mercoledì 26 agosto 2009

Somalia allo sbando


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 194/2009 di Terra

Sembra tornata la calma a Mogadiscio dopo gli scontri del fine settimana che hanno causato circa 25 vittime. Venerdì scorso i guerriglieri islamici di al-Shabaab, “la gioventù”, hanno attaccato a colpi di mortaio le posizioni dell’esercito in rappresaglia contro le attività militari della missione Amisom dell’Unione africana (Ua).

I circa 4.300 caschi verdi di Uganda e Burundi, schierati a protezione di porto, aeroporto e installazioni governative in una posizione di neutralità almeno apparente, sostengono ormai apertamente il governo di Sheikh Sharif Ahmed, ex miliziano e leader moderato delle Corti islamiche accordatosi con le forze filoccidentali del Paese. E la guerriglia non è più disposta a fare differenza tra nemici veri e nemici apparenti. «La prima fase della guerra contro il governo e l’Amisom è finita - ha annunciato giorni fa il portavoce di al-Shabaab, Sheikh Ali Dhere - Vedrete la seconda fase, con conseguenze ancora più mortali». L’inizio del santo mese del Ramadan, il digiuno rituale le cui celebrazioni sono uno dei pilastri dell’Islam, ha portato con sé un ulteriore inasprimento della guerra in Somalia.

Il mese scorso, il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, aveva fatto appello a tutti i Paesi per l’invio urgente di supporto militare al governo di transizione somalo, il quindicesimo dalla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991.
Il sostegno incondizionato degli Usa al presidente Ahmed, espresso dal segretario di Stato statunitense Hillary Clinton durante la sua recente visita in Kenya, era già stato preceduto a fine giugno da una fornitura di 40 tonnellate di armi e munizioni e da una promessa di ulteriori forniture. Ma, secondo il Garowe Online, le armi inviate da Washignton sono andate direttamente sul mercato nero, a disposizione proprio dei miliziani islamici che, nel frattempo, rigettano ogni accusa di terrorismo e legami con la rete di al-Qaeda.

Intanto la capitale somala è ormai un campo di battaglia. Sharif Ahmed riesce a malapena a controllare l’area intorno al palazzo presidenziale mentre le milizie di al-Shabaab e degli altri gruppi armati hanno in mano il resto della città e buona parte del Paese. Lo scorso luglio i miliziani sono giunti a circa un chilometro dalla residenza del presidente e solo l’intervento dei blindati dell’Amisom ha raddrizzato la situazione. Capita che le milizie si combattano tra di loro e di recente vi sono stati scontri armati persino tra reparti dell’esercito governativo a causa di regolamenti di conti tra ufficiali. Le regioni settentrionali, Somaliland e Puntland, si governano praticamente da sé e non senza difficoltà. L’imposizione la settimana scorsa della legge marziale da parte del Parlamento di Mogadiscio è stata descritta come una vittoria del presidente ma è stata solo una farsa politica senza conseguenze sul piano pratico.

Nel frattempo l'International Maritime Bureau registra "un aumento esponenziale" della pirateria nel Golfo di Aden e nel bacino somalo durante il primo trimestre del 2009, con 61 attacchi riportati, rispetto ai 6 dello stesso periodo nel 2008. E aumentano i traffici illegali di rifiuti tossici inabissati al largo delle coste somale da cargo provenienti dal mondo industrializzato.

È il quadro di un Paese allo sbando, diviso tra la volontà europea e americana di farne, con la forza delle armi, uno Stato filoccidentale e la capacità ormai dimostrata delle milizie islamiche di controllare il territorio attraverso l’applicazione di leggi tribali e della sharia.

Etiopia ed Eritrea, dal canto loro, tirano la corda ai due estremi opposti. L’Etiopia, longa manus dell’Occidente, sostiene con la minaccia di un nuovo intervento militare l’accordo tra “signori della guerra” che garantisce la tenuta del governo di transizione. L’Eritrea fornisce supporto politico e armi alla guerriglia islamica, non riconoscendo la leadership di Sharif Ahmed in quanto frutto di una spartizione non avallata dal popolo e sostenuta dalle potenze occidentali.

La guerra continua dunque a essere l’unica certezza in questo Stato inesistente, dove né le decine di governi provvisori formati nel tempo attraverso accordi tra signori e signorotti locali, né le varie missioni internazionali, tra le quali la disastrosa Unosom terminata nel sangue a inizio 1995, hanno potuto sostituirsi ai rapporti tradizionali tra etnie e clan.

La nuova ondata di scontri iniziata nel maggio scorso ha già causato oltre 300 morti e decine di migliaia di profughi. Ad oggi quasi metà della popolazione, circa 3,2 milioni di persone, sopravvive solo grazie agli aiuti alimentari dall’estero.
L’Unione africana ha promesso di rinforzare l’Amisom, ma la verità è che nessuno, né in Africa né in Occidente, ha voglia di andarsi a invischiare nella palude somala e già da tempo le opposizioni parlamentari in Uganda e Burundi premono per il ritiro dei contingenti. Intanto i Paesi ricchi hanno occhi solo per la pirateria e in Somalia si continua a morire, di guerra, di fame e di povertà.


Bruno Picozzi



Leggi l'articolo intero

lunedì 17 agosto 2009

Ricominciano i colloqui sul Sahara Occidentale


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 186/2009 di Terra

Dopo quasi 18 mesi di stallo sono ripresi i colloqui sulla questione del Sahara Occidentale tra il governo marocchino e gli indipendentisti del Fronte Polisario.
Archiviati gli insuccessi dei quattro incontri di Manhasset, New York, le parti si sono incontrate il 10 agosto scorso a Dürnstein, in Austria, sotto l’egida del nuovo inviato personale del Segretario generale dell’Onu, lo statunitense Christopher Ross. Due giorni di incontri separati con la partecipazione di delegazioni dall’Algeria e dalla Mauritania e nessun obiettivo stabilito, se non quello di superare la situazione di “impasse” venutasi a creare negli ultimi anni. «Non abbiamo alcun problema con qualsiasi punto all'ordine del giorno - ha detto il ministro per gli Affari africani del Polisario, Mohamed Beisat - Siamo pronti a discutere di autonomia, siamo pronti a discutere di indipendenza, ciò che vuole il mediatore».

La questione della piena decolonizzazione del Sahara Occidentale si trascina ormai da 34 anni, in virtù dell’occupazione militare attuata dal Marocco a partire dal 1975 quando la Spagna, potenza colonizzatrice, abbandonò i Saharawi all’invasione marocchina in cambio di accordi commerciali favorevoli. Il Sahara Occidentale è iscritto nella Lista dei Territori non autonomi delle Nazioni unite, poiché l’annessione da parte del Marocco non è mai stata riconosciuta dai massimi organismi internazionali. Il Marocco infatti è l’unico Stato del continente a non fare parte dell’Ua, cui invece aderisce la Repubblica democratica araba Saharawi in esilio (Sadr), braccio politico del Polisario.

La guerra ha insanguinato la regione dal 1975 al 1991, fino al cessate-il-fuoco firmato dalle due parti dietro mediazione dell’Onu. Mentre un muro di 2600 km veniva eretto nel bel mezzo del Paese, a dividere mare pescoso, terre coltivabili e miniere di fosfati sotto controllo marocchino dall’arido deserto controllato dal Polisario, una missione internazionale, la Minurso, ha ricevuto il compito di organizzare un referendum di autodeterminazione per il popolo Saharawi. Ma nei quasi diciotto anni di permanenza sul territorio africano la missione non è riuscita a compilare le liste degli aventi diritto al voto, ostacolata dai continui impedimenti procedurali trovati dalle autorità marocchine e anche grazie alla sospetta benevolenza dei vertici dell’Onu verso le stesse.

Nel frattempo circa 160mila Saharawi, scacciati a suo tempo a forza di bombe al napalm, vivono oltre frontiera nel deserto algerino, nell’oasi di Tindouf, sopravvivendo esclusivamente grazie agli aiuti internazionali amministrati dalla Sadr.

La storia di questo conflitto è un vero trattato di diritto internazionale. Decine di risoluzioni dei maggiori organismi internazionali si sono succedute senza alcun effetto concreto, compreso un parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Ogni risoluzione in sostanza afferma con forza il diritto del popolo Saharawi all’autodeterminazione, ribadendo in ogni sede possibile che in nessun modo il Marocco può vantare un’inequivocabile dominio storico sul territorio in questione. Eppure tutti i documenti, e l’idea stessa di autodeterminazione, sono sufficientemente ambigui da lasciare aperta la porta alle rivendicazioni marocchine ed evitare l’imposizione con la forza della soluzione a suo tempo auspicata, ossia lo svolgimento di un giusto referendum di autodeterminazione.
Anche l’ultima risoluzione approvata lo scorso dicembre dall’Assemblea generale dell’Onu segue lo stesso schema: sostiene l’interminabile processo negoziale e chiama le parti a dare prova di realismo e di spirito di compromesso senza spingersi oltre, lasciando i due contendenti in un sostanziale braccio di ferro in cui non conta il diritto ma la forza dell’appoggio internazionale.

Nel 2006, in pieno stallo diplomatico, il Corcas marocchino (Consiglio Reale Consultivo per gli Affari del Sahara, del quale fanno parte alcuni notabili Saharawi) propose una “Iniziativa di autonomia” per il Sahara Occidentale che, presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu nell’aprile 2007, ricevette il pieno appoggio della Francia, da sempre primo partner commerciale e militare del Marocco, e di George Bush, apertamente sostenuto da Rabat nella sua “guerra al terrorismo”.

Da allora ogni tentativo di dialogo si perde nella terra di nessuno che divide l’Iniziativa marocchina dall’auspicato referendum di autodeterminazione. Nel dicembre 2007, durante il suo ultimo congresso, il Polisario ha seriamente ventilato l’ipotesi di riprendere la lotta armata. Ma nel frattempo l’Algeria, primo sponsor degli indipendentisti, ha cercato di ricucire i suoi rapporti col Marocco e pochi credono che si lascerà coinvolgere in una nuova guerra. Resta allora solo la soluzione negoziale e la volontà espressa dalle parti di ritrovarsi presto al tavolo della trattativa. Vedremo nei prossimi mesi se l’autorevolezza di Ross e il nuovo corso di Obama saranno sufficienti a trovare un difficile compromesso.


Bruno Picozzi



Leggi l'articolo intero

venerdì 7 agosto 2009

Uribe sempre più isolato in America Latina


Questo articolo è stato pubblicato il 7 agosto 2009 su Dazebao

Aumenta l’isolamento internazionale del presidente della Colombia Álvaro Uribe in seguito alla sua scelta di aumentare la presenza statunitense nel Paese, per combattere contro i cartelli della droga e contro i circa 9mila guerriglieri marxisti delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc), in guerra contro il governo da quasi mezzo secolo.

Colloqui sono in corso per la firma di un accordo che consentirà alle forze americane l’accesso a sette basi militari in territorio colombiano. Un contratto di affitto valido per dieci anni dovrebbe essere firmato a fine mese, anche se sul piano pratico poco cambierà rispetto ai trattati già esistenti dal 1999, quando a Washington fu lanciato il famigerato “Plan Colombia”, 5 miliardi di dollari in aiuti militari e la dislocazione di forze speciali nel Paese sudamericano per la formazione dei quadri locali e per la condivisione di informazioni di intelligence.

La quantità di truppe USA in Colombia, ad oggi intorno alle 300 unità, non dovrebbe superare il tetto di 800 soldati e 600 contractors civili, il massimo consentito nel quadro del patto militare già in vigore. Le forze antidroga della U.S. Air Force dovrebbero trasferirsi a Palanquero, nella valle della Maddalena, dopo essere state invitate dal presidente ecuadoregno Rafael Correa a lasciare la base di Manta, in Ecuador, dove erano dislocate fino al 17 luglio scorso.

La mossa di Uribe ha scatenato un vespaio di critiche da parte degli altri leader regionali, in particolare i leader socialisti, il venezuelano Hugo Chavez, il nicaraguense Daniel Ortega e lo stesso Correa, preoccupati che l’accordo danneggi la stabilità del continente. Secondo Chavez, Washington «sta trasformando la Colombia in una base imperialista le cui operazioni minacciano la sovranità del Venezuela».

Del resto Uribe è ormai ai ferri corti con Chavez e Correa a causa dei loro “presunti legami” con le Farc. Nel mese di ottobre, tre lanciarazzi anticarro svedesi, acquistati dal Venezuela nel 1988, sono stati ritrovati in un campo dei ribelli. Alla richiesta di spiegazioni Chavez ha richiamato il suo ambasciatore a Bogotà e congelato le relazioni diplomatiche. Con l’Ecuador le relazioni sono interrotte dal raid aereo che nel marzo 2008 provocò la morte di uno dei capi delle Farc, Raul Reyes. Un video distribuito il mese scorso dalla Associated Press mostra un comandante ribelle che discute di fornire contributi elettorali per la campagna elettorale di Correa, nel 2006.

Per difendere i suoi piani e raffreddare le tensioni diplomatiche, Uribe è partito su un vorticoso tour in Perù, Bolivia, Cile, Brasile, Paraguay, Argentina e Uruguay. Il leader colombiano ha ottenuto il sostegno del presidente peruviano Alan Garcia, conservatore anche lui. Non quello del boliviano Evo Morales, stretto alleato di Chavez e Correa, il quale si è opposto all’accordo, dichiarandosi «minacciato» e definendo «inaccettabile» una maggiore presenza militare Usa in America Latina.

Ma anche i leader moderati della regione hanno espresso forte contrarietà. Inequivocabili le parole del brasiliano Lula: «Non mi piace l'idea di una base militare americana in Colombia». Michelle Bachelet, dal Cile, ha fatto suo il disagio espresso dagli altri governi, etichettando come «inquietante» l’accordo, e ha chiesto di mettere il tutto all’ordine del giorno della riunione dell’unione regionale Unasur, che si terrà in Ecuador il prossimo 10 agosto. È prevista la partecipazione di tutti i capi di Stato del continente. Solo Uribe e il suo ministro degli Esteri, Jaime Bermudez, non prevedono di parteciparvi.

Il messaggio centrale del tour diplomatico di Uribe è stato che la presenza americana non è una minaccia per le altre nazioni ma solo un vantaggio per tutti.
«Nessuno, se non i terroristi e i trafficanti di droga, dovrebbe preoccuparsi di questo accordo, che è trasparente, rispetta la nostra sovranità, rispetta gli accordi internazionali e rappresenta semplicemente il rafforzamento della nostra capacità di combattere contro questo flagello mondiale», ha detto il generale Freddy Padilla, ministro della Difesa colombiano.

Ma la reazione alla strategia di Uribe potrebbe complicare gli sforzi compiuti dal presidente Barack Obama per migliorare le relazioni con gli altri Paesi dell'America latina. Obama ha conquistato l’apprezzamento di tutti per la condanna del colpo di Stato militare che nel giugno ha destituito in Honduras il legittimo presidente, il liberale Manuel Zelaya. Ma alcuni accusano la Casa bianca di non dare un sostegno più attivo al leader deposto.

Nel frattempo le forze di sicurezza colombiane hanno lanciato una grande operazione contro i ribelli. Il generale Javier Florez, comandante della Joint Task Force Omega, ha dichiarato che i suoi soldati hanno ucciso almeno 40 militanti delle Farc nel corso delle ultime settimane. Almeno 17 ribelli sono stati uccisi la settimana scorsa, quando le forze di sicurezza hanno bombardato un campo dove si trovavano circa 200 guerriglieri.

Bruno Picozzi



Leggi l'articolo intero