venerdì 27 febbraio 2009

Tornare a casa senza avere una casa


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 44/2009 di Notizie Verdi

È una guerra sconosciuta quella che dal 1969 insanguina la parte meridionale delle Filippine. Oltre 120mila morti e 2 milioni di profughi non sono bastati a farne un conflitto degno di attenzione tanto che nemmeno i filippini sanno davvero cosa succede nelle foreste a sud, in Mindanao, dove la vita della gente moro è tanto diversa da quella che scorre frenetica nella popolosa Manila.Per questo non fa notizia che il governo decida di chiudere i campi allestiti per dare soccorso ai profughi interni (IDPs, internally displaced people) che negli ultimi mesi si sono riversati fuori dalle zone dove infuriano i combattimenti tra truppe governative e separatisti musulmani del Milf (Moro Islamic Liberation Front).

Le autorità sostengono che l’obiettivo è far tornare i profughi nelle loro comunità, un benevolo ritorno a casa per migliaia e migliaia di contadini per i quali da sempre la guerra è la normalità e la povertà è la regola. Dicono che in questo modo sarà più facile per le agenzie governative prendersi cura delle popolazioni colpite dai combattimenti. Polizia ed esercito provvederanno alla sicurezza dei profughi nel loro viaggio di ritorno. Come se fosse facile prendersi cura di oltre 112mila contadini poveri che da sei mesi fuggono dai bombardamenti. Come se tornare a casa fosse una parola, un concetto, un’idea, non una realtà che ha bisogno di case ancora in piedi, di villaggi non abbandonati, di campi da coltivare, di una rete sociale, tutte cose che non esistono più perché la guerra è passata come un tifone e ha distrutto tutto.

Di tutto questo poco sa la maggioranza cattolica e occidentalizzata del Paese che si oppone alla minoranza musulmana tradizionalista, i moro, così chiamati dagli spagnoli a causa della pelle scura. Una minoranza che lotta per la sua identità culturale fin dai tempi della colonizzazione, nel Cinquecento. Non è mai stata solo una questione di religione perché tutto il sostrato culturale, dalla lingua all’organizzazione civile, fa dei moro un popolo a parte che mai accettò altre autorità all’infuori delle proprie.
Il processo di indipendenza delle Filippine non tenne conto di queste diversità e per questo le tensioni montate nel corso dei decenni sfociarono in una guerra secessionista alla fine degli anni Sessanta.

I combattenti moro lottano per avere pieno controllo delle terre ancestrali, quelle dove ancora il loro popolo vive in maggioranza rispetto agli immigrati cristiani dal nord del Paese. Il governo filippino, forte del sostegno militare americano, non ha al contrario nessuna intenzione di cedere il controllo delle vaste risorse naturali del Mindanao. Chiudere i campi profughi è un atto di forte pressione politica sui vertici del Milf per sottrargli consenso tra le popolazioni locali e far sì che accettino un’autonomia fittizia fatta solo di parole e definizioni, in alternativa ad una guerra interminabile di cui, ormai da decenni, i contadini moro sono prigionieri e vittime.

Bruno Picozzi



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giovedì 26 febbraio 2009

L’omofobia non conquista il Burundi


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 43/2009 di Notizie Verdi

A grande maggioranza il senato del Burundi ha fatto muro contro il tentativo di criminalizzare l'omosessualità nel Paese. Lo scorso novembre la camera bassa del piccolo stato centroafricano aveva approvato un disegno di legge secondo il quale atti sessuali compiuti tra persone dello stesso sesso sarebbero stati punibili con una pena compresa fra tre mesi e due anni di carcere.

In risposta il senato, nonostante le forti pressioni da parte dei settori tradizionalisti della società, ha emendato in più punti la versione già approvata alla camera eliminando le conseguenze penali per gay e lesbiche. Il voto sull’ultimo emendamento, quello che prevedeva la galera per gli atti omosessuali, ha visto 36 senatori su 43 schierarsi contro l’omofobia.

Un risultato in un certo modo sorprendente per un Paese appena uscito da una sanguinosa guerra civile, in grande maggioranza cattolico, dove la quasi totalità della popolazione vive in aree rurali in preda a povertà, arretratezza culturale e disagio sociale.

È la prima volta nella storia che il parlamento burundese cerca di approvare una legge che criminalizzi l’omosessualità, ma non si tratta di un caso isolato. In Africa vi è un movimento di crescente e aperta ostilità verso gay e lesbiche sotto la spinta di motivazioni complesse. I due terzi delle nazioni africane puniscono l’omosessualità come un crimine, a volte con pene pesantissime che possono giungere fino all’esecuzione capitale. Negli ultimi anni numerosi Paesi, tra cui Nigeria, Uganda e Zimbabwe, hanno minacciato di rafforzare le leggi contro l'omosessualità.

I vari fondamentalismi religiosi sempre più radicalizzati in tutto il continente rappresentano certamente una spinta notevole verso l’omofobia ma non sono l’unica spiegazione. Ad esempio la posizione radicalmente omofobica del padre-padrone dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha connotati fortemente politici e antioccidentali più che religiosi. Anche la forte incapacità da parte delle classi dirigenti di affrontare il disagio sociale diffuso spinge i governanti a spostare l’attenzione delle masse meno istruite su problemi più semplici e comprensibili. L’omosessuale diventa il nemico più facile da affrontare e sconfiggere. Anche a causa di questa nuova persecuzione sempre meno occulta, il Sudafrica liberale e democratico è uno dei sette stati al mondo che concede lo status di rifugiato anche per ragioni inerenti alla sessualità.

Human rights watch, la potente Ong che si occupa di diritti umani, sottolinea che la legge in discussione al parlamento burundese, senza gli emendamenti del senato, avrebbe violato sia la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli che il Patto internazionale sui diritti civili e politici, documenti entrambi sottoscritti dal Burundi.

Ora la nuova versione della legge così come approvata dal senato ritorna alla camera bassa per l'adozione, ma in caso di mancata approvazione le due camere dovranno formare una commissione congiunta con lo scopo di varare un testo di compromesso.

Bruno Picozzi



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giovedì 19 febbraio 2009

Un limbo chiamato Kosovo


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 38/2009 di Notizie Verdi

Per celebrare il primo anno di vita del Kosovo la capitale Pristina si è vestita di bandiere, colori e cartelli con su scritto “buon compleanno”. Il parlamento del più giovane stato europeo si è riunito martedì scorso alle 11 in punto, l’ora esatta della dichiarazione di indipendenza dalla Serbia. In migliaia sono scesi per strada a festeggiare, cantando l’inno nazionale e ostentando la propria identità culturale, di matrice albanese. Sullo sfondo una situazione relativamente migliore di un anno fa, quando si conviveva con black out elettrici continui, acqua a singhiozzo e servizi inesistenti, pesante eredità della guerra recente.

Eppure i problemi sono ancora tanti, la disoccupazione ha raggiunto il 75% tra i più giovani mentre i prezzi sono divorati dall’inflazione, e il piccolo stato balcanico vive nel limbo di un’esistenza precaria, garantita dal poco consistente ombrello diplomatico europeo, per l’occasione anche dimezzato. Solo 54 Paesi, dei 192 aderenti all’Onu, hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. A favore la madre Albania, gran parte del blocco Nato, Usa in testa, con gli alleati Turchia e Giappone e buona parte degli ex fratelli jugoslavi. Contraria ovviamente la Serbia che ha fatto ricorso alla Corte internazionale di giustizia contro la secessione unilaterale. Contrari Russia e Cina, ma anche l’India, erosa com’è da tanti piccoli conflitti interni di matrice autonomista e separatista. Contrari gli europei Spagna, Grecia, Romania e Cipro, alle prese con i rispettivi indipendentismi. Contraria la Bosnia.

Una missione civile, la Eulex, è stata finanziata dall’Ue con circa duemila tra poliziotti, magistrati, avvocati e doganieri inviati con lo scopo di aiutare il giovane governo a costruire uno stato di diritto. A questi si aggiungono migliaia di militari Nato, europei e statunitensi, nel ruolo di peacekeepers, principalmente chiamati a proteggere il 10% della popolazione di etnia serba concentrata nella regione settentrionale di Mitrovica. Da gennaio il Kosovo può anche contare su un suo piccolo esercito nel cui reclutamento sono state coinvolte le minoranze.

Le catastrofi preannunciate da alcuni analisti non si sono verificate: né esodo di serbi verso la madrepatria, né guerre di pulizia etnica, né destabilizzazione della regione, né secessioni a catena. Ma le relazioni con il governo serbo, che peraltro è filoeuropeo, sono di aperta ostilità. Piccoli incidenti ricorrenti tra le due comunità hanno allontanato Mitrovica dal controllo di Pristina. Non vi circolano le forze dell’ordine kosovare e nemmeno gli europei dell’Eulex sono benvenuti. Un parlamentino alternativo, apertamente appoggiato da Belgrado, guida la piccola comunità serba in terra kosovara, rifiutando ogni offerta di dialogo. Del resto coloro che a Pristina sono eroi, a Belgrado sono considerati criminali di guerra.

Ma il fatto grave è che la giovane classe politica mostra debolezza e incapacità. Una prima fase di transizione avrebbe dovuto chiudersi con le elezioni politiche che sono state invece rimandate, rimandando con esse il rafforzamento democratico della nazione. Molti accusano i dirigenti attuali di essere la soldataglia e i contrabbandieri di ieri riciclati alla politica, gente inadatta a gestire un processo democratico. L’economia non decolla, colpa della crisi globale ma anche del fatto che il Kosovo non produce nulla e sopravvive di rimesse dall’estero e di aiuti internazionali.

Nel frattempo il popolo fa festa e i giovani sperano in un futuro di pace, benessere e apertura verso l’Europa. Ma il Kosovo rimane oggi una piccola prigione da cui è difficile uscire, e se le aspettative create con l’indipendenza non saranno rispettate sentiremo ancora parlare di questo piccolo stato troppo vicino a noi.

Bruno Picozzi



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venerdì 13 febbraio 2009

La Romania degli ungheresi


Cosa succederebbe se la minoranza ungherese in Romania rivendicasse con forza il diritto di autodeterminazione? Parliamo di un milione e mezzo di cittadini, quasi il 7% dell’intera popolazione romena, una lobby consistente ereditata dalle guerre di confine medievali e postmedievali tra cristiani e ottomani che videro protagonisti, tra gli altri, la Transilvania e un certo conte Dracula.

Durante la sua recente visita in Ungheria, il presidente romeno Traian Basescu si è messo di traverso a qualsiasi iniziativa politica per creare una regione autonoma per la minoranza ungherese. “Non ci sarà mai un’autonomia territoriale fin quando la Romania sarà uno stato unico e sovrano”, ha detto Basescu al cospetto del suo omologo ungherese Laszlo Solyom.

Una posizione motivata da vari punti di vista, quella di Basescu.
Anzitutto i cittadini romeni di lingua ungherese sono sparsi in varie parti del Paese e solo in alcune province centrali sono in maggioranza. Persino in Transilvania, regione storicamente amministrata da nobili ungheresi, la minoranza di lingua ungherese non supera il 20%.
In secondo luogo la concessione di un’autonomia territoriale creerebbe un precedente pericoloso per l’unità dello stato romeno che è un mosaico di etnie e popoli storicamente diversi, uniti nel tempo dalla necessità di combattere il nemico comune, l’Impero Ottomano.
Se si conta infine che per vari secoli i romeni di Transilvania sono stati solo una minoranza etnica dominata da nobili ungheresi, da quando la dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico gli ha dato le chiavi del potere essi non hanno alcuna volontà di mostrarsi particolarmente generosi con gli ex dominatori.
Per fare un paragone con l’Italia, pensiamo all’importanza storica della questione di Trento e Trieste e alla difficoltà con cui molti italiani guardano alla gente di Bolzano che parla tedesco.

Nel frattempo il problema in Romania esiste e non è di poca importanza. Durante la prima metà del novecento le iniziative politiche dall’una e dall’altra parte si sono succedute con regolarità, con la creazione di partiti indipendentisti, autonomie territoriali, dichiarazioni di indipendenza e di annessione, pulizie etniche e movimenti di popolazioni dolorosi come fu l’abbandono di Fiume da parte degli italiani. L’ascesa al potere del dittatore Ceausescu nel 1965 fece del nazionalismo una bandiera e mirò alla “romenizzazione” di tutti i cittadini. Gli insegnanti madrelingua ungheresi furono pian piano sostituiti e il ruolo storico degli ungheresi in Romania venne semplicemente cancellato, riscrivendo i libri di scuola in chiave esclusivamente romena. Fu questa generazione “romenizzata ” che gestì il crollo del muro di Berlino. In coincidenza con la svolta democratica avvennero scontri armati importanti tra gruppi delle due etnie in quello che viene ricordato come il “marzo nero” dagli ungheresi e che lasciò sul terreno centinaia tra morti e feriti. Fu nel 1990, non secoli fa.

Solo da dieci anni a questa parte la situazione della minoranza ungherese in Romania è decisamente migliorata, sia per il ruolo di governo assunto dal partito Udmr (Unione democratica degli ungheresi in Romania), sia per l’ingresso dei due Paesi nell’Ue, con conseguente libertà di movimento e di espressione dei cittadini. Resta una forte spinta alla creazione di un territorio autonomo nelle province centrali a maggioranza ungherese, che vanno sotto il nome di “Terra dei Siculi”, con un’università di lingua ungherese e diritti culturali precisi, sostenuti apertamente dal governo di Budapest. A questo si oppone il “no” deciso del presidente Basescu secondo cui la politica del governo romeno verso le consistenti minoranze etniche garantisce l’insegnamento della lingua e la rappresentanza politica ed è in linea con gli standard europei.

Bruno Picozzi



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giovedì 5 febbraio 2009

La catastrofe dello Zimbabwe


Le ultime notizie dallo Zimbabwe parlano di oltre 63mila casi accertati di colera, un’epidemia senza precedenti in questo sfortunato Paese dell’Africa meridionale una volta conosciuto come Rhodesia, 12 milioni di persone sparse su un territorio più vasto della Germania. Secondo l’ultimo rapporto dell’Onu l’epidemia, scoppiata in agosto, ha già fatto oltre 3mila vittime, diventando così il peggiore episodio di colera in Africa negli ultimi 15 anni.

Ma il vero problema è che la cronica mancanza di acqua potabile e la carenza di medicine non danno possibilità di fermare la diffusione della malattia, rendendo verosimile la previsione di conseguenze ben più disastrose. Un miglioramento della situazione nel breve periodo è tanto più improbabile vista l’indescrivibile crisi economica e politica in cui versa in Paese, con un parlamento bloccato da mesi in lotte di potere, scontri etnici diffusi, un tasso d’inflazione incalcolabile che fa raddoppiare i prezzi ogni 24 ore e una svalutazione recente della moneta di un bilione percentuale, cifre di fatto incomprensibili a commercialisti e massaie.
Ciò che invece è chiaro a tutti è la povertà enorme in cui versa la maggioranza della popolazione, soffocata da salari ridicoli pagati con una moneta di valore pari a zero e che comunque non viene più accettata nei negozi.

La grave epidemia di colera è semplicemente una conseguenza del collasso economico, essendo la diffusione della malattia strettamente legata alla scarsità di acqua potabile e di servizi igienici, indice di grande povertà nel Paese. La povertà, a sua volta, è frutto maligno di responsabilità precise, in particolare dell’incapacità dell’eroe dell’indipendenza nazionale, Robert Mugabe, al potere ininterrottamente da quasi trent’anni, di gestire il difficile passaggio dal ricco e ingiusto colonialismo britannico ad una millantata democrazia che puzza molto di dittatura. Mugabe ha gestito e gestisce il Paese su base etnica, escludendo la minoranza bianca e le etnie rivali dal potere. I provvedimenti di esproprio violento nei confronti dei latifondisti bianchi, attuati a partire dal decennio scorso, gli hanno guadagnato grande popolarità in alcune fasce della popolazione che hanno beneficiato delle ridistribuzioni della terra, ma hanno anche distrutto la fragile struttura economica che dava da vivere a molti milioni di persone.

Contemporaneamente il dialogo politico in questi anni è stato colpito in ogni modo, limitando ogni libertà ed ogni capacità di dissenso. Populismo e violenza sono stati i metodi di governo di Mugabe. Di fronte al crescere naturale del maggiore partito di opposizione guidato da Morgan Tsvangirai, persino lo stupro sistematico delle attiviste politiche è diventato arma di lotta per le milizie filogovernative. Niente di strano in Paese sull’orlo della guerra civile, dove il rispetto dei diritti umani non è mai stato considerato una priorità.

Ma le notizie che di tanto in tanto appaiono sui media internazionali parlano di lotte per la divisione del potere, di votazioni parlamentari, di appoggi e sanzioni internazionali, un gioco politico complesso per poter essere compreso da coloro che a stento sanno dove si trova lo Zimbabwe. Allo stato attuale Mugabe è presidente, Tsvangirai è primo ministro, ma un governo di unità nazionale ancora non vede la luce.

I risultati di tanta incapacità sono sotto gli occhi di tutti. La moneta nazionale non ha più valore, metà della popolazione è alla fame, l’Aids è una macchia d’olio in continua espansione e l’aspettativa di vita è scesa dai 62 anni calcolati nel 1990 ai 36 anni del 2006. 3 milioni di persone sono già scappati oltre confine in cerca di una speranza. L’epidemia di colera, definita “fuori controllo” dall’Oms, è solo l’ultima mazzata su un popolo che vive guardando ad un futuro migliore, che malauguratamente appare molto lontano da venire.

Bruno Picozzi



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