martedì 28 luglio 2009

Scontri tra fondamentalisti e polizia in Nigeria


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 171/2009 di Terra

La città di Bauchi, capitale dell’omonimo Stato settentrionale della federazione nigeriana, è stata teatro domenica mattina di scontri gravissimi tra fondamentalisti religiosi e forze dell’ordine. Gli scontri sono cominciati dopo che una sessantina di islamisti appartenenti alla setta Boko Haram, armati di fucili e bombe a mano, hanno assaltato una stazione di polizia e hanno cacciato gli agenti, distruggendo tutto all’interno dell’edificio. La polizia, per rappresaglia, ha poi fatto irruzione in forze nei quartieri di provenienza dei fondamentalisti, sequestrando armi e uniformi e arrestando centinaia di persone.

Non vi è un bilancio ufficiale delle vittime ma dalle testimonianze sembra che vi siano oltre 50 morti e varie decine di feriti. Il comando di polizia ha rifiutato per il momento di confermare qualsiasi cifra. Altri attacchi contro stazioni di polizia sono avvenuti la notte seguente in altri due Stati nordorientali, causando la morte di un pompiere.

La setta Boko Haram è un gruppo militante che si batte contro la propagazione della cultura occidentale. Essa è guidata da Ustaz Mohammed Yusuf, un religioso che vive in una città all’estremo Nord-Est del Paese, quasi ai confini col Ciad. Boko Haram significa letteralmente "l'istruzione è il peccato", con riferimento alla corruzione dei valori islamici attribuita alla scuola laica di stampo occidentale. I suoi membri sono in prevalenza studenti che hanno abbandonato l’università. «La democrazia e l'attuale sistema di istruzione devono essere cambiati altrimenti questa guerra, che è appena all’inizio, continuerà a lungo», ha dichiarato Ustaz Mohammed Yusuf in un’intervista al quotidiano locale Daily Trust.

Secondo il quotidiano, i membri della setta Boko Haram programmavano da tempo una manifestazione a Bauchi per protestare contro l’atteggiamento del governo che impedisce loro di professare la loro interpretazione rigida dell’islam e fare proselitismo tra la popolazione. Il governo, dal canto suo, teme che il propagarsi delle loro idee possa causare una nuova crisi religiosa. L’insegnamento di Yusuf viene infatti considerato in disaccordo con quanto professato da altri gruppi islamici e minerebbe la coesistenza pacifica tra interpretazioni differenti.
L’obiettivo politico della setta è l’imposizione della sharia islamica in tutti i 36 Stati della federazione nigeriana, sebbene in buona parte di essi venga praticato il cristianesimo mescolato a forme radicate di animismo.

Più di 200 gruppi etnici vivono fianco a fianco, di solito pacificamente, in questo che è il più popoloso Stato dell'Africa occidentale. Il Nord è abitato da tribù islamiche ancora preda di una mentalità semifeudale, ereditata dal passato precoloniale. Il Sud è prevalentemente cristiano e animista, ma anche più debole politicamente. La ricchezza del Paese è il petrolio, i cui giacimenti si trovano nel meridione, in quella zona che, tra il 1967 e il 1970, tentò la secessione col nome di Biafra, attraverso una guerra che causò la morte di oltre un milione di persone. Da allora in poi ci sono stati segni di inquietudine religiosa nel Paese.

Nel 2000 il governo centrale ha accettato di concedere un’applicazione più rigida della sharia islamica in 12 Stati settentrionali, tra i quali Bauchi, Yobe e Borno. Una decisione che ha visto una ferma opposizione da parte delle minoranze cristiane e ha scatenato attacchi di violenza settaria in varie zone del Paese.

L’estremismo islamico ha fatto il suo debutto nel 2004, quando da una base nello Stato dello Yobe, al confine con il Niger, i militanti hanno attaccato avamposti di polizia uccidendo alcuni funzionari. Più di 700 persone sono morte nel novembre scorso a Jos, capitale dello Stato centrale del Plateau, quando una contestazione sulle elezioni locali è degenerata in sanguinosi scontri tra comunità cristiane e musulmane. A febbraio, ulteriori scontri tra le due comunità nello Stato del Bauchi hanno portato alla morte di 11 persone.

Il Governatore del Bauchi, Mallam Isa Yuguda, ha descritto i membri della setta come fondamentalisti militanti, sollecitando i nigeriani a considerare questa come una questione nazionale. Egli ha invitato tutti i governatori del Paese a raccogliere la sfida e schiacciare ovunque la diffusione del fondamentalismo.

Secondo la polizia, la situazione in città è tornata adesso alla normalità e la gente è impegnata nelle sue attività quotidiane. Ciononostante il governo ha annunciato ieri l'imposizione di un coprifuoco dalle 9 di sera alle 6 del mattino e ha mobilitato un maggior numero di poliziotti in zona per mantenere l'ordine. Altre misure di sicurezza sono state prese per evitare la diffusione della crisi negli Stati adiacenti, compreso il dispiegamento di blindati in assetto di guerra per le strade di alcune città.

Bruno Picozzi



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martedì 21 luglio 2009

Un continente ancora in lotta per l'indipendenza


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 165/2009 di Terra

Nel suo discorso per il bicentenario della “rivoluzione di luglio 1809”, primo passo verso l’indipendenza del Sudamerica, il presidente Morales ha affermato la necessità per tutto il continente di rigettare l’influenza militare statunitense. Alle parole di Morales hanno fatto eco gli altri capi di Stato sudamericani presenti. Secondo l’ecuadoriano Rafael Correa «i popoli dell’America latina lottano affratellati per la seconda e definitiva indipendenza». Il venezuelano Hugo Chávez ha parlato di battaglia in corso contro le minacce degli imperi. Il paraguayano Fernando Lugo ha auspicato che i popoli sudamericani «diano vita all’unità, all’integrazione, all’equità e all’uguaglianza necessari per un’esistenza veramente indipendente».
Parole pesanti, pronunciate alla presenza del vicepresidente del Consiglio dei ministri cubano Jorge Luis Guerra e del rappresentante del deposto presidente honduregno Manuel Zelaya.

È una vera e propria rivoluzione copernicana che sembra farsi largo nel Sudamerica, una volta giardino di casa degli Usa e preda di dittature destrorse bellamente finanziate dalla Cia, oggi gigantesco laboratorio sociale gestito da presidenti socialisti e socialdemocratici che, grazie a leggi sinceramente progressiste, cercano di dare pari dignità sia ai discendenti dei conquistadores, oggi latifondisti e depositari del potere economico, che a quelli delle popolazioni autoctone, gli indigeni, oggi come ieri ultimi degli ultimi.

In questa lotta la Bolivia è sicuramente in prima fila, grazie all’approvazione con larga maggioranza, lo scorso gennaio, della nuova costituzione voluta da Evo Morales, primo presidente indigeno del Paese. Un passo importantissimo verso il riconoscimento dei diritti dei nativi, nonostante la forte opposizione delle regioni ricche dell’Est, dove vivono i latifondisti e i boliviani con origini europee.
La società boliviana, come tutta l’America latina, è anch’essa figlia di quei secoli bui di conquista europea attuata in nome di Dio e dell’oro, che ha lasciato a tutto il continente due eredità: un’oligarchia terriera composta dalle famiglie che ebbero antenati potenti, per lo più bianchi, e la grande povertà degli indigeni che, privati delle terre e della cultura, hanno potuto solo essere schiavi del potere.

Fu in Bolivia che visse l’ultima parte della sua avventura Che Guevara, ucciso a Santa Cruz dopo la cattura. Protetto dalla dittatura boliviana visse libero il boia di Lione, Klaus Barbie, scampato al processo di Norimberga e diventato poi agente al servizio degli Usa.
In Bolivia avvenne nel 2000 la rivolta di Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, paradigma di tutti i movimenti popolari di resistenza contro l’occupazione del territorio da parte delle lobbies industriali e finanziarie.
Fu la Bolivia il teatro della “guerra del gas”, una violenta insurrezione popolare nel 2003 contro l’allora presidente Sánchez de Lozada che fu domata a colpi di fucile. Decine di manifestanti furono uccisi e il presidente fu costretto all’esilio volontario negli Stati Uniti. Da allora prese il potere Evo Morales, leader sindacale dei produttori di coca, grande oppositore della politica regionale degli Usa.

La nuova costituzione approvata a larga maggioranza dalla popolazione boliviana è un macigno lanciato nel futuro del Paese per distruggere schemi antichi e ridistribuire ricchezze e potere tra la popolazione. Essa concede autonomia ai popoli indigeni e concentra nelle mani dello stato il controllo dell’economia. A trentasei gruppi indigeni viene riconosciuto il diritto di proprietà sui territori ancestrali e sulle loro immense risorse e il diritto di far uso delle proprie leggi tradizionali e delle proprie lingue madri. Una rivoluzione indigenista, quindi, ma anche un grosso colpo alle oligarchie terriere: gli immensi latifondi del Paese saranno limitati a proprietà di non oltre 5mila ettari.

Contrari alla nuova costituzione tutte le destre e i gruppi del potere economico, le regioni ricche di gas e petrolio della cosiddetta mezzaluna orientale, che saranno costrette a dividere i ricchi proventi delle esportazioni con le regioni agricole a maggiore presenza indigena. Contrari anche i papaveri del clero, impauriti dalla proclamata laicità dello stato che potrebbe, in ultima analisi, aprire la Bolivia ai temuti diritti degli abortisti e dei gay. Meglio morti di fame ma timorati di Dio, questa sarebbe la posizione dei vescovi.

Sono questi gli stessi settori conservatori che, in tutta la società sudamericana, hanno sempre visto di buon occhio l’intervento neocolonialista degli Usa nella politica e nell’economia del continente. Ma il vento nuovo che soffia da sinistra ha spinto Morales ad affermare che «chiunque ospiti una base militare nordamericana in qualsiasi Paese è un traditore della patria». Con buona pace di Álvaro Uribe che conta di aprirne ben tre nella sua Colombia, in sostituzione di quella chiusa proprio venerdì scorso a Manta, in Ecuador, per volontà del presidente Correa.

Bruno Picozzi



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martedì 14 luglio 2009




Questo blog aderisce allo sciopero contro il decreto “ammazza Internet” del ministro Alfano.


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sabato 11 luglio 2009

L’Indonesia in mano ai soliti noti


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 157/2009 di Terra

Sembra ormai fatta per Susilo Bambang Yudhoyono, presidente indonesiano uscente che, secondo le ultime proiezioni, sarebbe stato confermato già al primo turno delle elezioni presidenziali tenutesi mercoledì scorso con oltre il 60 per cento dei consensi.Alle sue spalle, con il 27 per cento, l’anziana presidentessa già sconfitta nel 2004, Megawati Sukarnoputri, figlia dell’eroe dell’indipendenza Sukarno. Invece il vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, si è fermato al 13 per cento. Quasi una competizione fatta in casa, quindi, tra vecchi compagni e avversari che nulla lasciano alla novità e al cambiamento.

Piuttosto strano per una nazione che conta quasi 240 milioni di abitanti, quarto Paese più popoloso al mondo, terza democrazia e prima nazione per numero di musulmani. Con i suoi 300 e passa gruppi etnici, le 742 lingue parlate e le sei religioni riconosciute, il tutto sparso per 17.508 isole grandi e piccole, l’Indonesia dovrebbe essere uno Stato dinamico, vitale, sempre adagiato sull’orlo del rinnovamento. Invece i personaggi al potere sono oggi gli stessi di ieri e, probabilmente, gli stessi di domani.
Nelle sue prime dichiarazioni Yudhoyono ha promesso di abbracciare l’onda riformista che attraversa il mondo intero per dare impulso all’economia e scacciare i fantasmi della crisi. Con l’aiuto di Allah onnipotente, sia ben chiaro.

Solo dieci anni fa l’Indonesia era etichettata come “il malato dell’Asia”, sempre sul filo del fallimento dal punto di vista sociale, economico e soprattutto politico. Il trentennio del feroce dittatore anticomunista Suharto, benvoluto dalla Cia e dalle potenze occidentali, aveva lasciato un livello impressionante di corruzione e nepotismo, oltre che un milione di morti e un numero incredibile di conflitti armati: Aceh, Timor Est, Sulawesi, Molucche, West Papua, oltre a una quantità di rivendicazioni da parte di popolazioni indigene.

La discutibile democrazia giunta a furor di popolo in sostituzione della dittatura ha fatto meglio, ma non bene. La concessione della libertà d’espressione ha aperto sicuramente scenari nuovi tra questi popoli antichi. La decentralizzazione del potere politico ha permesso la crescita di quadri locali e una maggiore rispondenza delle scelte ai bisogni locali. La separazione tra polizia e esercito ha sicuramente migliorato le qualità democratiche del Paese.

Ma un decennio di neoliberismo incontrollato e privatizzazioni ha causato l’aumento di povertà, disoccupazione e distruzione ambientale. Come dappertutto. Oggi oltre 100 milioni di indonesiani vivono con meno di 2 dollari al giorno, 37 milioni sono disoccupati e migliaia di bambini soffrono di malnutrizione. La destrutturazione dell’industria nazionale, sia in campo agricolo che manifatturiero, ha visto salire alla ribalta una generazione arrogante di uomini d’affari che si sono impadroniti senza ritegno delle risorse naturali del Paese, entrando in rotta di collisione con le popolazioni indigene che vengono zittite attraverso ogni tipo di abusi da parte di militari e paramilitari.

La deforestazione incalzante è il termometro di quanto sta avvenendo: miniere e trivellazioni avanzano, siano i mezzi legali o illegali, la foresta retrocede. La gente non è consapevole di questa lenta ma inesorabile degradazione del territorio e della società e concede il suo voto ai soliti noti, mentre le oligarchie da sempre al potere si combattono per impugnare le leve del comando. L’estremismo religioso pesca nel malcontento diffuso e mette in pericolo la democrazia. Tutto ciò, i riformisti indonesiani lo chiamano sviluppo.

Molti osservatori comunque sottolineano che il governo dell’attuale presidente Yudhoyono ha portato stabilità politica, una ventata di pace e la migliore performance economica degli ultimi dieci anni. Il presidente esce inoltre politicamente rafforzato dal voto di mercoledì e anche dalle elezioni parlamentari dello scorso aprile, nelle quali il suo partito democratico ha più che triplicato il numero di seggi. Eppure il Paese continua a non vedere le riforme promesse, affondato com’è dalla corruzione dilagante e dalla povertà diffusa. La gente avrebbe voluto ascoltare candidati autorevolmente schierati contro gli errori del passato, con idee nuove e voglia di lottare. Invece si ritrovano con le stesse ricette già bruciate e gli stessi volti di prima.

Nella corsa elettorale il terzo candidato e vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, ha condotto la sua campagna proponendo come suo vice Wiranto, ex comandante in capo dell’esercito accusato dalle Nazioni unite di crimini contro l’umanità per i massacri a Timor Est, nel 1999, e già candidato sconfitto nel 2004. L’anziana presidentessa Sukarnoputri ha invece candidato alla vicepresidenza Prabowo Subiyanto, tenente generale in pensione che comandava le truppe speciali Kopasus responsabili nel 1998 della sanguinaria repressione ai danni degli attivisti democratici. È probabile che gli indonesiani si aspettassero un altro tipo di cambiamento, che non avranno.

Bruno Picozzi



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martedì 7 luglio 2009

Lotta all’oppio afghano, finalmente si cambia rotta


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 150/2009 di Terra

Dopo anni di inefficaci politiche repressive, gli Stati Uniti fanno inversione di marcia riguardo alla strategia di lotta contro la produzione e il commercio di droga in Afghanistan. Non saranno più concessi finanziamenti per l’eradicazione coatta delle coltivazioni di papavero ma si introdurranno incentivi concreti di sostegno ai contadini per la sostituzione del papavero con altre colture.

Questo è quanto annunciato sabato scorso dall'inviato statunitense per l'Afghanistan e il Pakistan, Richard Holbrooke, in un’intervista concessa all'Associated Press a margine della riunione dei ministri degli Esteri del G8 a Trieste. «L’eradicazione è uno spreco di denaro - ha affermato Holbrooke davanti al ministro degli Esteri afghano Rangin Dadfar Spanta, presente all’incontro - Si possono distruggere alcuni ettari di superficie, ma non si riduce di un solo dollaro la quantità di denaro guadagnata dai talebani. Così facendo abbiamo solo aiutato i talebani. Quindi, faremo in modo da eliminare l’eradicazione».

L’inefficacia delle politiche portate avanti ciecamente dall’amministrazione Bush e fino ad oggi avallate senza discussione dall’Onu è stata evidenziata dalle parole del capo del dipartimento droghe delle Nazioni unite, Antonio Maria Costa, secondo cui distruggere le colture di papavero ha un costo enorme a fronte di risultati minimi, e prende di mira i piccoli produttori che lottano per sopravvivere invece che la base finanziaria del potere talebano. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni unite, l'eradicazione di oppio ha raggiunto un livello elevato nel 2003, subito dopo che i talebani sono stati estromessi dal potere, con oltre 21mila ettari distrutti. 19mila ettari sono stati invece distrutti nel 2007 e solo 5.500 nel 2008.
L'obiettivo della nuova politica statunitense sarà privare i talebani delle decine di milioni di dollari di entrate che, garantiti dal commercio della droga, alimentano l’insurrezione. L’incentivazione di coltivazioni legali è considerata la migliore strategia in questa direzione.

Da Kabul non è venuto nessun commento alle dichiarazioni di Holbrooke, ma non vi sono dubbi che le nuove direttive saranno bene accolte. Molti afghani vivono esclusivamente del loro raccolto, unica fonte di sostentamento e di reddito, e tutti concordano sul fatto che la distruzione delle piantagioni fortemente voluta da Bush ha ottenuto l’unico risultato di radicalizzare i sentimenti antioccidentali, spingendo anche molti contadini moderati a sostenere l’insurrezione dei talebani.

L’incentivazione della legalità è invece la strada fondamentale per dare un futuro alle popolazioni di Afghanistan e Pakistan. Attraverso gli incentivi esse potranno aumentare i redditi, creare posti di lavoro, migliorare lo sviluppo rurale e raffreddare le tensioni regionali. Al contrario l'insicurezza alimentare cronica e la povertà sono le cause profonde dell’instabilità che mina la società civile.
Al momento non sono state ancora fornite cifre in merito ai costi della nuova strategia, ma è certo che gli incentivi all’agricoltura afghana passeranno dalle attuali decine di milioni di dollari l'anno a centinaia di milioni di dollari, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini.

Ovviamente le politiche di supporto all’agricoltura e di contrasto al commercio delle droghe saranno integrate da uno sforzo di rafforzamento delle istituzioni, vera chiave di volta del successo democratico in qualsiasi Paese. Un valido programma di repressione del traffico di droga in Afghanistan richiede anche il coordinamento tra gli Stati confinanti, per intercettare l’eroina prima che raggiunga i tossicodipendenti in Europa, in Russia e in Iran. Negli ultimi mesi i soldati del contingente statunitense e le truppe NATO in Afghanistan hanno iniziato ad attaccare i siti di stoccaggio e i laboratori di lavorazione dell’oppio nel tentativo di privare i talebani dei profitti derivanti dal traffico di stupefacenti. I ministri hanno inoltre previsto di formare una rete regionale di intelligence per bloccare l’importazione degli agenti chimici necessari alla lavorazione dell’eroina.

In Afghanistan si concentra oggi il 93 per cento della produzione mondiale di oppio, dal quale si ricava l’eroina. Pur essendo diminuita del 19 per cento lo scorso anno, la coltivazione del papavero da oppio rimane intatta nelle province meridionali dell’Afghanistan, dove i talebani hanno totale controllo del territorio. 7mila tonnellate di prodotto vengono esportate ogni anno, transitando attraverso Pakistan e Iran, dove il tasso di dipendenza da eroina è altissimo. Lo scorso anno la produzione di oppio ha fruttato ai ribelli islamici da 50 a 70 milioni di dollari, secondo le stime del dipartimento droghe dell’Onu. Allo stesso tempo, solo quest’anno, i derivati dell'oppio prodotto in Afghanistan hanno causato la morte di circa 100mila persone in quelle parti del mondo dove la domanda di stupefacenti è più elevata: Europa, Russia e Asia occidentale.

Bruno Picozzi



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