutta adesso, aspettiamo la fine dell’anno, quando metà della popolazione avrà probabilmente bisogno di aiuto" ha detto Mawanza. Ci sono circa 13 milioni di persone in Zimbabwe.


Tratto da:
Zimbabwe crisis worsens amid impasse di Paul Simao
su Mail & Guardian, Sudafrica, 31 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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MSF: «In Kivu è di nuovo guerra»


Medici Senza Frontiere (MSF) denuncia la drammatica situazione della regione orientale del Congo, dove i ribelli avanzano, l’esercito governativo è in rotta e decine di migliaia di civili sono in fuga dai combattimenti.

Dopo l’aiuto medico e la presenza «sul campo», MSF risponde a un’altra missione: informare e testimoniare. Ed è proprio per questo che una conferenza stampa è stata organizzata martedì 28 ottobre a Roma con membri di MSF-Italia e Colette Gadenne, capo missione di MSF nel Nord Kivu, la più travagliata regione della Repubblica Democratica del Congo (Congo RD), negli ultimi dieci mesi: per ricordare ai media e agli operatori umanitari una situazione diconflitto esasperato spesso dimenticata, e soprattutto per denunciare il fallimento della comunità internazionale nella gestione di questa crisi.

E, coincidenza, la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUC) ha attraversato proprio in questi ultimi giorni diversi momenti davvero drammatici. Lunedì 27 ottobre, un suo convoglio è stato attaccato da gruppi del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), la formazione ribelle guidata da Laurent Nkunda, e a Goma, capitale della provincia, violente manifestazioni contro i caschi blu hanno fatto un morto.
Lo stesso giorno, il generale comandante della MONUC ha dato le dimissioni per ragioni «personali», secondo la portavoce delle Nazioni unite, e più probabilmente per mancanza di mezzi che possano consentire alla MONUC di portare a buon fine il suo incarico.

Creata nel 1999, la MONUC è la più grande e costosa forza di mantenimento della pace dell’ONU, con 17mila soldati presenti in Congo RD. Anche se le Nazioni Unite proclamano la loro «esperienza incomparabile dell'Africa centrale», la MONUC appare poco adatta alla situazione locale. In una regione dove da agosto altre 200 mila persone hanno dovuto lasciato la propria casa, facendo arrivare il numero di sfollati in Nord Kivu a circa due milioni di persone (un terzo della popolazione totale della regione).

L’incarico della MONUC di proteggere i civili dalle violenza sembra al di là della sua portata. Numerosi villaggi sono stati abbandonati, e i civili in fuga trovano rifugio in aree isolate, difficili da raggiungere pure per i convogli di aiuti umanitari. Come soluzione, MSF ha sviluppato delle cliniche mobili, che provano a raggiungere a giorni fissi i vari campi profughi. Tornare indietro è spesso impensabile per la popolazione: solo recarsi nei campi per avere da mangiare è pericoloso. La maggior parte delle violenze sessuali contro le donne capitano infatti sulle strade o proprio nei campi.

Ancora oggi la MONUC è in grave difficoltà. Dopo aver appoggiato la truppe dell’esercito governativo congolese stamattina con due elicotteri, la situazione sta precipitando sempre di più: l’esercito regolare ha abbandonato Goma davanti all’avanzata dei ribelli e così anche la capitale del nord Kivu non è più un luogo sicuro per gli sfollati. Le ultime notizie che arrivano da Goma parlano di una città in preda al caos. La radio delle Nazioni Unite dice che almeno otto persone sono state uccise nelle ultime ore, in mezzo ai saccheggi causati da gruppi di soldati sbandati. L’ONU ha anche lanciato un allarme per la situazione umanitaria in città, dove si stanno ammassando decine di migliaia di persone in fuga dall’avanzata dei ribelli.

I ribelli del CNDP avevano ieri dichiarato un cessate il fuoco unilaterale, che però non sembra essere entrato in vigore. I combattimenti, anzi, rischiano di espandersi anche al vicino Ruanda: in diversi punti del confine tra Congo e Ruanda, infatti, ci sono state scaramucce tra esercito regolare ruandese, esercito regolare congolese e ribelli. E il comando della MONUC sta pensando
di inviare rinforzi nella regione di Goma, anche se la capacità operativa del contingente internazionale è già oltre il limite. Il segretario dell’ONU Ban Ki-Moon per ora si è limitato a chiedere alle parti in conflitto di cessare il fuoco «per evitare sofferenze ai civili e scongiurare una catastrofe umanitaria».


Tratto da:
Medici senza frontiere: «In Kivu è di nuovo guerra» di Marion Lecoquierre
su Carta, Italia, 30 ottobre 2008



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giovedì 30 ottobre 2008

Unione Africana: gli aiuti per l’Africa potrebbero calare a causa della crisi globale


I paesi sviluppati stanno progettando di tagliare i sussidi all’Africa a causa della crisi finanziaria globale, ha detto mercoledì un commissario dell’Unione Africana (UA).
Mentre l'Africa è relativamente protetta dall'agitazione globale dato che le banche africane sono meno esposte al rischio del credito, gli analisti credono che ci potrebbe essere una riduzione nei flussi dei sussidi come pure degli investimenti diretti dall’estero e delle rimesse.
"Ho avuto contatti informali con i rappresentanti dei nostri partner di sviluppo ed il messaggio è che ciò potrebbe interessare gli aiuti per lo sviluppo dell’Africa," ha detto Maxwell Mkwezalamba, commissario dell'UA per gli affari economici.


"Non ci sono ancora chiare indicazioni in merito all’ampiezza, ma questo è ciò che ci aspettiamo. Quest'anno le parti del continente colpite dalla siccità e l'Africa hanno anche risentito degli effetti degli aumenti su combustibili e alimenti."

I flussi di investimento e di commercio sono probabilmente influenzati in modo negativo dalle conseguenze della crescente recessione nei paesi sviluppati", ha detto Mkwezalamba ai reporter.
Inoltre ha aggiunto che più di 100 milioni di persone sono stati spinti maggiormente verso la povertà a causa dei prezzi degli alimenti e la situazione sarà peggiorata dalla diminuzione dei sussidi.
"L'Africa dovrà trovare il modo di aiutarsi da sola se gli importi dei sussidi diminuiscono", ha detto.
"Dovremmo fare passi avanti verso l’autosufficienza. Non possiamo dipendere sempre dai sussidi".
"Potremmo esaminare per esempio l’allargamento della base imponibile in Africa, e dovremmo esaminare che cosa possiamo fare per aumentare il commercio fra i nostro paesi."

Mkwezalamba ha criticato il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per le sovvenzioni all’Ungheria ed all’Ucraina.
"Queste sono le stesse risorse per cui stiamo competendo anche noi," ha detto. "Se un paese africano fosse oppresso da questo tipo di difficoltà, il FMI sarebbe in grado di fornire una simile somma di denaro?"


Tratto da:
AU: Aid to Africa could fall due to global crisis di Barry Malone
su Mail & Guardian, South Africa, 30 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Le Maldive svoltano verso la democrazia


Il Presidente delle Maldive, Maumoon Abdul Gayoom, ha ammesso la vittoria elettorale del leader dell’opposizione, Mohamed Nasheed.
Gayoom, che in Asia è il capo di stato al governo da più a lungo di chiunque altro, si è congratulato con l'onorevole Nasheed dopo che i risultati finali del voto sono stati confermati.


Il neopresidente Nasheed ha detto che la sua vittoria nel primo voto democratico del suo paese mostra che il popolo delle Maldive sta abbracciando il futuro.

Il Presidente uscente Gayoom ha vinto il primo turno del voto questo mese ma al secondo turno non è riuscito a garantirsi l’appoggio del 50% dell’elettorato necessario per la vittoria.

Alla fine del conteggio dei voti l'onorevole Nasheed, un ex prigioniero politico, ha vinto col 54% contro il 46% di Gayoom.

Quest’ultimo ha dichiarato ad una radio: "Mi congratulo con Anni [nome popolare di Nasheed] (…) Ringrazio il popolo delle Maldive per avermi permesso di servirlo per 30 anni.

Durante una rara dimostrazione di unità, Gayoom ha promesso di garantire una transizione fluida dal suo governo a quello dell'onorevole Nasheed.

"Voglio che in questa transizione vada tutto liscio. Farò di tutto per lavorare con lui (Nasheed)", ha detto Gayoom, invitando i suoi seguaci a cooperare con il nuovo regime.

I due uomini si sono rivolti congiuntamente alla nazione dall’ufficio presidenziale solo ora, dopo che i risultati delle elezioni sono stati annunciati, e hanno convenuto di lavorare insieme per il bene del popolo.

"Desidero rassicurare il pubblico e la comunità internazionale che la transizione verso la democrazia nelle Maldive sarà armoniosa e senza interruzione di governance", ha detto Nasheed stringendo la mano al suo ex rivale.

"Una prova della nostra democrazia sarà il modo in cui trattiamo Maumoon".

Il ministro dell'ambiente uscente ha detto che le elezioni sono state una "corsa molto serrata".

Abdullah Mausoom ha detto che le prime "elezioni multipartitiche si sono svolte liberamente e equamente".

Le elezioni sono state il culmine delle riforme che hanno fatto seguito a proteste di piazza e alle pressioni internazionali in favore della democrazia.

Gayoom, 71 anni, ha governato le Maldive senza opposizione dal 1978, eletto nella carica sei volte attraverso referendum.

Il corrispondente della BBC, Roland Buerk, ha detto che i sostenitori dell'onorevole Gayoom gli attribuivano la capacità di favorire l’espansione economica alimentata dal turismo.
Ma i critici dicono che era un dittatore e che ha governato alla maniera di un vecchio sultano.


Tratto da:
Maldives president admits defeat
su BBC News, Regno Unito, 29 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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mercoledì 29 ottobre 2008

La stampa internazionale si occupa della Birmania


L'anniversario del tredicesimo anno di arresti domiciliari per il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi accende i riflettori sul paese asiatico.
La stampa internazionale si occupa inoltre dell'ultimo rapporto dell'International Crisis Group (ICG) sulla cooperazione internazionale in Birmania.


Sul Washington Post Fred Hiatt commenta: "Il rapporto di ICG si congratula con la giunta militare per avere permesso, seppur con un certo ritardo, l'invio degli aiuti alle vittime del ciclone Nargis. Auspica, inoltre, un'intensificazione delle relazioni tra i paesi occidentali e i leader birmani per coinvolgerli in un processo democratico internazionale e offrire aiuti concreti alla popolazione. Tuttavia, nell'ultimo anno i prigionieri politici sono notevolmente aumentati, l'esercito attacca i civili e il paese è agli ultimi posti del mondo per la libertà di stampa. L'idea che le democrazie occidentali possano accettare di versare milioni di dollari a un regime odioso senza porre condizioni è di un'ingenuità folle".

Dello stesso parere è The Irrawaddy, il giornale della comunità birmana in esilio: "Il rapporto si congratula per la cooperazione dei generali con le organizzazioni internazionali per portare aiuti ai sopravvissuti del ciclone di questa primavera. Circolano voci, inoltre, che diffondono l'ingenua speranza che con le elezioni del 2010 qualcosa possa cambiare in Birmania. La verità è che il popolo birmano è un ostaggio nelle mani dei militari". E riguardo agli aiuti economici sottolinea che "dovrebbe essere accordati su basi di trasparenza e fiducia. Se no, gli aiuti al regime sono un insulto ai birmani che hanno sacrificato la loro vita per liberare il paese dalla dittatura".

Ancora più duro il quotidiano di Bangkok, The Nation, che critica il meccanismo degli aiuti: "Ogni volta che il mondo s'interessa alla Birmania, qualcosa finisce per sviare l'attenzione. Il ciclone è stato un'occasione per tutti, sia per i generali, che hanno insabbiato facilmente la brutale repressione delle manifestazioni dei monaci di qualche tempo prima, sia per le organizzazioni internazionali che non hanno esitato a rivedere al ribasso le loro richieste per essere ammesse nel paese". Le prospettive non sono rosee e l'articolo si conclude con l'augurio "che Aung San Suu Kyi resista: la battaglia potrebbe essere molto lunga".


Tratto da:
Occhi puntati sulla Birmania
su Internazionale, Italia, 28 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Un aereo delle Tigri Tamil bombarda la capitale dello Sri Lanka


Le Tigri per la Liberazione del Tamil Eelam (LTTE) hanno bombardato una centrale elettrica e una base dell’esercito regolare dello Sri Lanka con raid aerei. Questi nuovi attacchi portano a nove il numero di raid condotti dalla nascente forza aerea delle Tigri Tamil a partire dal marzo 2007 con l’uso di apparecchi monomotori.

Il primo attacco questa mattina ha colpito l’accampamento militare Thalladi nel distretto di Mannar, circa 250 chilometri a nord della capitale Colombo, causando lievi danni e il ferimento di un soldato, secondo un portavoce militare. Non si hanno diverse informazioni su danni o vittime.

Poco dopo, i radar hanno individuato un aereo non identificato sull'Oceano Indiano diretto verso sud in direzione di Colombo.

La città è piombata nel buio dopo che è stata tolta l’alimentazione elettrica per precauzione mentre si preparavano l’aviazione e le batterie antiaeree.

Ma un aereo delle Tigri Tamil è comunque riuscito a lanciare bombe sulla centrale elettrica di Kelanitissa.

Segnale forte

Minelle Fernandez, coorispondente di Al Jazeera da Colombo, ha detto che il raid è stato un segnale forte che le Tigri sono stati ancora in grado di colpire al cuore della capitale, nonostante i militari affermino di aver messo i separatisti alle corde.

Le posizioni delle Tigri sono bloccate da pesanti combattimenti con i militari nel nord dello Sri Lanka. Il governo ha espresso fiducia nel fatto che saprà sconfiggere i separatisti in lotta dal 1983 in uno dei più lunghi conflitti separatisti dell’Asia.

L'esercito ha intensificato la sua offensiva negli ultimi tre mesi e afferma di aver preso una dopo l'altra le roccaforti del LTTE e di essere a portato di tiro dalla capitale dei ribelli, Kilinochchi.

Decine di migliaia di persone sono morte da quando il LTTE ha lanciato la sua campagna separatista nel 1972 chiedendo una patria per la minoranza tamil nel nordest dell’isola a maggioranza singalese.


Tratto da:
Tiger planes hit Sri Lanka targets
su Al Jazeera.net, Qatar, 29 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Migliaia di sfollati a causa degli ultimi scontri ...

Sri Lanka - L'esercito governativo alle porte di Kilinochchi ...



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martedì 28 ottobre 2008

Dopo la guerra in Ossezia, si rischia un altro conflitto in Abkhazia


Spentisi i riflettori dei mass media sul conflitto in Ossezia del Sud, la Georgia è ripiombata nel dimenticatoio. Ma questo non significa che tutto sia finito.
Se sul fronte sudosseto la tregua sembra reggere, rischia invece di riesplodere l'altro conflitto separatista, quello riguardante la ben più estesa e strategica regione dell'Abkhazia.


Sabato sera, colpi di mortaio sparati dal villaggio georgiano di Ganmukhuri hanno colpito una postazione delle milizie abkhaze nel villaggio di Pichori, nel distretto di Gali. Un militare separatista è rimasto gravemente ferito. E' seguito un violento scontro a fuoco durato cinque minuti. "Oramai capita ogni giorno", ha dichiarato il presidente abkhazo Serei Bagapsh. "Sul confine con la regione di Gali i georgiani hanno lanciato un'operazione terroristica di provocazione su larga scala. Ma vedo che gli osservatori europei non agiscono. Ma d'ora in avanti risponderemo a questi attacchi con tutta la forza a nostra disposizione, carri armai compresi".

Una pericolosa escalation di attacchi e contrattacchi
L'attacco georgiano di sabato è stato probabilmente una rappresaglia per l'attentato che al mattino aveva ucciso il sindaco del villaggio georgiano di Muzhava, nel distretto di Tsalenjikha, a ridosso del confine amministrativo con l'Abkhazia. Nell'esplosione era rimasto ucciso anche un altro civile georgiano.
Un'azione che, a sua volta, potrebbe essere stata ordinata in risposta agli 'omicidi mirati' compiti in Abkhazia, secondo i separatisti, da unità speciali dell'esercito georgiano. Venerdì un amministratore locale abkhazo era stato ucciso in un agguato nel villaggio di Dikhazurga, nel distretto di Gali. E mercoledì, a Gali città, era stato assassinato il capo dell'intelligence militare abkhaza assieme ad altre due persone.


Tratto da:
Georgia, attenti all'Abkhazia di Enrico Piovesana
su PeaceReporter, Italia, 28 ottobre 2008



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Una tempesta apre Melilla agli immigranti


Nella giornata di domenica Melilla, l’enclave spagnola in Marocco, è stata travolta da una delle tempeste più forti degli ultimi 30 anni. Alla fine della bufera un tratto di ottanta metri della tripla-recinzione di confine con il Marocco lunga oltre 10 chilometri era stato sradicato e diverse centinaia di metri di barriera erano fortemente danneggiati. La polizia ha provveduto subito a riparare la recinzione, per impedire che qualcuno cercasse di entrare a Melilla, ma in alcuni punti l’acqua e il fango hanno impedito le riparazioni. Passando attraverso un ruscello in piena oltre una cinquantina di persone, di origine sub-sahariana, hanno provato ad attraversare la frontiera e penetrare nella città dei loro sogni, Melilla, fortezza Europa.

Il tutto è avvenuto alle 6 di mattina, nei pressi della dogana di Beni-Ezar. Delle circa 65 persone che hanno tentato l’attraversamento, una ventina non hanno raggiunto il suolo spagnolo e 17 sono stati arrestati al confine dalle guardie. In 27 sono riusciti ad entrare in città per poi presentarsi alla centrale di polizia da cui sono stati trasferiti al Centro di soggiorno temporaneo per gli immigrati. Questi potranno evitare l’espulsioneimmediata e senza procedimento, come è capitato a quanti sono stati respinti durante il tentativo di forzare il confine. Già il 7 ottobre una decina di persone avevano tentato di passare i confini dell’Europa,questa volta a Ceuta, approfittando della pioggia.

Altri potrebbero tentare nei prossimi giorni, ma questa volta senza saltare il recinto crollato. Di conseguenza, la Guardia Civil ha intensificato la sua presenza nei nuovi punti deboli apparsi sul recinto.

Nei disperati e frequenti tentativi di passare la frontiera a Ceuta e Melilla, sono già morte 35 persone, uccise dal fuoco della Guardia civil e della polizia marocchina, o ferite scavalcando le recinzioni di ferro e filo spinato che delimitano il confine (alambrada).


Tratto da:
Nuovo tentativo di passare la frontiera in gruppo
su Carta, Italia, 27 ottobre 2008
La riada abre Melilla a los inmigrantes di I.Cembrero e T.Ramos
su El país, Spagna, 28 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi

Articoli di riferimento:
Ceuta e Melilla: l'alambrada



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lunedì 27 ottobre 2008

Messico: un paese in guerra troppo vicino agli Stati Uniti e alla droga


Oramai il Messico è il più grande narcostato del mondo, peggio della Colombia. Se in tutto il 2007 i morti della guerra tra cartelli sono stati 2.700, ieri è stato reso noto che nei primi otto mesi del 2008 si è già arrivati a 3.000 morti.

Esecuzioni di gruppo, teste mozzate, vere battaglie con armamento da guerra, fiumi di denaro che inquinano la vita pubblica, sono la cifra di una guerra totalmente ignorata dalla stampa italiana. Il Messico così è ormai un inferno dove la popolazione è stretta tra i narcos, la crisi economica e pezzi dello Stato apertamente complici dei cartelli della droga. E intanto il 40% della popolazione (corrispondente agli abitanti della Spagna) pensa seriamente d’andarsene già che il paese, governato dalla destra neoliberale e filo statunitense di Felipe Calderón, da una parte usa senza successo il pugno di ferro e dall’altra è infiltrato profondamente dai narcodollari.

Un messicano su cinque dichiara di conoscere personalmente un narcotrafficante; per quattro su cinque il narcotraffico è già parte della cultura nazionale. Gruppi musicali come “los tigres del norte” o temi come "Contrabando y traición" sono da decenni capostipiti di un genere musicale di successo, il narcocorrido. I narcos hanno perfino un santo protettore, san Jesús Malverde, originario di Sinaloa. Ma la cultura narco non è solo un genere di intrattenimento paragonabile a quello dei nostri neomelodici. Un messicano su dieci dichiara di essere stato vittima di episodi di violenza attribuibili al narcotraffico e uno su tre conosce qualcuno che ne è stato vittima.

Sono dati impressionanti che danno la misura di quanto sia difficile orientarsi nel gorgo nel quale è precipitato uno dei paesi più straordinari del mondo da quando negli anni ’80 i cartelli colombiani cominciarono ad utilizzarlo come via di transito e poi da quando il primo gennaio del 1994 è entrato in vigore il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti, una sorta di colonizzazione dell’economia del paese che si è tradotta in un disastro economico, nello sfacelo delle campagne e nella perdita di posti di lavoro.

I 14 milioni di messicani costretti all’emigrazione da allora e le decine di migliaia di morti delle guerre tra narcos, testimoniano di un progetto di paese, quello neoliberale, che ha fallito clamorosamente e dovrebbe essere abbandonato al più presto. Ma il neoliberismo che ha bruciato letteralmente la vita di una generazione di contadini messicani impossibilitati a competere con la superassistita agricoltura statunitense, costringendoli all’emigrazione o a entrare nelle file della manovalanza del narcotraffico, spesso solo come carne da cannone o spalloni, è solo una delle facce di una delle crisi morali e materiali più importanti nella storia di questo grande paese.

Già negli anni ’20, al tempo del proibizionismo negli Stati Uniti, il Messico aveva sperimentato un aumento della criminalità connessa al contrabbando di alcool. Poi, fino agli anni ’70, era sopravvissuto un piccolo traffico illecito di marihuana e papavero verso il nord. A partire dagli anni ’80 inizia la fase attuale per la quale oggi il 60% di tutta la cocaina consumata negli Stati Uniti proviene o passa dal Messico.

Dal ’94 in avanti il NAFTA, il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, è divenuto il fattore detonante della situazione attuale. Il narcotraffico diveniva anche un’alternativa allo spopolamento delle campagne. Oggi un’economia debole, accompagnata da uno Stato debole rendono i proventi della droga la chiave per dominare ed innervare di questi l’economia e la politica del terzo paese più popoloso del Continente, dopo Stati Uniti e Brasile. La guerra messicana e la trasformazione di una delle prime 12 economie al mondo in un narcostato è probabilmente oggi la notizia più sottovalutata dal sistema mediatico, italiano e non solo.


Tratto da:
Messico: un paese in guerra troppo vicino agli Stati Uniti e alla droga di Gennaro Carotenuto
su Latinoamerica, Italia, 21 ottobre 2008



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La Siria segnala un attacco USA sul suo territorio


Una squadriglia di elicotteri da guerra USA provenienti dall'Iraq ha compiuto oggi un raid nella località Abu Kamal, in territorio siriano, uccidendo otto persone e ferendone una, "tutti civili". Lo ha riferito l'agenzia ufficiale siriana Sana precisando che "l'aggressione" è stata compiuta alle 16.45 locali e che i velivoli "hanno violato lo spazio aereo nazionale penetrando per otto chilometri".

L'attacco avrebbe avuto luogo nel villaggio chiamato Sukkariya, nella regione di Abu Kamal, principale punto di passaggio tra Iraq e Siria. Fonti concordanti e testimoni citati dalla tv al Arabiya hanno affermato che due dei quattro elicotteri sono atterrati nel villaggio e hanno sbarcato un commando che ha poi fatto irruzione nell'edificio, "uccidendo otto persone, tra cui cinque membri di una stessa famiglia", la cui abitazione sarebbe stata interamente distrutta.

L'agenzia siriana Sana afferma invece che "otto civili hanno subito il martirio", ovvero sono morti, e uno è rimasto ferito quando gli elicotteri "hanno aperto il fuoco contro gli operai (che erano nell'edificio "appena finito di costruire"), tra i quali c'era anche la moglie di uno dei guardiani". I quattro elicotteri "sono quindi ripartiti verso il territorio iracheno". La tv privata siriana al Dunia ha invece fornito un bilancio di nove morti e 14 feriti. "Il raid ha preso di mira un gruppo di operai edili al lavoro", ha aggiunto l'emittente, sottolineando che "tutte le vittime sono civili".

Al momento le autorità militari americane a Bagdad non hanno diffuso informazioni o commenti sulla vicenda, mentre a Washington dal Pentagono è arrivato solo un "no comment". A Washington, un portavoce del Pentagono ha affermato di non avere alcuna informazione a riguardo mentre il portavoce USA a Bagdad ha detto che queste informazioni erano al momento soggette a verifica.

Tuttavia, non è una novità che l'amministrazione e il governo USA accusano la Siria di non fare abbastanza per prevenire le infiltrazioni in Iraq di combattenti islamici e di terroristi attraverso la sua frontiera, se non addirittura di favorirle. L'azione di oggi potrebbe inserirsi in questo quadro. Il territorio in questione si trova in prossimità della città irachena di Al-Qaim, un punto di passaggio importante per uomini, armi e materiali provenienti dalla Siria e destinati ai gruppi sanniti iracheni in lotta contro la coalizione internazionale.

Intanto il governo siriano ha prontamente reagito a livello diplomatico: il ministero degli Esteri ha convocato già in serata gli incaricati d'affari di Stati Uniti e Iraq a Damasco, per esprimere, secondo quanto riferisce la Sana, "la protesta e la condanna per questo serio attacco" e domandare alle autorità irachene di proibire l’uso del proprio territorio al fine di lanciare aggressioni contro la Siria.


Tratto da:
Siria, attacco di elicotteri Usa, nove morti al confine con l'Iraq
su La Repubblica.it, Italia, 26 ottobre 2008
La Syrie signale une attaque héliportée américaine sur son territoire
su Le Monde.fr, Francia, 26 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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domenica 26 ottobre 2008

Chávez minaccia azioni militari contro l'opposizione


Il Presidente venezuelano Hugo Chávez, ha annunciato sabato scorso di essere pronto a preparare azioni "militari" nello Stato di Zulia, se l'opposizione vince le elezioni del prossimo 23 novembre, e ha minacciato di imprigionare il capo dell’opposizione, candidato a sindaco della capitale di Zulia, Maracaibo.

Chávez ha sollevato la minaccia davanti alla possibilità che diventi sindaco di Maracaibo Manuel Rosales, leader dell'opposizione sconfitto da Chávez alle presidenziali del 2006, attualmente governatore di Zulia. Di fronte a un tale evento, il Presidente venezuelano Chávez darebbe il via al cosiddetto Piano Chávez, che implicherebbe l'azione militare, secondo quanto annunciato dallo stesso Presidente in un raduno elettorale a Maracaibo, davanti ad una platea di uomini d’affari, accusando il rivale di aver complottato per assassinarlo e di essere a capo di bande criminali.

Una rivoluzione armata

"Che nessuno dimentichi che questa è una rivoluzione pacifica, ma si tratta di una rivoluzione armata!", Ha detto Chávez al raduno, il cui obiettivo era quello di sostenere i candidati del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV).

Poco prima, il Presidente aveva pronosticato la sconfitta dei "piani" per trasformare Zulia in "una Santa Cruz venezuelana", in riferimento alla provincia autonomista in mano all’opposizione boliviana.

Chávez ha descritto Rosales come un "politico venduto e mafioso" e lo ha accusato di aver fatto diventare Zulia un rifugio per paramilitari, per le mafie della droga e per gruppi di estrema destra venezuelani e colombiani.

Chávez non ha fornito alcuna prova specifica a sostegno delle accuse contro i principali leader di una opposizione frammentata, che ha una solido sostegno nelle regioni dell’ovest dedite alla produzione di petrolio, grazie al quale il Venezuela è membro dell’OPEC.

I gruppi per i diritti umani dicono che Chavez esercita sempre più controllo sui poteri dello Stato come ad esempio il potere giudiziario e diventa sempre più intollerante alle critiche dopo quasi un decennio al potere.

L'ex soldato Chávez in genere ricorre all'offensiva per fermare un aumento di sostegno verso i potenziali rivali.

Secondo i sondaggi, Chávez sta facendo una forte campagna in favore dei suoi candidati nelle elezioni del 23 novembre, ma è possibile che perda alcuni posti chiave poiché i Venezuelani sono molto preoccupati per temi quali la sicurezza, l'inflazione e la scarsità di servizi pubblici.

Chávez spesso minaccia con drammaticità gli avversari nei discorsi senza poi dare seguito alle parole.


Tratto da:
Venezuela's Chavez wants to jail rival di Deisy Buitrago
su Reuters.com, Regno Unito, 25 ottobre 2008
Chávez amenaza con acciones militares si la oposición gana en Zulia
su El País, Spagna, 25 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Venezuela, uno dei fronti piu’ avanzati nella costruzione del socialismo del xxi secolo



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sabato 25 ottobre 2008

Intervista al Presidente emerito Francesco Cossiga


Presidente Cossiga, pensa che minacciando l`uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?
«Dipende, se ritiene d`essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo.
Ma poiché l`Italia è uno Stato debole, e all`opposizione non c`è il granitico PCI ma l`evanescente PD, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia».


Quali fatti dovrebbero seguire?
«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno».

Ossia?
«In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...».

Gli universitari, invece?
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».

Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».

Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».

Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti».

Presidente, il suo è un paradosso, no?
«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero.
«Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l`incendio».

Quale incendio?
«Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate Rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università.
E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».

E` dunque possibile che la storia si ripeta?
«Non è possibile, è probabile.
Per questo dico: non dimentichiamo che le BR nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo».

Il PD di Veltroni è dalla parte dei manifestanti.
«Mah, guardi, francamente io Veltroni che va in piazza col rischio di prendersi le botte non ce lo vedo. Lo vedo meglio in un club esclusivo di Chicago ad applaudire Obama...».

Non andrà in piazza con un bastone, certo, ma politicamente...
«Politicamente, sta facendo lo stesso errore che fece il Pci all`inizio della contestazione: fece da sponda al movimento illudendosi di controllarlo, ma quando, com`era logico, nel mirino finirono anche loro cambiarono radicalmente registro.
La cosiddetta linea della fermezza applicata da Andreotti, da Zaccagnini e da me, era stato Berlinguer a volerla... Ma oggi c`è il Pd, un ectoplasma guidato da un ectoplasma. Ed è anche per questo che Berlusconi farebbe bene ad essere più prudente».


Tratto da:
Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei di Andrea Cangini
su Governo Italiano, da QN, Italia, 23 ottobre 2008



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venerdì 24 ottobre 2008

Il Niger minaccia di espellere Medici Senza Frontiere


Paradosso nigeriano. Mentre gli sforzi fatti da Niamey negli ultimi anni per vincere la battaglia contro la malnutrizione sono noti, il Niger minaccia di espellere dal suo territorio l' organizzazione non governativa francese Medici Senza Frontiere (MSF). Attore principale in Niger dal 2001 nella lotta contro questo flagello, MSF ha visto le sue attività nutrizionali sospese tre mesi fa.

Martedì 21 ottobre a Niamey, la capitale, Marie-Pierre Allié, presidente della sezione francese di MSF, ha tentato di convincere le autorità a ritornare sulla loro decisione ed autorizzare l'ONG a riprendere in carico migliaia di bambini malnutriti nella regione meridionale di Maradi, al confine con la Nigeria. "Ascoltate, osservate la situazione, accettate il nostro aiuto oggi e discutiamo sulle modalità per lavorare insieme domani" , ha perorato richiamando la buona volontà del presidente Mamadou Tandja. Ma, mercoledì, alla sede parigina dell'ONG, ci si mostrava piuttosto pessimisti sulle possibilità di successo dell’iniziativa.

Nei giorni precedenti, il ministro della sanità, Issa lamina, aveva rimesso all’ordine del giorno un’accusa già sentita. Quella secondo la quale MSF esagererebbe "il numero dei bambini malnutriti allo scopo di ottenere fondi supplementari". Dall'inizio dell'anno, più di 60.000 bambini che soffrono per malnutrizione acuta sono stati ammessi nei centri nutrizionali di MSF. Ma per il ministro, la situazione nella regione di Maradi (2 milioni di abitanti) "non è drammatica".

"Che MSF Francia se ne vada. E’ compito dello Stato impiegare i mezzi necessari per prendersi in carico la salute della popolazione", ha detto alla radio pubblica.
I problemi di MSF con le autorità risalgono al 2005. "La crisi nutrizionale in Niger divenne in questo periodo un fenomeno mediatico di primo piano; intervennero decine di ONG ", ricorda Isabelle Defourny, un responsabile di MSF. Niamey non apprezzò affatto questa cattiva pubblicità. "La malnutrizione dei bambini è una malattia imbarazzante per le famiglie e per gli Stati che la subiscono", spiega.

Oggi, mentre il regime dà segni di irrigidimento politico, l'attivismo di MSF sottolinea la persistenza di un problema che il regime preferirebbe rinnegare. "Tuttavia il tasso di mortalità dei bambini di meno di 5 anni si avvicina al livello di quello di un paese in guerra", riporta con ansia Isabelle Defourny.
E’ per questa ragione che MSF aveva organizzato un programma che si rivolge non soltanto ai bambini in stato di malnutrizione acuta ma anche a quelli coinvolti moderatamente. Alla base di questi programmi c’è l' utilizzo di prodotti alimentari terapeutici pronti all'uso. "La regione di Ramadi era diventata un campo sperimentale che mostra l'efficacia preventiva del nostro approccio", sottolinea Isabelle Defourny.

Alle difficoltà di MSF con il potere nigeriano si sovrappongono, secondo MSF, le carenze dell'azione internazionale contro la malnutrizione." Questa non è una priorità per l'ONU ed i finanziamenti sono scarsi." Se così non fosse Niamey ci avrebbe certamente pensato due volte prima di interrompere i programmi dell'ONG.


Tratto da:
Le Niger menace d'expulser Médecins sans frontières di Christophe Châtelot
su Le Monde, Francia, 23 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Il Burundi sul filo della lama


Non capita tutti i giorni che, dopo più di due anni di trattative sfociate in un accordo di pace tra governo e ribelli, il mediatore alzi le mani e ammetta pubblicamente il fallimento dei suoi sforzi. Eppure è quanto è successo in Burundi, dove l'ex vice - presidente sudafricano Charles Nqakula, uno dei fautori dell'accordo del 2006 che aveva nominalmente posto fine alla guerra civile, ha alzato bandiera bianca a causa delle troppe divergenze tra il governo e i ribelli delle Palipehutu - FNL, l'ultimo gruppo armato ancora attivo nel Paese.

L'amarezza per il fallimento delle trattative è grande, soprattutto considerando le grandi aspettative che avevano accompagnato la firma degli accordi nel 2006. Negli ultimi due anni, però, l'attuazione concreta del trattato ha incontrato solo ostacoli: colpa delle divergenze tra governo e ribelli, troppo profonde in alcuni casi per sperare di arrivare a un compromesso, come ha spiegato Nqakula. La maggiore riguarda il programma di disarmo, non ancora cominciato dopo 24 mesi, ma la cui risoluzione si lega ad alcuni nodi politici mai sciolti.

Le FNL chiedono, per bocca del loro portavoce Pasteur Habimana, di poter essere registrate come partito politico sotto il nome di "Palipehutu". Il governo però non ha accettato la posizione dei ribelli sulla base di due motivazioni, la prima delle quali è legata a quanto stabilito dall'accordo di pace, il quale prevede che il disarmo avvenga prima della discesa in politica delle FNL. La differenza maggiore riguarda però il nome della nuova formazione, che significa "partito per la liberazione degli Hutu": la Costituzione burundese considera infatti illegali i partiti formati su base etnica.

La questione non è di poco conto, visto che le FNL, assieme agli altri gruppi ribelli che avevano combattuto il governo di Bujumbura fino al 2003, sostiene di combattere proprio per ottenere maggiori diritti per la popolazione Hutu, che costituisce la grande maggioranza della popolazione. Dall'altra parte il governo, retto da Pierre Nkurunziza, anch'egli ex ribelle, accusa le FNL di continuare a combattere solo per tornaconto personale.

Il processo di pace, insomma, sembra aver perso molta della spinta iniziale. Inevitabile, dopo che la messa in pratica degli accordi si è trascinata per così tanto tempo senza progressi sostanziali, e dopo che le FNL avevano sconfessato l'operato dello stesso Nqakula, accusato di essere troppo vicino al governo burundese. La situazione si era talmente deteriorata che, lo scorso aprile, erano tornate a parlare le armi, con i ribelli ad attaccare la capitale Bujumbura a colpi di mortaio e l'esercito a rispondere. Per ora la nuova tregua regge, ma il fatto che il governo si sia detto "molto deluso" dal comportamento delle FNL non lascia presagire nulla di buono.


Tratto da:
Il Burundi sul filo della lama di Matteo Fagotto
su PeaceReporter, Italia, 23 ottobre 2008



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giovedì 23 ottobre 2008

20 anni di prigione in Costa d'Avorio per inquinamento


La corte della Costa d’Avorio mercoledì ha prescritto la pena di vent'anni di carcere all'esecutore materiale e cinque al suo complice che hanno versato rifiuti tossici da una nave da carico ad Abidjan nel 2006, che ha ucciso 17 persone e ne ha avvelenato migliaia. Sono state condannate altre sette persone coinvolte nel caso.

Nell'agosto del 2006 una nave da carico panamense, il Probo Koala, ha scaricato nelle acque al largo di Abidjan, in Costa d'Avorio, più di 500 metri cubi di rifiuti tossici, causando problemi di respirazione e nausea fra i residenti.

La corte - dopo tre ore di deliberazione – ha condannato Salomon Ugborugbo di nazionalità nigeriana, direttore dell'azienda Tommy che ha scaricato i rifiuti dal Probo Koala, a 20 anni in prigione. L’avvocato della Costa d’Avorio, il Generale Damou Kouyate, aveva chiesto una condanna all’ergastolo per avvelenamento.

Essoin Kouao, che ha lavorato come agente di spedizioni nel porto di Abijan e aveva raccomandato l'impresa Tommy al noleggiatore del Probo Koala, ha ricevuto una condanna a cinque anni carcere, con l’imputazione di complicità in avvelenamento.
Kouyate aveva detto che quelli implicati nell'avvelenamento erano motivati “da una tale selvaggia ricerca di denaro" da creare un “fatale accordo”.

Nessun dirigente della “Trafigura”, che ha noleggiato il Probo Koala, è stato processato dopo che la multinazionale olandese l'anno scorso ha raggiunto una transazione pari a 152 milioni di €uro con il governo ivoriano pur di essere tenuta fuori dal processo.

Gli avvenimenti mortali datano dall'agosto 2006 quando le autocisterne noleggiate da Ugborugbo hanno fatto uscire 528 metri cubi di "rifiuti tossici" dal Probo Koala.
Gli sversamenti erano una miscela tossica di residui di petrolio, zolfo e soda caustica, che erano stati accumulati nella nave. L'esposizione ai rifiuti ha causato difficoltà respiratorie, nausea ed altri problemi di salute fra i residenti, causando l'evacuazione di interi quartieri.

I procuratori avevano chiesto condanne fino a 20 anni per cinque degli accusati che erano stati imputati di complicità in avvelenamento o di violazione delle leggi di pubblica sicurezza ed ambientali.


Tratto da:
Côte d'Ivoire court gives 20-year jail term in pollution case
su Mail and Guardian, Sudafrica, 23 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Il Presidente del Senegal respinge le sanzioni alla Mauritania


Il Presidente del Senegal Abdoulaye Wade si oppone all'idea di imporre sanzioni ai leader del colpo di stato in Mauritania. Nel frattempo il Generale golpista Ould Mohamed Abdelaziz ha promesso elezioni molto presto

In questo modo Wade ha rotto la compattezza dei leader africani secondo quanto afferma il corrispondente della BBC dall'Africa occidentale, Will Ross.

Questa settimana l'Unione Europea ha dato alla Mauritania un mese di tempo per reinstaurare l'ordine costituzionale.

Gli Stati Uniti la scorsa settimana hanno imposto un divieto di ingresso per coloro che nel mese di agosto hanno preso il potere in Mauritania con un colpo di stato ai danni del primo governo democraticamente eletto del Paese.

Il Presidente Wade ha detto di preferire la mediazione alle sanzioni.

"[Le sanzioni] Non toccano mai i leader", ha affermato, aggiungendo che mentre un leader elude facilmente le sanzioni è la popolazione a riceverne l'impatto.

I leader militari hanno giustificato la loro azione dicendo che il deposto presidente aveva omesso di affrontare le sfide reali in materia economica e di sicurezza.

Il nostro corrispondente dice che il golpe gode di molta popolarità tra i membri dell'Assemblea Nazionale e del Senato.

Il Presidente Wade ha suggerito che questo fatto debba essere preso in considerazione.

L'UE deve continuare i colloqui con i leader militari che hanno rovesciato il primo presidente della Mauritania eletto democraticamente, Sidi Mohamed Ould Cheikh Abdallahi, il quale rimane agli arresti domiciliari.

Gli aiuti non umanitari sono già stati sospesi.

L'Unione africana ha sospeso l'adesione della Mauritania poco dopo il golpe e ha minacciato di imporre ulteriori sanzioni se l'onorevole Abdallahi non sarà liberato prima del 6 ottobre.


Tratto da:
Wade rejects Mauritania sanctions
su BBC News, Regno Unito, 23 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Colpo di stato militare in Mauritania, arrestati presidente e premier

Articoli di riferimento:
Golpe in Mauritania: l'analisi di Lettera22



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mercoledì 22 ottobre 2008

La nuova Bolivia plurinazionale, diritti per i cittadini e obblighi per lo Stato


Il Congresso ha approvato la legge di convocazione per il referendum costituzionale che subito è stata promulgata dal presidente. La sua validità sarà definita dal voto popolare nel gennaio 2009.
Il progetto di testo costituzionale che nel gennaio 2009 sarà sottoposto ad un referendum nazionale, sostanzialmente modifica la Costituzione in vigore dal 1967 e definisce l'ingresso della Bolivia in un’epoca di stato multinazionale, comunitario e autonomo.
Il governo ed i parlamentari del partito d'opposizione hanno concluso ieri un lungo processo di conflitto nazionale, che ha avuto inizio il 6 agosto 2006, quando l'Assemblea costituente ha assunto la responsabilità di cambiare il testo costituzionale.


Da allora, con il lavoro della Costituente, il paese ha affrontato una serie di conflitti e scontri causati dal malcontento sociale. Otto scenari di dialogo sono falliti, fino a quando questo lunedì i parlamentari della maggioranza e dell'opposizione hanno siglato un accordo che si è concluso ieri con l’adozione della legge di convocazione del referendum costituzionale, che incorpora più di un centinaio di emendamenti al progetto di nuova Costituzione.

Questo progetto, che sarà il primo testo costituzionale presentato al voto popolare, nel suo primo articolo riassume il nuovo modello di Stato. "La Bolivia si costituisce come uno stato Unitario Sociale di Diritto Plurinazionale Comunitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, interculturale, decentralizzato ed autonomo. La Bolivia è fondata sulla pluralità e sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico all’interno di un processo di integrazione del paese ", egli spiega.

La Razón offre nell’edizione odierna una copia del testo che è stato approvato ieri dal Congresso e che i boliviani dovranno ratificare o respingere il prossimo gennaio.
Uno dei principali cambiamenti è l'ingresso per le autonomie, con tre modelli con pieni poteri (dipartimentali, comunali e indigeni) e il quarto, regionale, con una capacità deliberative, politiche ed amministrative di sorveglianza.

Il progetto di testo costituzionale che definisce i dipartimenti che la popolazione spagnola ha approvato nel luglio 2006, si applica automaticamente.
Per quanto riguarda lo Stato plurinazionale, c’è il riconoscimento di 36 nazionalità indigene e delle loro lingue, per il quale vi è un riconoscimento ufficiale, alle stesse condizioni del castigliano. Anche il governo centrale ed i governi regionali devono gestire due lingue, una delle quali indigena.

Il testo definisce anche nuovi diritti per i boliviani, come ad esempio l'accesso alle abitazioni, e più obblighi per lo Stato, come ad esempio la garanzia dell'accesso per tutti gli abitanti del paese all’assistenza sanitaria, acqua potabile e rete fognaria, queste due ultime considerate nella categoria dei diritti umani.

Inoltre, si considera il recupero del corpo elettorale come quarto potere dello stato e l'elezione per voto diretto delle autorità della magistratura, anche se non soggette al meccanismo di revoca del mandato, come definito dall’Assemblea.
La proposta del nuovo testo costituzionale sarà anche di orientamento per una maggiore presenza dello Stato in economia e per definire il secondo turno delle votazioni e delle elezioni presidenziali e vice presidenziali , un’opportunità unica.


Tratto da:
Conozca el proyecto de CPE que irá a votación
su La Razon, Bolivia, 22 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Dalla frontiera tra Kenya e Somalia


In fuga dai combattimenti, i rifugiati somali si accalcano alla frontiera con il Kenya.
La ragione, l' impotenza o il cuore, non si sa ciò che l'ha causato, ma il fatto è là: la frontiera con la Somalia rimane ufficialmente chiusa, ma le autorità Keniote, sommerse, ora chiudono gli occhi, e lasciano che i Somali disperati si infilino nella boscaglia per rifugiarsi sul loro territorio. Per tutti coloro che fuggono il loro paese sprovvisto di governo centrale dal 1991, non c’è alcuna necessità di giustificazioni.


In Somalia, i combattimenti continuano tra i gruppi insorti di tendenza djihadista ed i loro nemici del governo federale di transizione (TFG), una struttura tronca sostenuta dall'Etiopia ed il suo contingente dispiegato nel paese.
L'Amisom una forza di mantenimento della pace dell'Unione africana, è anch’essa oggetto di violenti attacchi.
Lontano dagli occhi, lontano dalla crisi finanziaria, la Somalia è oggi alla soglia d' una catastrofe di grande portata.
"è una tragedia dimenticata", ha dichiarato Rama Yade, segretario di Stato agli affari esteri incaricato dei diritti dell'uomo, in visita, giovedì 16 ottobre a Dadaab, all’estremo est del Kenia, riconoscendo i Somali che arrivano senza sosta.
Alcuni arrivano fino da Mogadiscio, a molte centinaia di chilometri, dove i combattimenti uccidono i civili a caso. Dall'inizio dell'insurrezione, nel 2007, circa 700.000 persone sono fuggiti dalla città. Circa la metà di loro si sono accampati intorno alla capitale, mentre gli insorti più radicali hanno lanciato un movimento per cacciare le organizzazioni umanitarie internazionali dalla Somalia.
Quante persone si aggirano ogni giorno, ogni notte, nei dintorni di Dadaab? Almeno 200. Arrivano, estenuati, come Nasra Abdi Farah, che è fuggito dalla zona di Tawfiq, a Mogadiscio, bombardata e devastata da diciotto mesi. Sua figlia, d'una magrezza estrema, riprende le forze bevendo del latte arricchito. " Io non ho un posto dove dormire. E ce ne sono tanti come me", spiega tristemente.
All'esterno dei tre campi che compongono Dadaab, aperto dal 1991, delle orde di infelici si ammucchiano in capanne sommarie.
L'alto commissariato dei rifugiati (HCR), che è stato aperto a Dadaab nel 1991, ed ha visto delle generazioni intere di Somali nascere e crescere, lavora per l'apertura urgente di un nuovo campo in mezzo alla pianura ingrata dove prosperano soltanto le piante spinose e la polvere. "Occorrerebbe aprirne due. Ma non si sa se ci saranno i fondi", spiega Ephraïm Tan, incaricato dei censimenti, che nota che la popolazione di Dadaab è aumentata del 25% nel corso degli ultimi otto mesi.
Sollecitazione di aiuto
Comunque questi arrivi non rappresentano che una parte modesta del dramma vissuto dai Somali all' interno del loro paese. Il numero di persone dipendente dall' aiuto umanitario internazionale è aumentato del 77% da gennaio, secondo l' ONU, per arrivare ormai ad un totale impressionante: 3,2 milioni di Somali, la metà della popolazione del paese. Ma, sul posto, gli umanitari sono diventati degli obiettivi militari. Un gruppo di 52 organizzazioni umanitarie ha lanciato, il 6 ottobre, una richiesta di aiuto, ricordando che, dall'inizio dell' anno, 24 persone che lavorano per le ONG, somali per la maggior parte, sono state assassinate. Due settimane più tardi, occorre aggiungere due nuove vittime all'elenco, mentre la siccità regionale e l' inflazione galoppante sta per causare una catastrofe ancora più grande.
L’unica speranza è rappresentata dall'iniziativa di pace portata avanti da Ahmedou Ould Abdallah. Il rappresentante speciale del segretario generale dell'ONU ha già ottenuto da una parte dei belligeranti la firma di un accordo che prevede uno spiegamento di unità congiunte TFG-insorti. A Nairobi, la signora Yade ha tenuto a garantire che la Francia sosteneva l' iniziativa di Ahmedou Ould Abdallah, il quale, dice lucidamente, è condannato a fare miracoli.


Tratto da:
Fuyant les combats, les réfugiés somaliens affluent au Kenya di Jean-Philippe Rémy
su
Le Monde, Francia, 20 ottobre 2008
tradotto da Mario Squarotti



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Afghanistan: guerra sporca in Helmand


La provincia meridionale di Helmand, epicentro della produzione afgana di oppio ed eroina, è il fronte più caldo della guerra tra le forze d'occupazione della NATO e la guerriglia talebana. Quello dove i talebani sono più forti e dove le truppe occidentali, e quelle governative afgane, sono in maggiore difficoltà.

L'11 ottobre, per la prima volta dall'inizio della guerra nel 2001, la guerriglia ha attaccato la capitale provinciale, Lashkargah.
I talebani si sono mossi in forze dalla loro nuova roccaforte, la sperduta oasi di Baramchà, nel mezzo del Deserto della Morte, vicino al confine con il Pakistan. Sono penetrati fino alla periferia della città attraverso il distretto rurale di Nad Alì, subito a ovest di Lashkargah, che avevano già conquistato all'inizio del mese. Hanno bombardato con razzi e artiglieria leggera i palazzi governativi del centro, ingaggiando violenti combattimenti con l'esercito afgano. Solo l'intervento delle forze britanniche e dell'aviazione Usa ha scongiurato la presa della città.
Pochi giorni dopo i talebani hanno sferrato una massiccia offensiva anche più a nord, vicino alla cittadina di Grishk, costringendo le truppe NATO danesi e quelle governative afgane ad abbandonare le loro basi nei villaggi di Attal e Barakzai. Ora si teme un attacco talebano contro il vicino centro urbano di Sangin, difeso da settecento marines britannici.

Gli àscari della NATO

In attesa di rinforzi, le truppe della NATO, ormai assediate dai talebani nelle cinque città della provincia (Lashkargah, Grishk, Sangin, Musa Qala e, a sud, Garmsir), si affidano ai bombardieri americani e alle milizie private dei signori della droga locali che si sono venduti alla NATO. La più quotata è quella di Abdul Wali Khan, detto 'Koka', che dopo aver passato 14 mesi nella prigione Usa di Bagram per i suoi legami con la resistenza talebana, due anni fa è stato arruolato dai generali inglesi assieme ai suoi 220 uomini per combattere contro i talebani. I miliziani di Koka, con indosso la divisa della polizia afgana, hanno combattuto la resistenza compiendo stragi di civili e terrorizzando gli abitanti dei villaggi sotto il loro controllo (violenze, stupri, rapimenti, estorsioni). Tutti lo sanno, ma chiudono un occhio. "Gli uomini di Koka - ha dichiarato al Times di Londra uno dei loro addestratori, il sergente Don Wilson del 2° battaglione dei marines del Reggimento Reale di Scozia - non sono certo dei vigili urbani, ma la gente li rispetta e i talebani li temono".


Tratto da:
Guerra sporca in Helmand di Enrico Piovesana
su PeaceReporter, Italia, 22 ottobre 2008



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17 persone uccise da una bomba nel nordest dell’India


Almeno 17 persone sono state uccise e 30 altre ferite nello Stato di Manipur, in India nord-orientale, in seguito all’esplosione di una bomba, secondo una fonte ufficiale citata dall’agenzia PTI.

Il congegno è esploso alle 19:30 ora locale vicino a un centro di formazione delle forze di polizia contro i ribelli nella capitale di Manipur, Imphal. Secondo una fonte di polizia raggiunta dalla agenzia IANSA la maggior parte delle vittime sono civili.

Almeno tredici persone sono morte sul luogo dell’attacco mentre altri quattro sono morti in ospedale. Molti dei feriti sono gravi, secondo fonti citate dalla PTI.

Secondo il primo rapporto ufficiale, gli autori della strage hanno perpetrato l'attacco mentre molti civili e membri delle forze di sicurezza giocavano a carte e a fare scommesse, come consuetudine in India nei giorni prima della festa religiosa indù di Diwali.

Anche se per il momento nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità per l'attacco, sia detto che nel Manipur e nelle regioni adiacenti operano gruppi separatisti che chiedono l'indipendenza dall'India.

Il nord-est dell’India è formato da sette Stati, chiamati le "sette sorelle": Arunachal Pradesh, Assam, Manipur, Meghalaya, Mizoram, Nagaland, Tripura.

Gli abitanti di queste regioni, unite solo da un braccio di terra al resto del paese, sono differenti dal punto di vista etnico, culturale e religioso rispetto ai cittadini del resto del gigante asiatico.

Qui le attività dei gruppi separatisti lo scorso anno hanno causato la morte di 1.091 persone.
Molti degli attacchi sono diretti contro gli immigrati da altre regioni indiane in cerca di lavoro.
Fin dall’indipendenza dell’India (1947) le regioni chiedono uno statuto autonomo o, in alcuni casi, l’indipendenza dal governo centrale. Gli Stati più colpiti dalle attività dei separatisti sono l’Assam (che chiede la costituzione di un Stato indipendente, detto ‘Bodoland’, che comprende tutti i sette Stati del nord-est), il Manipur, il Nagaland (che chiede la costituzione di una federazione indipendente denominata ‘Grande Nagaland’ e comprendente anche l’Arunachal Pradesh, l’Assam e il Manipur), e il Tripura.

In oltre mezzo secolo il movimento indipendentista non è mai riuscito a formare un fronte unito. Al contrario, le tensioni tra i separatisti - di carattere politico, etnico, linguistico e religioso – hanno causato una frammentazione che ha portato alla costituzione di 112 gruppi guerriglieri. Tra questi figurano anche quelli delle minoranze etniche e religiose, formati in maggior parte dagli immigrati islamici provenienti dal Bengala indiano e dal Bangladesh, che subiscono continui assalti dalle popolazioni autoctone (di origine sino-tibetana e di religione induista, buddhista o cristiana).

Questo attentato è il peggiore registrato nel Manipur. Appena due giorni fa una bomba era esplosa vicino alla residenza del capo del governo della regione, Ibobi Singh, rimasto illeso. La rivendicazione era stata effettuata dal Partito Popolare Rivoluzionario Kamgleipak, uno dei gruppi separatisti nel Manipur.


Tratto da:
Gruppi indipendentisti del nord-est indiano di Sergio Trippodo
su Stringer, Italia
Mueren 17 personas por explosión de bomba en el noreste de la India
su La Tribuna, Honduras, 21 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Centro Amilcar Cabral - Scheda sull'India



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martedì 21 ottobre 2008

Bolivia: maggioranza e opposizione trovano l'accordo


Dopo 12 giorni di intense riunioni, maggioranza e opposizione boliviane sono giunte al tanto atteso accordo che rende possibile l'approvazione di una legge che permetta di convocare un referendum popolare per la ratifica della nuova Costituzione già votata fra mille polemiche dall'Assemblea Costituente. La data prevista per il referendum è il 25 gennaio 2009 mentre le elezioni generali sono previste per il dicembre dello stesso anno.

Parte del merito dell'accordo raggiunto sicuramente deve essere dato al presidente Evo Morales che sembra essere andato in contro alle richieste dell'opposizione. Morales infatti da quando il nuovo testo costituzionale entrerà in vigore rinuncerà alla seconda rielezione prevista per il 2014. Non solo. Ampie concessioni e promesse di cambiamento sono state fatte dal presidente all'opposizione, che vedrà sostanziose modifiche anche rispetto al decentramento del potere amministrativo, alla riforma agraria e a quella della giustizia. L'opposizione, dunque, ha ottenuto una mezza vittoria se si considera che anche la redistribuzione dei proventi derivanti dall'industria petrolifera e dei gas entra a far parte delle modifiche al testo costituzionale.

Se da un lato il presidente è stato una pedina fondamentale nello scacchiere delle trattative, dall'altro anche i campesinos e gli operai boliviani hanno avuto il loro merito. Dopo settimane di proteste e una marcia lunga più di duecento chilometri, i manifestanti si sono fermati a El Alto, sobborgo a circa 20 chilometri da La Paz, minacciando l'ingrasso in città e il blocco delle attività del Congresso, qualora non si fosse trovato un accordo fra le parti. Anche lo stesso presidente si era radunato con loro e aveva lanciato un monito: “Approvino la Costituzione o se ne vadano a casa perchè bloccheremo i lavori del Congresso. L'opposizione deve smettere di ricattare e non vedere quello che vuole il popolo”.

La convocazione del referendum popolare sulla nuova Carta Magna deve essere approvata da due terzi del Congresso. Il Mas (Movimento al Socialismo, la formazione di Morales) non ha tutti questi voti a disposizione e anche per questo è stato costretto alla negoziazione con l'opposizione. Lo sanno bene i cocaleros, i campesinos, gli operai e i minatori che da settimane protestano al fianco del Presidente. E la città di La Paz è stata paralizzata per lungo tempo in attesa di vedere la fumata bianca provenire dai palazzi del potere in plaza Murillo. Nel bene o nel male forse proprio oggi inizia il nuovo corso boliviano. Quello per cui è stato eletto Evo Morales.


Tratto da:
Accordo raggiunto di Alessandro Grandi
su PeaceReporter, Italia, 21 ottobre 2008



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Thailandia: condannato per corruzione l'ex premier Thaksin


L’ex Primo Ministro in esilio della Thailandia, Thaksin Shinawatra, è stato riconosciuto colpevole di corruzione e condannato a due anni di prigione dalla Corte Suprema thailandese.
È stato condannato anche per aver violato le leggi nazionali sul conflitto di interessi e aver aiutato la moglie, la signora Pojaman, a comprare dei terreni dallo stato a prezzi ribassati.


A fine luglio il tribunale criminale thailandese aveva dichiarato la signora Pojaman colpevole di evasione fiscale, condannandola a tre anni di detenzione. La sua cauzione è stata fissata a circa 220.000 euro. La moglie di Thaksin avrebbe evaso le tasse, nel 1997, per milioni di dollari. Coinvolti anche suo fratello, Bhanapot Damapong e la segretaria, condannati rispettivamente a tre e due anni di prigione.
La coppia si era rifugiata nel Regno Unito in agosto denunciando che non sarebbero stati sottoposti a un giusto processo.

La condanna dell’ex Primo Ministro arriva mentre crescono sempre più le tensioni tra i sostenitori e gli oppositori dell’ex leader. E questo è solo il primo dei vari processi che avanzano lentamente contro Thaksin, in precedenza proprietario ed oro presidente onorario del Manchester City football club.
I leaders del colpo di stato militare del 2006 denunciarono gravissimi abusi di potere e casi di corruzione sotto il governo di Thaksin, e misero in piedi una speciale unità per investigare gli affari dell’ex leader e dei suoi consociati.

Per settimane gli oppositori hanno protestato nelle strade chiedendo le dimissioni dell’attuale governo, considerato troppo vicino a Thaksin. E difatti il governo del Primo Ministro Somchai Wongsawat, cognate di Thaksin, è stato virtualmente paralizzato dale proteste.

Secondo gli analisti il verdetto non calmerà le migliaia di manifestanti che da due mesi sono accampati fuori dall’ufficio del Primo Ministro.


Tratto da:
Lodo Thailandia di Marco Travaglio
su La Repubblica.it, Italia, 5 agosto 2008
Thai ex-PM guilty of corruption
su BBC News, Regno Unito, 21 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Thailandia: la polizia carica gli oppositori a Bangkok ...




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La pace a rischio nel nord dell'Uganda


Andando in auto dalla città di Gulu nel nord dell’Uganda a Kitgum, si viene colpiti dal modo in cui le cose sembrano normali ora. La gente cammina su e giù per la strada sterrata principale che collega le due città, le biciclette schivano le buche e le auto con precisione, e qualche autobus occasionale avanza lentamente, lasciando nuvole di polvere al passaggio.

Ma prima che l'Uganda e il Lord's Resistance Army (LRA) firmassero un cessate-il-fuoco nel mese di agosto 2006, i cespugli di erba alta e la bassa densità di popolazione dei villaggi erano le condizioni ideali per le imboscate, e redevano facile per i ribelli il rapimento di nuove reclute. Questa strada, ora piena di vita, era normalmente quasi vuota, la gente si muoveva furtivamente e velocemente da un luogo all'altro, sempre vigile, timorosa di imbattersi nei ribelli, in una guerra che ha reclamato migliaia di vite umane.

Dopo più di venti anni da quando il capo del LRA Joseph Kony ha iniziato la sua ribellione, il nord dell’Uganda vede i primi effetti della pace; sia quelli buoni che quelli cattivi. La produzione agricola è in aumento poiché la gente torna ai campi, il nord potrebbe diventare il granaio dell’Uganda. Al culmine della guerra, circa 2 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case. Ora per la maggior parte sono tornati nei loro villaggi o nelle aree di transizione. Ma, non è stato tutto facile. In effetti, molti sono i nuovi problemi emergenti. Un focolaio di epatite E altamente infettiva ha ucciso più di 100 persone finora. Molti sono i settentrionali di ritorno nei villaggi che hanno abbandonato durante il lungo corso della guerra. Le organizzazioni umanitarie dicono che le condizioni erano spesso migliori nei campi per rifugiati che nei villaggi. Molti ritornano in zone con scarso accesso all'acqua potabile e a servizi igienici. E questa porta più malattie e più sofferenza.

In aggiunta a questi problemi, i ribelli di Kony non hanno ancora firmato un accordo di pace definitivo per portare a termine il conflitto nonostante una serie di accordi tra il LRA ugandese e i negoziatori nel corso di quest'anno. Molti settentrionali si dicono preoccupati che la pace possa non tenere. Essi mantengono un occhio sui campi e un altro occhio vigile nel caso in cui la guerriglia tornasse. Kony è ora altrove a destabilizzare le lontane regioni di confine della Repubblica Democratica del Congo e del Sudan, dove l'inafferrabile leader è stato accusato di rapimento di bambini, uccisioni e altri delitti. Per questi e altri crimini di guerra, la Corte penale internazionale dell'Aja vuole arrestarlo. I ribelli, prima di firmare l'accordo di pace, richiedono maggiori chiarimenti su come Kony e due dei suoi seguaci potranno sfuggire al processo a L'Aia. Ma la posizione dell’Uganda è che Kony debba prima firmare e solo dopo le accuse potranno essere messe da parte. Quindi, la questione di come fare con un eventuale ritorno dei ribelli, ben conosciuti per l'utilizzo della mutilazione come una tattica per spargere terrore, resta al centro degli sforzi di pace.
Ci sono stati altri tentativi di pace prima, ma tutti sono terminati con un nulla di fatto, e il nord del paese è stato restituito alla guerra. La pace terrà questa volta? Kony uscirà dalla macchia per firmare l'accordo definitivo? O il nord dell’Uganda, ancora una volta, sarà risucchiato nel conflitto?


Tratto da:
Will peace hold in northern Uganda? di Jack Kimball
su Reuters, Regno Unito, 20 ottobre 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Uganda, governo e ribelli Lra raggiungono accordo su crimini di guerra
L'Uganda nelle mani di Joseph Kony



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lunedì 20 ottobre 2008

Gli indigeni colombiani persistono nella lotta per i loro diritti


Un milione e trecentomila indigeni colombiani hanno iniziato questo sabato la seconda settimana di una minga (giornata comunitaria) convocata per reclamare terre che gli apparterrebbero ancestralmente, in una protesta che presenta già il saldo di due morti e più di sessanta feriti, dovuti alla repressione della polizia.

"Siamo decisi alla lotta contro il genocidio dei popoli indigeni nel paese", ha detto il segretario generale dell'Organizzazione Nazionale Indigena della Colombia (ONIC), Luis Fermando Aias, che ha avvertito che la protesta continuerà indefinitamente "fino a che il Presidente Alvaro Uribe non ci ascolterà".

Intanto, il presidente di questa nazione, Alvaro Uribe, ha proposto questo sabato di comprare terre per gli indigeni in una zona del dipatimeno del Cauca (Sudovest), come soluzione alle proteste di questo gruppo etnico.

Uribe ha avvertito che la polizia antisommossa rimarrà nella zona.

"Ciò che propongo ai compatrioti, ai ministri, è comprare le terre: chiediamo un ribasso dei prezzi e gettiamoci questo problema alle spalle", ha dichiarato Uribe durante un consiglio comunitario del Governo nel municipio di Quetame, nella zona centrale del paese.

Le terre da comprare sono ubicate nella località di Caldono, di popolazione paéz e guambiana, i cui leader assicurano di esserne i legittimi proprietari da età ancestrale.

L'ordine presidenziale fu inviato ai ministri dell'Interno e della Giustizia, dell'Agricoltura e della Protezione Sociale, che cercano un accordo con i delegati dei più di settemila indigeni che reclamano l'occupazione della terra.

Gli indigeni e questi funzionari, che sono stati designati delegati dal presidente Uribe, si riuniscono nella sede del Governatorato di Cauca, nella città di Popayán, capoluogo di questo territorio.

Alcuni minuti prima di iniziare la riunione, i ministri Fabio Valencia, degli Interni e Giustizia; Andrés Felipe Arias, dell'Agricoltura, e DiegoPalacio, della Protezione Sociale, hanno dichiarato ai giornalisti che il governo "non ammetterà posizioni o vie traverse", come quella di occupazioni di strade e poderi.

All'incontro prendono parte anche il governatore del Cauca, Guillermo Alberto Gonzáles MOsquera, e funzionari dell'amministrazione dipartimentale.

Nonostante che il governo colombiano assicuri che queste manifestazioni hanno l'appoggio delle Forze Rivoluzionarie della Colombia (FARC), il segrtariato della ONIC ha assicurato che "non c'è alcun tipo di infiltrazione o di interesse oscuaro".

I reclami sulla terra da parte degli indigeni, il rispetto di accordi sottoscritti dal governo, il rispetto dei loro diritti, la loro neutralità rispetto al conflitto armato, e la firma da parte del governo colombiano della Convenzione sui Diritti Indigeni dell'ONU, sono le principali rivendicazioni.

Sui reclami sulla terra, il presidente Uribe assicura che gli aborigeni posseggono il 27% del territorio della nazione.

Sebbene Arias confermi questa percentuale, riconosce che dal 1961 il governo colombiano ha consegnarto solo 200.000 ettari, e gli altri sono stati conservati in loro nome.

Da parte loro, i 225.000 indigeni Uwa che abitano nel nordest del paese, hanno dichiarato che la loro lotta serve a evitare che la compagnia petrolifera di stato Ecopetrol sfrutti il loro territorio.

"Il governo sostiene che non sta svolgendo operazioni nella riserva, ma temiamo che successivamente, in fase di esplorazione, entrino nella zona. Il petrolio è il sangue della Madre Terra", ha detto alla AFP Armando Tengria, segretario deò consiglio della comuntà.

Si oppongono anche a un trattato di libero commercio (TLC), sottoscritto dalla Colombia con gli Stati Uniti, perché secondo Tengria "arrivano le multinazionali e saccheggiano le risorse naturali dei territori indigeni".


Tratto da:
Indígenas colombianos persisten en la lucha por sus derechos
su telesur, Venezuela, 20 ottobre 2008
tradotto da Gianluca Bifolchi per Achtung Banditen



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Tijuana: guerra all'interno del cartello Arellano-Félix


“Siamo persone dell'ingegnere indebolito”. Un messaggio sinistro accompagna corpi massacrati, con la testa carbonizzata, ennesima macabra scoperta in quel di Tijuana, Baja California. Sono decine ormai, nella settimana tra fine settembre e inizio ottobre gli omicidi barbari che hanno segnato il territorio messicano al confine con gli Usa. E che portano il segno di una lotta tra cartelli. O, per meglio dire, una guerra intestina al cartello Arellano Félix, per decimare gli uomini dell' “Ingegnere”. Sembra infatti impossibile scollegare questa nuova folata di violenza dalla situazione interna del cartello che comanda a Tijuana ma che vede, giorno dopo giorno, franare terreno intorno a sé. Lo confermano le autorità giudiziarie, è vero, ma le sorti del clan Arellano Félix sembravano, se non segnate, quantomeno difficili già nel 2006.

Il nuovo leader

Sono passati poco più di due anni, da quell'agosto. Lo yacht “Dock Holiday” era alla fonda nel rilassante scenario delle acque internazionali della Baja California, a Cabo San Lucas, nei pressi di La Paz, quindici miglia dalla costa. Dopo un lungo appostamento e un preciso lavoro di osservazione la Guardia Costiera, operante per conto della Dea, avvicinava il panfilo, attraccava ed effettuava alcuni arresti eccellenti. Sull’imbarcazione stava infatti trascorrendo le vacanze il Francisco Javier Arellano Félix, esponente di primo piano all’interno del cartello di Tijuana.
Un altro duro colpo per la compagine degli Arellano Félix, dopo che Ramón era stato ucciso nel 2002. Da quel giorno il cartello che controlla la zona immediatamente a sud di San Diego ha attraversato un periodo difficile, alla costante ricerca di un nuovo leader che assumesse la guida dell'organizzazione. Eduardo Arellano Félix, l'ennesimo fratello, è tuttora ricercato, ma non è stato lui a raccogliere l'eredità di leader. Fernando Sanchez Arellano ha 33 anni ed è il nipote dei più famosi zii, un tempo a capo del cartello. “El Ingeniero”, come viene soprannominato è ora considerato il successore di Francisco Javier, a capo della famiglia criminale. A lui dunque erano diretti i messaggi trovati sul luogo del delitto. Un attacco diretto ai suoi uomini. Da parte di chi?

Segnali di guerra

Dopo l'ennesima mattanza anche il procuratore generale Rommel Moreno Manjarréz ha constatato che la guerra lungo la frontiera settentrionale è evidentemente uno scontro interno al cartello di Tijuana. A contrapporsi al “Ingeniero” sarebbe Teodoro Garcia Simental, detto “El Teo”, un ex affiliato del cartello di frontiera e ora principale avversario di Sanchez Arellano. Il nuovo leader sarebbe entrato in contrasto con il sottoposto per aver richiesto di cessare la pratica dei rapimenti in zona, pratica che ha sempre portato le forze dell'ordine a inasprire la lotta al cartello. Una richiesta respinta da Garcia che ha condotto a una scissione interna culminata in uno scontro a fuoco, lo scorso aprile. Quindici corpi a terra, in un bagno di sangue. “El Teo” in fuga, verso lo Stato di Sinaloa. Giusto il tempo di riorganizzarsi. Per poi colpire. Non a viso aperto. Ma gli effetti sono egualmente devastanti. Le prime avvisaglie ad agosto, con quattro corpi decapitati; poi una successione terribili di omicidi. La settimana scorsa, altri otto morti, due dei quali con la testa decapitata posta sul busto e un messaggio di morte sempre indirizzato a “El Ingeniero”.
La vendetta del “Teo” sembra prendere una macabra forma e la violenza non può che aumentare: due piccoli eserciti, con un centinaio di mani armate, dislocate sulla Costa, Sanchez, o padroni della zona est della città, Garcia.

Alianza de Sangre ?

Garcia Simental è tornato in città più forte di prima. Il suo viaggio nello stato di Sinaloa gli ha permesso di venire in contatto con il potente cartello di Sinaloa, di Joaquin “El Chapo” Guzman, che gli ha fornito appoggio militare per rientare a Tijuana in pompa magna. «Lo schema d'azione del cartello di Sinaloa è presente nel modus operandi utilizzato nell'uccisione delle persone» ha dichiarato il procuratore generale Rommel Moreno Manjarréz. Alcune fonti raccolte dal periodico di Tijuana, Zeta, fanno riferimento anche alla possibilità di un contatto tra Garcia e Edgar "La Barbie" Valdez Villarreal, il principale riferimento militare del cartello di Sinaloa, nonché capo dei paramilitari del cartello, i Los Negros. L'accordo potrebbe prevedere non solo un mero attacco vendicativo al nipote degli Arellano Félix, quanto un vero e proprio tentativo di prenderne il posto a capo del cartello. Tutto questo con l'aiuto di Guzman che potrebbe in questo senso trovare un'alleanza importante sull'area pacificia, se Garcia dovesse riuscire a scalzare il giovane Arellano. Il cartello di Tijuana soffocato dagli arresti e dalle uccisioni potrebbe dunque soccombere. E se il cartello di Sinaloa è attivamente interessato, i rivali del cartello del Gulfo non sono da meno. Alcune uccisioni, dice il procuratore Martin Rubio «presentano i tipici tratti dell'organizzazione con base nel sud del Texas». E se fosse davverò così, Tijuana, città di frontiera potrebbe diventare la Nuevo Laredo della costa pacifica: teatro dell'ennesima strage tra i cartelli per il controllo di uno snodo cruciale del narcotraffico, là verso il Texas, qui verso la California statunitense.


Tratto da:
Tijuana, un'altra Nuevo Laredo? Guerra all'interno del cartello Arellano-Félix di Stefano Fantino
su liberainformazione
, Italia, 10 ottobre 2008


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