mercoledì 29 aprile 2009

Centro Asia, un vuoto vertice sulla crisi idrica


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 95/2009 di Terra

Si sono incontrati ieri 28 aprile ad Almaty i presidenti di Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan. Un incontro al vertice per affrontare insieme le tante problematiche specifiche della regione centroasiatica, dalla sicurezza energetica alla cooperazione con gli Stati uniti d’America, i cui cargo con gli approvvigionamenti destinati alle truppe combattenti in Afghanistan usano attraversare gli spazi aerei e terrestri della zona.

In cima all’agenda la spartizione delle scarse risorse idriche regionali, punto chiave delle relazioni diplomatiche tra i cinque stati ex sovietici. Relazioni non idilliache, vista la rarità degli incontri sia bilaterali che multilaterali, a dispetto della prossimità geografica e della quantità di interessi convergenti.

L’acqua è comunque il primo e più importante elemento di contenzioso, essendo tutta la regione stepposa a nord dell’Afghanistan una tra le più aride del mondo. Durante l’era sovietica un accordo regolava gli scambi di risorse, acqua ed energia tra i cinque stati, ma il vecchio sistema non è più in atto. I vari corsi d’acqua nascono dalle montagne che coprono gran parte di Tagikistan e Kirghizistan. Lì vengono incanalati e sbarrati per produrre energia, necessaria per combattere gli inverni freddissimi della zona, e per costituire una risorsa continua a beneficio delle popolazioni a monte. I due stati posseggono in questo modo l’80 per cento delle risorse idriche di tutta l’area.
A valle giacciono invece Kazakistan e Turkmenistan che, pur affacciandosi sul Mar Caspio, hanno territori troppo vasti per poter contare su quest’unica fonte di approvvigionamento. L’Uzbekistan è invece completamente privo di sbocchi e può dissetarsi solo grazie ai pochi fiumi che lo attraversano.

L’incontro dei cinque presidenti ha fatto nascere grandi aspettative, anche se tutti sono consapevoli che sul tavolo non vi sono problemi risolvibili in poco tempo. «La mancanza di acqua, risorsa che in futuro potrebbe essere più richiesta del petrolio e del gas naturale, è già diventata una realtà in molte province interne del continente eurasiatico», affermava lo scorso 23 aprile una nota della Ong canadese Global research.

Un primo vertice già ebbe luogo nel 1994, quando i cinque stati si impegnarono a destinare l’1 per cento del Pil alla salvaguardia del mitico lago d’Aral. Stretto tra Kazakistan e Uzbekistan, una cinquantina di anni fa questo era il quarto bacino al mondo e lo si considerava una inesauribile risorsa di acqua nel centro dell’Asia. Ma dal 1960 in poi ha visto il suo volume ridursi fino al 70 per cento e più della quantità originaria a causa dei prelievi massicci per l’irrigazione delle immense monocolture di cotone, fiore all’occhiello dell’economia tardosovietica. Da qui giungono le enormi quantità di materia grezza che vengono poi lavorate in Cina e trasformate nei tessuti che vestono a basso costo tutti noi occidentali e i popoli di mezzo mondo.

Oggi l’interminabile bacino idrico di Aral è solo un ricordo. Al suo posto vi sono tre laghi di dimensioni decisamente inferiori, quasi privi di flora e di fauna a causa dell’altissima concentrazione salina e dello straordinario inquinamento dovuto alle attività industriali, militari e agricole. Una catastrofe ambientale cui il governo del Kazakistan sta cercando di porre rimedio quanto possibile alimentando il Piccolo Aral, il più settentrionale dei tre bacini superstiti, per diminuirne la salità.

Il più povero e popoloso Uzbekistan si consola invece con il titolo di massimo esportatore di cotone al mondo, ma è ovviamente una vittoria di Pirro. Le comunità che una volta prosperavano sulle coste del lago, grazie alla pesca e alla fertilità del terreno, oggi muoiono di strane incurabili malattie, e l’approvvigionamento idrico del Paese è affidato agli accordi internazionali. Se ad esempio il Kirghizistan non rinuncerà ai già progettati sbarramenti idroelettrici a monte dei corsi d’acqua, l’Uzbekistan a valle si troverà in balia delle regolazioni di flusso idrico gestite dallo stato confinante.

Ecco perché il vertice nella metropoli kazaka di Almaty ha in gioco la stabilità geopolitica della regione, e di questo i leaders sono perfettamente consapevoli. Essi guidano democrazie non abbastanza consolidate da poter reagire pacificamente ad una crisi idrica e inoltre condividono la presenza di forti minoranze etniche, 15 per cento di Uzbeki in Kirghizistan, 5 per cento di Tagiki in Uzbekistan e via dicendo. E una gran quantità di russi dappertutto, generalmente la classe media.

La Russia da sempre guarda ai cinque stati in questione come parte della sua sfera di influenza. Mosca quindi ha grande interesse a giocare un ruolo in questi vertici regionali, che siano incentrati su gas e petrolio, sui tracciati degli oleodotti o anche sull’acqua. Il fatto che nessun rappresentante russo sia stato invitato all’incontro di Almaty è quindi un segno evidente che gli equilibri politici stanno cambiando, anche se al momento nessuno sa verso quale direzione.

Bruno Picozzi



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venerdì 17 aprile 2009

Il pantano del Kenya


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 85/2009 di Terra

«Non riportateci in guerra», titolava qualche giorno fa il Daily Nation, maggior quotidiano del Kenya, lanciando l’allarme sulla profonda crisi politica che attraversa quella che è stata a lungo una delle nazioni più prospere e stabili dell’Africa. Il presidente Kibaki mostra ottimismo ma la “grande coalizione” tra i due maggiori partiti è in crisi e si teme una nuova escalation di violenza come nel dicembre 2007, quando scontri a sfondo etnico e gravi distruzioni di proprietà causarono circa 1500 morti e 250mila profughi.

Il confronto politico in Kenya si specchia nei nodi irrisolti circa la distribuzione delle terre, sgradita eredità della storia coloniale. Parliamo di un Paese immenso abitato da 36 milioni di persone divise in oltre 40 gruppi etnici, che per lunghe generazioni furono costretti a convivere sotto il comune tetto dell’amministrazione britannica.
I kikuyu sono in maggioranza, 22% della popolazione, e grazie agli stretti legami coi colonizzatori europei all’atto dell’indipendenza poterono appropriarsi delle terre migliori. I celebri masai sono pastori e contano solo per l’1%. I kalenjin sono il 12% e hanno governato il Paese fino alla svolta democratica del 2002. I kamba furono il nerbo dell’esercito coloniale. I luo furono impiegati massicciamente come servitù dai padroni bianchi. Relegate ognuna in un suo ruolo dagli inglesi, le varie etnie necessitarono tempo per acquistare un’identità politica nel presidenzialismo forte, monolitico e monopartitico, che seguì l’indipendenza.

La transizione al pluralismo democratico agli inizi degli anni Novanta consentì ai politici locali di pescare consenso nei profondi rancori interetnici, portando a scontri e violenze già nelle elezioni del 1992 quando candidati di etnia kalenjin specularono sul recupero delle terre perdute. Bande di “guerrieri kalenjin” andarono in giro a bruciare case e sloggiare i kikuyu, causando migliaia di morti. Scene ripetute nel 97 e nel 2002, quando Mwai Kibaki divenne per la prima volta presidente.

Kibaki si distinse durante il primo mandato per la divisione del potere tra politici provenienti da ogni regione del Kenya e raggiunse obiettivi importanti quali la gratuità dell’educazione primaria. Ma allo stesso tempo non prese provvedimenti adeguati contro la povertà diffusa né mostrò sufficiente volontà politica di combattere la corruzione dilagante, vera piaga del Paese. Nel 2007 si tennero insieme le elezioni parlamentari e presidenziali. Kibaki corse per un secondo mandato a capo della coalizione Party of National Unity, Pnu. Di contro l’Orange democratic movement, Odm, candidò Raila Odinga, figlio d’arte ed ex ministro, che in parlamento vinse un’ampia maggioranza relativa di 102 seggi contro 78 della coalizione di Kibaki e 27 di altri partiti minori. Kibaki fu invece straordinariamente dichiarato vincitore alle presidenziali con un margine di appena 232mila voti.
Gli osservatori denunciarono il mancato rispetto degli standard elettorali internazionali in favore del presidente uscente Kibaki. Una commissione indipendente in seguito appurò episodi di voto di scambio, intimidazioni degli elettori, brogli in sede di conteggio e un’evidente incompetenza da parte della commissione elettorale.

Dalla guerra politica tra Odinga e Kibaki nacquero le violenze che devastarono il Paese. Un gruppo di mediazione guidato dall’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan, sostenuto dai massimi attori sulla scena internazionale, portò all’inizio della primavera 2008 alla formazione della Grande coalizione, un accordo di condivisione dei poteri tra Kibaki, presidente, e Odinga, primo ministro, con un governo di 41 ministri appartenenti a Pnu e Odm in proporzione alla loro forza parlamentare.

Questa la storia, fino allo scontro su una questione di nomine e alle dimissioni il 4 aprile scorso del ministro della giustizia Martha Karua, personaggio emergente e alleato fondamentale di Kibaki. Il presidente, indebolito, viene ora attaccato da tutti i lati, l’Odm boicotta i lavori del governo e corrono voci insistenti sul riarmo delle milizie che, al soldo di politici locali, furono responsabili delle atrocità che nel 2007 sconvolsero la Rift Valley.

«Il Kenya è a un punto di svolta», ha dichiarato Kofi Annan a Ginevra, quando né Odinga né Kibaki si sono presentati a un colloquio di mediazione. «Non c’è disaccordo su cosa si debba fare», ha aggiunto Annan, parlando di riforma della costituzione e di ridistribuzione della terra, lotta alla povertà, alle disuguaglianze di reddito, alla disoccupazione giovanile e alla corruzione. E dicendo che i veri problemi del Paese sono la politicizzazione delle etnie e l’abuso di potere derivante dall’impunità.

Ma sembra chiaro che in parlamento la Grande coalizione non è vista come uno strumento di cambiamento al servizio della gente bensì come un fine politico in sé stessa, e in queste condizioni ci si chiede come sarà possibile evitare che il Kenya ripiombi nella spirale di morte e distruzione che oggi nessuno auspica ma che tutti temono.

Bruno Picozzi



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mercoledì 15 aprile 2009

Tigri tamil pronte alla tregua con il governo


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 83/2009 di Terra

L'esercito di liberazione delle Tigri tamil, è pronto a un «incondizionato e permanente cessate il fuoco». Nel comunicato emanato ieri l’Ltte, il Liberation tigers of tamil ealam, da anni in lotta contro le autorità di Colombo, denuncia che, nonostante la tregua di due giorni imposta dal presidente Mahinda Rajapakse, l’esercito ha continuato a bombardare postazioni tamil e a colpire civili e villaggi. Le Tigri chiedono dunque un cessate il fuoco e ettivo, che possa portare a reali negoziati di pace e che consenta agli aiuti umanitari di raggiungere le zone di guerra.

in coincidenza con le celebrazioni del nuovo anno singalese avrebbero dovuto permettere la fuga alle decine di migliaia di civili intrappolati in un fazzoletto di foresta sulla costa nord del Paese con quel che resta del Liberation Tigers of Tamil Ealam, Ltte. Purtroppo solo in pochi sono riusciti a lasciare la zona di pericolo, trovando finalmente acqua, cibo e medicine presso le strutture umanitarie.

Sembra confermato che i combattenti tamil bloccano l’esodo dei civili e arruolano a forza i bambini, voci ripetutamente smentite dal Ltte che accusa invece l’esercito di sparare sui villaggi bersagliando i civili. In realtà la sensazione è che, nonostante le smentite reciproche, stia avvenendo di tutto e senza riguardo per nessuno. Nel 2005, in campagna elettorale, Rajapakse aveva promesso la fine delle tigri tamil e negli ultimi due anni le truppe governative hanno effettivamente riconquistato gran parte dei territori controllati dal Ltte. Da novembre scorso, con una rapida avanzata costata migliaia di morti, l’esercito ha circondato i ribelli e tagliato loro i rifornimenti via terra e via mare. I separatisti adesso sono decisamente messi all’angolo, caduti a centinaia nelle ultime settimane, e il presidente ha ordinato la resa incondizionata ai gruppi superstiti per evitare l’attacco finale.

Ma negli anni le tigri hanno dato prova di inaspettata vitalità essendo una forza disciplinata, organizzata e bene armata, grazie ai cospicui finanziamenti che arrivano dall’enorme comunità tamil sparsa nel mondo. Risale all’ottobre scorso l’ultimo attacco aereo sulla capitale Colombo. E pur essendo rimasti in poche migliaia, i combattenti potrebbero spargersi nelle foreste o fuggire in India e ricompattarsi col tempo. Alcuni analisti li considerano persino in grado di aprire un secondo fronte nel sud del Paese, anche se l’obiettivo unico della lotta rimane la creazione di uno stato indipendente nelle zone a maggioranza tamil nel nordest dell’isola. Dopo ventisei anni di guerra, 70mila morti e un milione di sfollati, non è ancora detta l’ultima parola.

Lo Sri Lanka è un paese multi-etnico grande quanto Sicilia, Sardegna e Corsica messe insieme, con una popolazione di 18 milioni di persone. Singalesi e tamil parlano lingue diverse e hanno culture diverse; diversi sono abitudini, stili di vita e attività economiche; i primi sono in prevalenza buddisti mentre i secondi sono per la maggior parte indù o cattolici. Due popoli diversi che vivono nella stessa isola.

Per qualche ragione i colonizzatori inglesi privilegiarono i tamil per i quadri amministrativi, ragione per la quale al momento dell’indipendenza, nel 1948, scoppiò il risentimento dei singalesi che occuparono tutta l’organizzazione dello stato, emarginando e discriminando l’etnia avversaria. In teoria le due comunità hanno oggi uguali diritti e doveri, fino al punto che la lingua tamil è lingua ufficiale dello stato, sebbene parlata solo da un quarto della popolazione. Essa viene usata per l’insegnamento, per la giustizia e per tutti i documenti ufficiali. Eppure vi è per i tamil un grave problema di accesso al lavoro e all'istruzione, una mancanza di partecipazione politica e di presenza a livello decisionale. Che sia il risultato di un progetto politico o meno, in Sri Lanka tutti sono uguali ma i tamil arrivano sempre secondi. Da questa esclusione nasce la guerra che da decenni insanguina l’isola.

Il clero cattolico locale di recente ha inviato una lettera al Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, chiedendo di fermare «gli indiscriminati bombardamenti su insediamenti civili» che «non risparmiano nemmeno scuole, ospedali, luoghi di culto e altri obiettivi civili». Nella lettera viene espressa la seguente motivazione: «Alla radice di questa guerra vi è la strutturale ingiustizia e la veemente negazione dell'uguaglianza e della dignità della popolazione tamil dello Sri Lanka, perpetrate per decenni dai governi che si sono succeduti in Sri Lanka guidati dalla maggioranza singalese».

Sostegno alla causa tamil è venuto da manifestazioni in tutto il mondo. La settimana scorsa oltre 100mila dimostranti hanno protestato a Londra davanti Westminster causando scontri con la polizia e arresti. Manifestanti tamil hanno anche fatto irruzione nell’ambasciata dello Sri Lanka a Oslo, in Norvegia, causando seri danni.
Il governo singalese ha quindi chiesto alla Norvegia di abbandonare il quartetto di mediazione che comprende anche Usa, Regno Unito e Giappone. Una mossa volta a indebolire ulteriormente i canali diplomatici del Ltte, già considerato un’organizzazione terrorista in Usa, India e Europa.

Ora tutti guardano con preoccupazione alla fine della tregua, quando migliaia di civili si troveranno tra due fuochi. L’unica cosa certa al momento è che le tigri non hanno nessuna intenzione di deporre le armi.

Bruno Picozzi



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venerdì 10 aprile 2009

Il Mend non firma il rapimento dell'Italiano


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 80/2009 di Terra

Rapito in Nigeria a scopo di riscatto l’ingegnere Giuseppe Canova, al lavoro da anni nel Paese africano presso un’azienda italiana. La notizia nella notizia è che i responsabili sono banditi comuni e non i guerriglieri del Mend, Movimento per l’emancipazione del delta del Niger, che fino ad oggi non hanno mai rapito lavoratori stranieri a scopo di lucro ma per fare pressione sulle multinazionali del petrolio, con le quali l’ingener Canova non ha nulla a che fare.

Il Mend chiede per le comunità locali che vivono in estrema povertà e senza servizi di base una maggiore partecipazione agli enormi guadagni derivanti dall’estrazione del petrolio. Le comunità dovrebbero anche ricevere forme di compensazione per il grave inquinamento che ne ha distrutto il territorio azzerando le fonti tradizionali di sostentamento basate su agricoltura e pesca. Il Mend chiede inoltre la smilitarizzazione del territorio per mettere fine ai continui abusi sulle popolazioni locali da parte di militari e paramilitari agli ordini delle multinazionali e il rilascio dei prigionieri politici. Il tutto dovrebbe realizzarsi in un accordo di pace omnicomprensivo sotto la supervisione di mediatori internazionali.

A fronte di queste richieste il presidente nigeriano Yar’Adua ha offerto solo amnistia e riabilitazione a tutti quei gruppi che rinunceranno alla lotta armata, certo con l’intenzione di indebolire le fila dei ribelli offrendo una scappatoia alle frange più moderate o ai singoli militanti che sperano di rifarsi una vita magari nei ranghi della polizia governativa.

Ma la forza e gli obiettivi dei gruppi armati rappresentano un grande pericolo per il governo. Gli attacchi alle installazioni petrolifere e i rapimenti di lavoratori stranieri hanno infatti causato negli ultimi tre anni la riduzione del 25% delle esportazioni nigeriane di greggio, un colpo devastante all’economia del Paese. I giganti del petrolio sono in difficoltà a causa della guerriglia e, nonostante il supporto concreto dei governi del G8, Shell, Exxon e Chevron hanno dovuto allontanare dalla regione la maggior parte del personale straniero. Anche l’italiana Eni non se la passa bene.

Si aggiungano i guai con la giustizia internazionale che, sotto pressione delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, si interessa da tempo di quel che succede nella regione. Un processo si è già aperto negli Usa contro la Shell per l’uccisione di nove attivisti del popolo Ogoni, avvenuta nel 1995. Un’altra inchiesta riguarda l’Eni per la corruzione di funzionari pubblici e burocrati nigeriani al fine di garantirsi la costruzione di una serie di impianti di estrazione e trasporto di gas liquefatto. Le indagini toccano addirittura l’ex vicepresidente Usa Dick Cheney, all’epoca dei fatti manager del colosso petrolifero Halliburton.

Bruno Picozzi



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mercoledì 8 aprile 2009

Fratelli nella fede fino a prova contraria


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 78/2009 di Terra

Il primo scisma divise sciiti e sunniti sulla successione alla guida dell’impero dopo la morte di Maometto. Altri scismi minori seguirono creando divisioni dottrinali e guerre

Il Corano, secondo la tradizione, fu rivelato al profeta Maometto dall’arcangelo Gabriele tra il 610 e il 632 d.C. ma non fu Maometto a metterlo per iscritto bensì i suoi compagni, e solo vent’anni dopo la morte del profeta esso fu compilato nella sua versione definitiva. Il Corano è unico e immutabile, ultima e perfetta parola di Dio agli uomini. Esso è anche fonte primaria del diritto e dell’organizzazione dello stato, poiché nessuna legge è superiore alla legge divina. Per questo gli integralisti identificano la legge islamica, la sharia, con lo stato di diritto.

Tuttavia il Corano, fin da principio, non poté soddisfare i molteplici aspetti del quotidiano. Vennero quindi trascritti tra l’ottavo e il nono secolo gli hadith o “narrazioni” sulla vita di Maometto, che contribuiscono largamente alla giurisprudenza islamica e indicano la sunnah, il “modo di vivere” del profeta, la retta via da seguire per conquistare il paradiso. Il Corano e gli hadith vengono mandati a memoria dagli studenti delle scuole coraniche, i talebani. Ma poiché Allah parla direttamente ai suoi figli, l’Islam non riconosce un vero e proprio clero e ognuno è sacerdote di sé stesso. Ne consegue che il mondo musulmano è tutt’altro che granitico.

I musulmani sono al 75% sunniti, seguaci di quattro antiche scuole di insegnamento della sunnah. Tra questi spiccano i conservatori salafiti, che predicano il ritorno alla purezza originaria del Corano scevro di ogni modernismo, e i wahabiti, integralisti sauditi che perseguono un’interpretazione letterale delle scritture. All’opposto si colloca il sufismo moderato che privilegia un’interpretazione delle scritture moralmente rigorosa ma personale. Gli sciiti, letteralmente “seguaci di Alì”, sono il 15% dei musulmani. Essi non interpretano il Corano in senso letterale né prestano fede agli hadith della tradizione sunnita, dando vita a una diversa giurisprudenza. L’unico governo sciita è la teocrazia iraniana ma sciiti sono anche gli hezbollah libanesi e la maggioranza degli iracheni. Su una diversa collezione di hadith si basa la giurisprudenza degli ibaditi, maggioritari in Oman. Politicamente parlando, lo scisma tra sciiti e sunniti avvenne alla morte di Maometto: gli sciiti scelsero come successore Alì, primo imam, perché parente di sangue del profeta; i sunniti scelsero Abu Bakr, primo califfo, perché massima autorità morale della comunità.

Da questo e da altri scismi minori derivano gran parte delle guerre che da sempre dividono nel sangue i musulmani. La Lega araba avrebbe dovuto unire le varie anime dell’Islam ma ha fallito miseramente nella sua missione. E mentre noi continuiamo a confondere gli uni con gli altri e a fare di tutt’erba un fascio, alcune nazioni islamiche si avvicinano sempre più all’Europa aprendo progressivamente le porte alla laicità.

Bruno Picozzi



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giovedì 2 aprile 2009

La riforma mancata in Kirghizistan


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 72/2009 di Terra

Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in Kirghizistan contro il governo del presidente Kurmanbek Bakiyev, accusato di corruzione e di non aver mantenuto le promesse elettorali in tema di modernizzazione dell’economia. Il Paese infatti, abitato prevalentemente da contadini e pastori musulmani, si dibatte ancora dietro uno spesso velo di tradizione e arretratezza a ormai quasi vent’anni dall’indipendenza.

Eppure col crollo dell’Unione sovietica i vertici politici avevano imboccato strade inaspettatamente assennate, prima fra tutte quella di mantenere il russo come lingua ufficiale accanto al chirghiso, per evitare col bilinguismo la perdita della classe media composta prevalentemente di russofoni. Il Kirghizistan è stato il primo stato ex sovietico a liberare la banca centrale dal controllo della politica, separando di fatto i meccanismi economici dalle incapacità della nomenklatura. Lo sviluppo delle fonti idroelettriche e lo sfruttamento delle risorse minerarie ha creato crescita economica e lavoro, pur sollevando numerose questioni ambientali.

Ma il vero nodo rimane l’applicazione della riforma agraria. Il Kirghizistan si è posto all’avanguardia in Asia quando oltre 70mila contadini impiegati nelle mastodontiche cooperative statali sono potuti diventare proprietari delle terre che già coltivavano grazie alle riforme approvate subito dopo l’indipendenza. L’iniziativa ha creato grandi aspettative visto che l’agricoltura è fonte dei due terzi del PIL nazionale e dà lavoro a metà della popolazione.

Tantissimi infatti, in seguito alla dissoluzione dell’ex Urss, hanno perso il lavoro e sono dovuti tornare alla terra per sopravvivere, imparando con difficoltà a muoversi nel libero mercato. Alcuni sono riusciti ad unirsi in piccole cooperative artigiane e avviare imprese poco più che familiari, diventando il vero motore di uno sviluppo economico lento ma sano.

Eppure il codice e la realtà ancora oggi non si incontrano poiché i contadini fanno fatica a comprendere i testi giuridici e sono quindi facile preda degli abusi di un sistema corrotto. Anche per questo continuano a vivere in grande maggioranza sotto la soglia di povertà. Come conseguenza tensioni e scontri per la proprietà delle poche terre coltivabili non sono rari e rischiano di tradursi in conflitti estesi, anche interetnici. Alcuni rimpiangono il vecchio sistema sovietico durante il quale c’era povertà ma i diritti di base erano garantiti.

L’applicazione in pieno della riforma agraria sarà la questione su cui si giocherà in futuro la capacità di sviluppo del Paese, e il governo di Bakiyev sta fallendo proprio su questo. Ma alle accuse dell’opposizione esso risponde con l’arresto dei leader delle proteste. Così, mentre le elezioni presidenziali del prossimo 23 luglio si annunciano difficili dal punto di vista democratico, la campagna elettorale si surriscalda grazie alle proteste di piazza ed è probabile che vedremo sventolare a lungo nelle strade le bandiere rossoverdi dell’opposizione.

Bruno Picozzi



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