Questo articolo è stato pubblicato sul numero 194/2009 di Terra
Sembra tornata la calma a Mogadiscio dopo gli scontri del fine settimana che hanno causato circa 25 vittime. Venerdì scorso i guerriglieri islamici di al-Shabaab, “la gioventù”, hanno attaccato a colpi di mortaio le posizioni dell’esercito in rappresaglia contro le attività militari della missione Amisom dell’Unione africana (Ua).
I circa 4.300 caschi verdi di Uganda e Burundi, schierati a protezione di porto, aeroporto e installazioni governative in una posizione di neutralità almeno apparente, sostengono ormai apertamente il governo di Sheikh Sharif Ahmed, ex miliziano e leader moderato delle Corti islamiche accordatosi con le forze filoccidentali del Paese. E la guerriglia non è più disposta a fare differenza tra nemici veri e nemici apparenti. «La prima fase della guerra contro il governo e l’Amisom è finita - ha annunciato giorni fa il portavoce di al-Shabaab, Sheikh Ali Dhere - Vedrete la seconda fase, con conseguenze ancora più mortali». L’inizio del santo mese del Ramadan, il digiuno rituale le cui celebrazioni sono uno dei pilastri dell’Islam, ha portato con sé un ulteriore inasprimento della guerra in Somalia.
Il mese scorso, il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, aveva fatto appello a tutti i Paesi per l’invio urgente di supporto militare al governo di transizione somalo, il quindicesimo dalla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991.
Il sostegno incondizionato degli Usa al presidente Ahmed, espresso dal segretario di Stato statunitense Hillary Clinton durante la sua recente visita in Kenya, era già stato preceduto a fine giugno da una fornitura di 40 tonnellate di armi e munizioni e da una promessa di ulteriori forniture. Ma, secondo il Garowe Online, le armi inviate da Washignton sono andate direttamente sul mercato nero, a disposizione proprio dei miliziani islamici che, nel frattempo, rigettano ogni accusa di terrorismo e legami con la rete di al-Qaeda.
Intanto la capitale somala è ormai un campo di battaglia. Sharif Ahmed riesce a malapena a controllare l’area intorno al palazzo presidenziale mentre le milizie di al-Shabaab e degli altri gruppi armati hanno in mano il resto della città e buona parte del Paese. Lo scorso luglio i miliziani sono giunti a circa un chilometro dalla residenza del presidente e solo l’intervento dei blindati dell’Amisom ha raddrizzato la situazione. Capita che le milizie si combattano tra di loro e di recente vi sono stati scontri armati persino tra reparti dell’esercito governativo a causa di regolamenti di conti tra ufficiali. Le regioni settentrionali, Somaliland e Puntland, si governano praticamente da sé e non senza difficoltà. L’imposizione la settimana scorsa della legge marziale da parte del Parlamento di Mogadiscio è stata descritta come una vittoria del presidente ma è stata solo una farsa politica senza conseguenze sul piano pratico.
Nel frattempo l'International Maritime Bureau registra "un aumento esponenziale" della pirateria nel Golfo di Aden e nel bacino somalo durante il primo trimestre del 2009, con 61 attacchi riportati, rispetto ai 6 dello stesso periodo nel 2008. E aumentano i traffici illegali di rifiuti tossici inabissati al largo delle coste somale da cargo provenienti dal mondo industrializzato.
È il quadro di un Paese allo sbando, diviso tra la volontà europea e americana di farne, con la forza delle armi, uno Stato filoccidentale e la capacità ormai dimostrata delle milizie islamiche di controllare il territorio attraverso l’applicazione di leggi tribali e della sharia.
Etiopia ed Eritrea, dal canto loro, tirano la corda ai due estremi opposti. L’Etiopia, longa manus dell’Occidente, sostiene con la minaccia di un nuovo intervento militare l’accordo tra “signori della guerra” che garantisce la tenuta del governo di transizione. L’Eritrea fornisce supporto politico e armi alla guerriglia islamica, non riconoscendo la leadership di Sharif Ahmed in quanto frutto di una spartizione non avallata dal popolo e sostenuta dalle potenze occidentali.
La guerra continua dunque a essere l’unica certezza in questo Stato inesistente, dove né le decine di governi provvisori formati nel tempo attraverso accordi tra signori e signorotti locali, né le varie missioni internazionali, tra le quali la disastrosa Unosom terminata nel sangue a inizio 1995, hanno potuto sostituirsi ai rapporti tradizionali tra etnie e clan.
La nuova ondata di scontri iniziata nel maggio scorso ha già causato oltre 300 morti e decine di migliaia di profughi. Ad oggi quasi metà della popolazione, circa 3,2 milioni di persone, sopravvive solo grazie agli aiuti alimentari dall’estero.
L’Unione africana ha promesso di rinforzare l’Amisom, ma la verità è che nessuno, né in Africa né in Occidente, ha voglia di andarsi a invischiare nella palude somala e già da tempo le opposizioni parlamentari in Uganda e Burundi premono per il ritiro dei contingenti. Intanto i Paesi ricchi hanno occhi solo per la pirateria e in Somalia si continua a morire, di guerra, di fame e di povertà.
Bruno Picozzi
mercoledì 26 agosto 2009
Somalia allo sbando
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