domenica 27 luglio 2008

Cipro : a Settembre inizio negoziazioni per la riunificazione


Dopo 34 anni si avvicina la soluzione della questione Cipriota.

Il presidente di Cipro Dimitris Chrstofias ed il leader Turco-Cipriota Mehmet Ali Talat si sono accordati ieri per iniziare il 3 settembre prossimo dei negoziati volti a riunificate l’isola, che hanno riscosso il plauso dell’Unione Europea e degli ufficiali Statunitensi. (
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Nel frattempo, l’arrivo nell’isola del nuovo mediatore delle Nazioni Unite sulla questione Cipriota, l’ex ministro degli esteri Alexander Downer, atteso per domani, viene visto come un segno che il processo sta procedendo. “Lo scopo delle negoziazioni è di trovare una soluzione alla questione Cipriota accettabile per entrambe le parti che salvaguarderà i fondamentali e legittimi diritti ed interessi di Greco-Ciprioti e Turco-Ciprioti” recita una dichiarazione ufficiale comune. Ogni accordo che i due capi raggiungano verrebbe rimesso a simultanei referendum da entrambe le parti dell’isola.

Nell’incontro fra i due capi, che è durato oltre due ore, si è anche deciso di creare una linea telefonica diretta fra i rispettivi uffici, “per riflettere il rafforzamento dell’impegno”. “Abbiamo fatto un passo in avanti – questo è uno sviluppo positivo” ha affermato Christofias. Talat ha aggiunto “Il nostro obiettivo è di raggiungere una soluzione nel breve periodo…. Sono fiducioso che potremmo farcela entro la fine del 2008”.

Il ministro degli Esteri Ellenico Dora Bacoyannis ha dichiarato “La Grecia dà il suo pieno appoggio al nuovo processo di negoziazione, ma la strada per la soluzione sarà difficile”.

Il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha salutato calorosamente la decisione ed il presidente della Commissione Europea Jose Manuel Barroso lo ha definito un passo importante. Il portavoce del Dipartimento di Stato Americano ha dichiarato che gli Stati Uniti “appoggiano vivamente” le negoziazioni.

Informatori riferiscono che su alcuni temi vi è un reale miglioramento (su economia e potere giudiziario) ma su alcuni altri una totale immobilità di posizioni (temi della sicurezza, delle garanzie, del territorio e della cittadinanza).

Come riferiscono sia Ethnos che Rizospastis, la decisione ha incontrato il favore dei due maggiori partiti Ciprioti ΑΚΕΛ (Partito comunista) e ΔΗΣΥ (Coalizione Democratica), Mentre i partiti di governo ΔΗΚΟ (Partito Democratico) e ΕΔΕΚ (Unione di Centro) non sono d’accordo, poichè giudicano che i presupposti che erano stati richiesti non si siano concretizzati, ma daranno comunque il loro appoggio al presidente.


Tratto da:
Cyprus leaders agree to launch face-to-face talks in September di Petro Karadijas
su
Kathimerini, Grecia, Sabato 26 Luglio 2008
Συμφώνησαν για συνομιλίες di Neofitos Kyriakou
su
Ethnos, Grecia, Sabato 26 Luglio 2008
tradotto da Nadia Sotiriou

Articoli di riferimento:
Storia di Cipro su Wikipedia


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venerdì 18 luglio 2008

Mr. Gordon Brown e la crisi in Nigeria


Dal G8, il premier britannico ha offerto aiuto militare al governo nigeriano contro i ribelli del Delta del Niger, che hanno risposto con la sospensione del cessate il fuoco e la minaccia di colpire gli interessi britannici.

Le riunioni dei G8 continuano ad essere sempre più spettacoli inutili quanto fuori dalla realtà. A conferma dell’incapacità di affrontare seriamente le questioni che ledono i diritti della gran parte dell’umanità, anche quest’anno Gordon Brown ha mantenuto inalterata la tradizione che caratterizza i governi di sua maestà: un’ipocrita miopia.
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Dal Giappone, infatti, il premier britannico ha dichiarato in conferenza stampa di essere pronto a dare «aiuto» ai nigeriani per far fronte «all’illegalità» nella regione del Delta del Niger e che colpisce la produzione di petrolio.

Non sarebbe stato più opportuno dire che ci interessa il petrolio e il gas e non ce ne frega nulla di 20 milioni di nigeriani del Delta che continuano a morire con meno di due dollari al giorno da 40 anni e che hanno visto trasformare le loro vite in un inferno proprio a causa della violenza e dell’inquinamento ambientale e sociale prodotto dalle multinazionali petrolifere [inglesi, italiane e olandesi su tutte]? Non sarebbe stato meglio dire che sino ad ora abbiamo sempre fatto buoni affari, mentre da quando la popolazione locale ha deciso di combattere per i propri diritti, siamo preoccupati per la diminuzione della produzione petrolifera? Ovviamente non sentiremo mai parlare così un premier inglese.

La risposta dei ribelli del Mend [il Movimento per l’emancipazione del delta del Niger], che da anni lottano per difendere i diritti degli abitanti del Delta e per una più giusta distribuzione della ricchezza portata via dalle grandi imprese, non si è fatta attendere. Attraverso un comunicato stampa spedito al Times of Nigeria, il Mend ha lanciato un monito al premier britannico, reo di voler fornire appoggio militare al governo definito illegale di Umaru Yar’Adua, colpevole di opprimere la povera popolazione del delta del Niger.

Nel comunicato i ribelli annunciano in risposta alle minacce inglesi la sospensione del cessate il fuoco unilaterale che avevano sostenuto. «Se Brown mantiene le promesse di sostegno a questi crimini per il bene del petrolio i cittadini e gli interessi britannici in Nigeria ne subiranno le conseguenze», così si legge alla fine della email inviata dai ribelli ai media. Persino alcuni gruppi di scozzesi e di sostenitori dello Scottish National Party polemizzando con le dichiarazioni del premier britannico hanno inviato dei comunicati di solidarietà ai ribelli del Delta del Niger, offrendosi persino di aiutarli a colpire gli interessi delle grandi imprese britanniche in Nigeria.

Qualche giorno dopo le dichiarazioni di Brown, 30 giovani morivano nella ressa davanti agli uffici statali dei 36 stati dove si doveva tenere un concorso. Erano previste circa mille assunzioni ed al concorso si sono presentati più di 100 mila aspiranti funzionari statali, tra diplomati e laureati disoccupati, costretti a lasciare le loro terre per venire magari a ingrossare le casse di chi gestisce i Cpt o il racket della prostituzione.

In Nigeria non solo si muore «di lavoro» come in Italia, ma adesso lo si fa addirittura quando lo si cerca, il lavoro. «Morte in cerca di lavoro», questa la malattia che colpisce l’ottavo paese produttore di petrolio al mondo, che continua ad avere una povertà dilagante ed una corruzione endemica avallata e a volte sostenuta da imprese e governi europei, gli stessi che magari vogliono il reato di clandestinità. Persino il settore energetico è in crisi in Nigeria, nonostante le immense ricchezze di combustibili di cui dispone e molte volte in questi ultimi giorni ci sono stati enormi black out.

Come ci si possa stupire di chi si ribella davanti ad una situazione così ingiusta e insostenibile, lo si dovrebbe chiedere a Gordon Brown ed agli altri G8, incuranti e delle crisi di sistema che in Nigeria come altrove sembra avere le stesse radici: un modello di sviluppo fondato sull’esclusione, sull’insostenibilità e sulla guerra.


Tratto da:
Mr. Gordon Brown e la crisi in Nigeria di Giuseppe De Marzo [Associazione A Sud]
su
Carta, Italia, 17 luglio 2008

Articoli di riferimento:
In Nigeria il MEND annuncia un cessate-il-fuoco



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giovedì 17 luglio 2008

Nei Territori occupati, peggio dell'Apartheid


Pensavo che si sentissero a casa propria nei vicoli del campo profughi di Balata, nella Casbah e al posto di blocco di Hawara. Ma hanno detto che non c'era paragone: per loro il regime dell'occupazione israeliana è peggiore di qualunque avessero conosciuto sotto l'apartheid.

Questa settimana, 21 attivisti per i diritti umani, provenienti dal Sud Africa, hanno visitato
Israele. Fra loro, vi erano appartenenti all'African National Congress di Nelson Mandela; almeno uno aveva preso parte alla lotta armata, e almeno due erano stati in carcere. Vi erano due giudici della Corte Suprema del Sud Africa, un ex vice-ministro, parlamentari, avvocati, scrittori e giornalisti; neri e bianchi, almeno la metà ebrei, oggi in conflitto con l'atteggiamento conservatore della comunità ebraica nel loro Paese. Alcuni erano stati qui in precedenza, per altri era la prima visita. (continua a leggere)

Per cinque giorni sono stati a visitare Israele in modo anticonformistico – senza Sderot, l'esercito e il Ministero degli affari esteri [ma con Yad Vashem, il monumento allo sterminio, e un incontro con la Presidente della Corte Suprema, la Giudice Dorit Beinisch]. Hanno passato la maggior parte del tempo nelle aree occupate, dove quasi nessun ospite ufficiale va – nei
luoghi evitati pure dalla maggior parte degli israeliani. Il lunedì hanno visitato Nablus, la città più imprigionata della Cisgiordania; da Hawara alla Casbah, dalla Tomba di Giuseppe al monastero del Pozzo di Giacobbe. Si sono spostati da Gerusalemme a Nablus con l'Autostrada 60, osservando i villaggi imprigionati che non hanno accesso alla strada principale, e vedendo le «strade per gli indigeni», che vi passano sotto. Hanno visto e non hanno detto alcunché. Non c'erano strade separate, sotto l'apartheid. Sono passati, muti, attraverso il posto di blocco di Hawara: non avevano mai avuto barriere di quel tipo.

Jody Kollapen, che dirigeva gli Avvocati per i Diritti umani nel regime dell'apartheid, osserva in silenzio. Vede la «giostra» in cui si schiacciano masse di persone che vanno al lavoro, a vedere la famiglia o all'ospedale.
Neta Golan, che è vissuta per diversi anni nella città assediata, spiega che solo l'1 per cento degli abitanti ha il permesso di lasciare la città in auto; si sospetta che siano dei collaborazionisti con Israele.
Nozizwe Madlala-Routledge, ex vice-ministro della difesa e della sanità, attualmente parlamentare, figura riverita nel suo Paese, è colpita dal vedere un ammalato portato in barella. «Privare la gente di cure mediche umane? Sapete, si muore, per quello», dice sottovoce.
Le guide del tour – attivisti palestinesi – spiegano che Nablus è isolata da sei posti di blocco; fino al 2005, uno era aperto. «Si suppone che vi siano motivi di sicurezza per i posti di blocco, ma chiunque voglia perpetrare un attacco può pagare 10 shekel [meno di due euro, ndt] per un taxi e percorrere circonvallazioni, o camminare sulle colline. Il vero scopo è rendere la vita difficile agli abitanti. La popolazione civile soffre», dice Said Abu Hijla, lettore all'Università Al-Najah, nella città.

Nell'autobus, faccio conoscenza con i mie due vicini: Andrew Feinstein, figlio di sopravvissuti allo sterminio, che ha sposato una musulmana proveniente dal Bangladesh, ed è stato parlamentare per sei anni per l'Anc; e Nathan Gefen, che ha come partner un uomo musulmano, e che da giovane apparteneva al movimento di destra Betar. Nel suo Paese, devastato dalla malattia, Gefen è attivo nel Comitato contro l'Aids. «Guardate a sinistra e a destra», spiega la guida, con l'altoparlante, «sulla cima di ogni collina, sul Gerizim e sull'Ebal, c'è un avamposto dell'esercito israeliano che ci osserva». Qui ci sono fori di proiettili nel muro di una scuola e c'è la Tomba di Giuseppe,
sorvegliata da un gruppo di poliziotti palestinesi armati. Qui c'era un posto di blocco, e qui è dove è stata uccisa una passante a cui avevano sparato, due anni fa. L'edificio governativo che c'era qui è stato bombardato e distrutto da aerei da guerra F-16. Mille abitanti di Nablus sono stati uccisi nella seconda intifada: 90 nell'Operazione Scudo Difensivo, più che a Jenin.

Due settimane fa, il giorno che è entrata in vigore la tregua nella Striscia di Gaza, Israele ha compiuto quelli che, ad oggi, sono i suoi due ultimi assassinii. La notte scorsa i soldati sono di nuovo entrati, arrestando gente. E’ passato molto tempo, da quando qui ci sono stati turisti in visita. C'è qualcosa di nuovo: gli innumerevoli poster-memoriali, attaccati ai muri per commemorare i caduti, sono stati sostituiti, in ogni angolo della Casbah, da monumenti di marmo e da placche di metallo.

«Non gettate la carta nel gabinetto, perché manca l'acqua», dicono agli ospiti negli uffici del Comitato Popolare della Casbah, posto in alto, in un edificio spettacolare, di pietra vecchia. L'ex vice-ministro si siede a capotavola. Dietro di lei ci sono ritratti di Yasser Arafat, Abu Jihad e Marwan Barghouti, il leader dei Tanzim, in carcere.

Rappresentanti dei residenti nella Casbah descrivono le difficili esperienze a cui fanno fronte. Nell'antico quartiere, il novanta per cento dei bambini soffrono di anemia e di malnutrizione, la situazione economica è terribile, continuano le incursioni notturne, e alcuni abitanti non sono autorizzati a lasciare la città per alcun motivo.

Usciamo per un giro sulla traccia delle devastazioni compiute negli anni dall'esercito israeliano. Edwin Cameron, giudice nella Corte Suprema d'appello, dice ai suoi ospiti: «Siamo venuti qui con scarse conoscenze, e abbiamo sete di sapere. Siamo colpiti da quanto abbiamo visto finora, ci è molto chiaro che la situazione qui è intollerabile». Un poster, attaccato a un muro esterno, ha la foto di un uomo che ha trascorso 34 anni in un carcere israeliano. Mandela è stato in prigione per sette anni di meno. Uno dei componenti ebrei della delegazione è pronto a dire, purché non si faccia il suo nome, che il paragone con l'apartheid è assai pertinente, e che gli israeliani sono persino più efficienti nell'implementare il regime di separazione razziale di quanto non fossero i Sudafricani. Se lo affermasse pubblicamente, sostiene, sarebbe attaccato dagli appartenenti alla comunità ebraica.

Sotto un albero di fichi, nel centro della Casbah, uno degli attivisti palestinesi spiega: «I soldati israeliani sono vigliacchi. E’ per questo che hanno creato vie per spostarsi con i bulldozer. Nel far ciò, hanno ucciso con i bulldozer tre generazioni di una famiglia, gli Shubi». Qui c'è il monumento in pietra alla famiglia – nonno, due zie, mamma e due bambini. Sulla pietra sono incise le parole «Non dimenticheremo mai, non perdoneremo mai». Non meno bello del famoso Pere-Lachaise, a Parigi, il cimitero centrale di Nablus riposa all'ombra di un bosco di pini. Fra le centinaia di pietre tombali, spiccano quelle delle vittime dell'Intifada. Qui c'è la sepoltura fresca di un ragazzo ucciso alcune settimane fa al posto di blocco di Hawara. I Sudafricani camminano silenziosamente fra le tombe, fermandosi davanti a quella di Abu Hijla, madre della nostra guida; era stata raggiunta da 15 proiettili. «Non ci arrenderemo, te lo promettiamo», hanno scritto i bambini sulla sua lapide; era conosciuta come «madre dei poveri».

Il pranzo è in un albergo della città, e parla Madlala-Routledge: «E’ difficile per me descrivere quel che sento. Quel che vedo qui è peggiore di quello che abbiamo sperimentato. Ma mi dà coraggio trovare che qui ci sono dei coraggiosi. Vogliamo sostenervi nella lotta, con ogni mezzo possibile. C'è un discreto numero di ebrei nella nostra delegazione, e siamo molto orgogliosi che siano stati loro a condurci qui; dimostrano il loro impegno a sostenervi. Nel nostro paese siamo stati capaci di unire tutte le forze in una sola lotta, e fra di noi vi erano bianchi coraggiosi, ebrei compresi. Spero che vedremo più ebrei israeliani unirsi alla vostra battaglia».

E’ stata vice-ministro alla difesa dal 1999 al 2004; nel 1987 era stata in carcere. Più tardi, le ho chiesto in quali modi la situazione qui è peggiore dell'apartheid. «L'assoluto controllo sulla vita delle persone, la mancanza di libertà di movimento, la presenza dell'esercito dappertutto, la separazione totale e le ampie distruzioni che abbiamo visto». Madlala-Routledge pensa che la lotta contro l'occupazione non abbia successo qui a causa del sostegno Usa per Israele: con l'apartheid, che le sanzioni internazionali hanno contribuito a distruggere, il caso era diverso. Qui, l'ideologia razzista è anche rinforzata dalla religione; in Sudafrica non era così. «Discorsi sulla 'terra promessa' e il 'popolo eletto' aggiungono una dimensione religiosa, che noi non avevamo, al razzismo».

Egualmente aspre sono le osservazioni del caporedattore del Sunday Times del Sud Africa, Mondli Makanya, di 38 anni: «Quando osservi da lontano sai che qui va male, ma non sai quanto male. Nulla può prepararti a quanto abbiamo visto qui. In un certo senso, è peggiore, peggiore, peggiore, di tutto quel che abbiamo sopportato. Il livello di discriminazione, il razzismo e la brutalità sono peggiori di quelli del periodo più cupo dell'apartheid. Il regime dell'apartheid considerava i neri inferiori; io penso che gli israeliani non considerino affatto i palestinesi esseri umani. Come può il cervello di un uomo architettare questa separazione totale, le strade separate, i posti di blocco? Quel che abbiamo passato era terribile, terribile, terribile – e tuttavia non c'è paragone. Qui è più terribile ancora. Noi sapevamo anche che un giorno sarebbe finito; qui non c'è una fine in vista. L'uscita dal tunnel è nerissima.

Sotto l'apartheid, vi erano posti in cui bianchi e neri si incontravano. Gli israeliani e i palestinesi non si incontrano più affatto; la separazione è totale. Mi sembra che agli israeliani piacerebbe che i palestinesi sparissero. Nel nostro caso, non c'è mai stato alcunché del genere: i bianchi non volevano che i neri si dileguassero. Ho visto i coloni a Silwan [a Gerusalemme Est] – persone che vogliono espellerne altre, dalle loro case».

Dopo abbiamo camminato in silenzio per i vicoli di Balata, il più grande campo profughi in Cisgiordania, indicato 60 anni fa come rifugio temporaneo per 5 mila persone, che ora ne ospita 26 mila. Nei vicoli scuri, ampi all'incirca quanto un individuo magro, vi era un silenzio opprimente. Ognuno era immerso nei suoi pensieri, e il silenzio era interrotto solo dalla voce del muezzin.


Tratto da:
Twilight Zone / 'Worse than apartheid' di Gideon Levy
su
HAARETZ.com, Israele, 17 luglio 2008
Tradotto da Paola Canarutto su Carta

Articoli di riferimento:
Voce 'Territori Occupati' su Wikipedia



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mercoledì 16 luglio 2008

Cina, spenta la voce del blogger che cercava la verità sul terremoto


Quasi nessuno in Italia conosce la storia di Huang Qi. Ed è un vero peccato perché la sua vicenda racconta la Cina del dopo terremoto e della vigilia olimpica infinitamente meglio di tante chiacchiere di capi di governo, dirigenti di federazioni sportive o esperti di geopolitica.

Non è che le notizie da noi non siano arrivate. Dell'arresto ( l'ultimo di una serie) di Huang Qi si è occupato ad esempio il 17 giugno scorso anche il sito di Rainews24 riferendo che si trattava di un blogger imprigionato dalla polizia perché aveva scritto degli articoli critici sul dopo terremoto nella martoriata regione del Sichuan. L'argomento è rimasto però colpevolmente confinato nel recinto del mondo del web e nei trafiletti di qualche quotidiano. (continua a leggere)

A rompere realmente il muro di silenzio (a livello planetario) ci ha pensato Jake Hooker sul New York Times con un reportage che ricostruisce puntualmente i retroscena e le motivazioni reali che hanno spinto il regime o operare questo arresto. Ne esce uno spaccato completamente diverso da quello che avevano fornito le autorità di Pechino che, con una straordinaria operazione di immagine, avevano teso alla fine di maggio a presentare il paese mobilitato e nella solidarietà verso le vittime del terremoto.

Racconta Jake Hooker che Huang (45 anni, già vittima di un lungo periodo di detenzione dal 2000 al 2005) non si limitava a scrivere articoli critici. Stava lavorando insieme ai genitori dei ragazzi uccisi nei crolli degli edifici scolastici. Chiedeva l'apertura di una inchiesta che facesse emergere come le scuole fossero state costruite con materiali scadenti da imprenditori cinici protetti da funzionari locali del partito comunista corrotti.

Erano stati i padri di cinque ragazzi morti ad avvicinarlo e a chiedergli aiuto. Lui non si era tirato indietro e sul suo sito web aveva pubblicato un pezzo che domandava sostanzialmente due cose: la punizione dei responsabili e un adeguato risarcimento per le famiglie.

Non si pensi che si tratti di un'esagerazione, di una reazione emotiva. Questi crolli rappresentano realmente un enorme mistero tutto da chiarire : molte scuole si sono letteralmente sbriciolate mentre gli edifici che si trovavano accanto ad esse sono rimasti in piedi. Migliaia di ragazzi delle elementari e delle medie sono morti così, sotto una montagna di macerie.

Nei giorni immediatamente successivi al sisma le autorità avevano consentito ai reporter e ai volontari di raggiungere le zone disastrate e di avvicinare i parenti delle vittime. Anche noi in Italia abbiamo visto le immagini delle madri e dei padri dei ragazzi che piangevano disperati con la foto dei figli in mano. Molti commentatori avevano parlato di una svolta nel comportamento delle autorità cinesi, di un'inedita forma di trasparenza. Lo stesso Huang - riferisce Jake Hooker - in un'intervista alla radio si era detto ottimista su una nuova stagione di rispetto per i diritti umani.

Ma si trattava di una illusione. Una settimana dopo la pubblicazione dell'articolo, Huang Qi è stato prelevato da un gruppo di agenti in borghese. Alla famiglia è stato comunicato che era stato fermato perchè sospettato di "essersi impossessato di segreti di stato". Contemporaneamente ai genitori dei ragazzi morti è stato spiegato che dovevano farla finita con i loro "assembramenti" e le loro richieste: che si mettessero l'animo in pace e non disturbassero più le autorità.

Che cosa rischia adesso Huang? Il New York Times ci informa che potrebbe essere condannato a tre anni di galera. Intanto i suoi familiari e gli avvocati non hanno potuto avvicinarlo proprio in quanto "detentore di Segreti di Stato". Ovviamente gli uffici di polizia si sono rifiutati di parlare coi giornalisti occidentali affermando di non essere autorizzati a farlo.

Quello che non si è capito è se l'ordine di eseguire la cattura sia stato emesso dalle autorità locali o sia arrivato direttamente da Pechino come sosterrebbero alcuni testimoni. Ma nella Cina di questa vigilia olimpica anche questa indeterminatezza non deve stupire. Le accuse sono sempre generiche. La Glasnost cinese nel Sichuan è durata solo pochi giorni. Ci hanno fatto vedere un dirigente di partito in ginocchio davanti ai parenti delle vittime, ci hanno mostrato il premier Wen Jiabao al lavoro per coordinare i soccorsi. Quando i riflettori dei media si sono spenti si è tornati però subito ai vecchi metodi. Chi poneva legittimamente delle domande scomode è stato ridotto al silenzio.

Quello che ora conta per il regime è che fra una ventina i giorni i grandi del mondo saranno tutti lì a Pechino all'inaugurazione delle Olimpiadi a celebrare i grandi progressi raggiunti dalla Cina. E mentre si creeranno le condizioni per realizzare "ottimi affari" la questione dei diritti umani verrà ancora una volta rimandata a data da destinarsi.


Tratto da:
Cina, spenta la voce del blogger che cercava la verità sul terremoto di Roberto Reale
su
Articolo 21 Liberi di, Italia

Articoli di riferimento:
Spegniamo la fiaccola, spegniamo la televisione.



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Bagdad rifiuta la proposta americana sul futuro statuto dei militari USA


Tra John McCain, che vuole che l'America resti in Iraq "fino alla vittoria", e Barack Obama, che vuole richiamare il grosso delle truppe "da combattimento" attualmente stazionate nel paese (circa un terzo dei 146.000 soldati sul posto), Baghdad non vuole scegliere. In ogni caso, non immediatamente prima della cruciali elezioni che si terranno nel mese di ottobre per scegliere sindaci, governatori e "deputati" delle assemblee regionali in tutte le 18 province del paese. (continua a leggere)

Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, ha praticamente posto fine ai negoziati in materia sostenendo che l'accordo che codifica la presenza di forze americane in Iraq al di là del 31 dicembre, quando scadono le risoluzioni delle Nazioni Unite che dal 2003 la legalizzano, debba includere un "calendario per il ritiro" delle truppe straniere.

Il Presidente Bush ha ripetuto ancora una volta martedì che egli "respinge con forza" un "calendario artificiale per il ritiro." Di conseguenza, Ali Al-Dabbagh, portavoce del primo ministro, ha detto detto oggi che è "molto probabile" che un accordo a lungo termine (dieci anni almeno) sul futuro status delle forze (Statuto sull'Accordo delle Forze, comunenmente detto SOFA) "sia ritardato fino all'elezione di una nuova amministrazione" a Washington. Dopo cinque mesi di negoziati in materia, non è possibile per Baghdad firmare un semplice "accordo interinale", valido per un anno.

Questo approccio risponde alle esigenze dei Democratici americani. Nel suo "piano per l'Iraq" pubblicato lunedì 14 luglio sulla stampa americana e in parte ribadito martedì scorso, Barack Obama, che vuole "fermare la guerra" in questo paese, al fine di liberare truppe da inviare in Afghanistan, ritiene che l'appello di Maliki costituisca una "grande opportunità" per il suo paese per rivedere la sua strategia in Iraq. Il candidato democratico per le elezioni presidenziali di novembre "perfezionerà" la sua posizione dopo la visita che dovrebbe effettuare in loco.

A seguito del forte calo di incidenti armati giornalieri registrati sul terreno dopo la fine del 2007, non è escluso che diverse migliaia di soldati siano già ritirati dall'Iraq entro la fine dell'anno. Le discussioni sul SOFA sono in fase di stallo su diversi punti: l'amministrazione Bush vuole mantenere l'immunità di cui godono i suoi soldati e le migliaia di 'contractors' civili. Vuole continuare a monitorare lo spazio aereo iracheno, a preservare le decine di basi che occupa e a conservare il diritto di fermare qualsiasi cittadino iracheno "sospetto".

In un paese in cui il 70% della gente regolarmente domanda la partenza delle "truppe di occupazione", nessun governo può ovviamente accettare queste richieste. Ancor meno nel periodo pre-elettorale, quando tutti i partiti in competizione prendono posizioni nazionaliste. Il che non impedisce di portare avanti secondi fini. "I curdi, ha confessato di recente il ministro degli Interni, Jawad Al-Bolani, sul quotidiano saudita Asharq Al-Awsat, sono a favore del SOFA: in pubblico e nel privato. Gli Sciiti sono a favore pubblicamente, ma segretamente contro. Al contrario dei Sunniti che sono contrari in pubblico, ma segretamente a favore." Le negoziazioni riprenderanno nel 2009 con il nuovo ospite della Casa Bianca.


Tratto da:
Bagdad refuse le projet américain sur le futur statut des GI di P. Claude
su Le Monde.fr, Francia, 16 luglio 2008
Tradotto da Bruno Picozzi




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Cominciano in Georgia le esercitazioni dell'esercito USA


Gli Stati Uniti e la Russia stanno svolgendo contemporaneamente esercitazioni militari sui lati opposti delle montagne del Caucaso tra crescenti tensioni sulla sorte delle due regioni separatiste nella repubblica ex-sovietica della Georgia.

Un portavoce dell'esercito russo ha detto che quasi 8000 soldati russi hanno iniziato esercitazioni per la lotta contro il terrorismo martedì scorso, lungo tutta la regione russa a nord del Caucaso, che confina con la Georgia.

In Georgia, d'altra parte, secondo il ministero della difesa georgiano, un contingente di circa 1650 soldati di Stati Uniti, Georgia e di diversi altri paesi dell'Europa orientale ha iniziato esercitazioni nella base di Vaziani, una volta controllata dalla Russia. (
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Le tensioni tra la Georgia e la Russia sono aumentate vertiginosamente negli ultimi mesi, da quando Mosca ha aumentato il suo sostegno ad Abkhazia e Ossezia del Sud, le due regioni separatiste della Georgia.

Igor Konashenkov, portavoce dell'esercito russo, ha affermato che le esercitazioni russe sono state programmate un anno fa e "non sono in alcun modo collegate alle attività congiunte di USA e Georgia".

'Peacekeeping' alla russa

La rabbia di Mosca proviene anche dai passi intrapresi dalla Georgia per aderire alla NATO.

Nana Intskirveli, portavoce per il ministero della difesa georgiano, ha detto che le esercitazioni si svolgono sotto l'egida dell'alleanza militare.

Ha aggiunto che ufficiali armeni, azerbaigiani e ucraini anche prendono parte alle esercitazioni, che dureranno per un periodo di tre settimane.

Konashenkov ha detto che le esercitazioni russe sono state in parte destinate a preparare le forze per il lavoro di mantenimento della pace (peacekeeping) in Abkhazia e Ossezia del Sud.

"In connessione con l'aggravamento della situazione nei conflitti georgiano-abkhazo e georgiano-osseto... si lavorerà anche sulla partecipazione ad azioni specifiche per portare la pace in zone di conflitti armati", ha aggiunto.

Ha anche affermato che durante le esercitazioni verranno impiegati circa 700 mezzi di equipaggiamento militare.

La storia del conflitto in Ossezia del Sud

L’Ossezia è stata la prima regione del Caucaso occupata dalla Russia, nel 1774, ed è stata quasi completamente cristianizzata, benché nell’Ossezia del Nord sia sempre rimasta una minoranza islamica. A sud dell’Ossezia c’è la Georgia cristiana, a est l’Inguscezia e la Cecenia musulmane.
Le relazioni fra Ossezia e Inguscezia sono sempre state tese per ragioni religiose, e quelle fra Ossezia e Georgia per ragioni etniche (osseti e georgiani parlano lingue diverse).

Con la Rivoluzione bolscevica gli Osseti, ortodossi e fedeli alla tradizione della Santa Russia, si schierano in grande maggioranza contro la Rivoluzione e con l’Armata Bianca; gli Ingusci - sedotti, come i Ceceni, dalle promesse di Lenin di un’ampia autonomia per le regioni musulmane - combattono a fianco dei comunisti. La vittoria dell’Armata Rossa porta a sanguinosi massacri di Osseti da parte di truppe ingusce.

Con la Seconda guerra mondiale la situazione si rovescia. Un certo numero di musulmani del Caucaso si lascia sedurre dai proclami filo-islamici di Hitler e collabora con i Tedeschi. Gli Osseti ascoltano il richiamo di Stalin, che rispolvera la retorica della Santa Russia, e partecipano allo sforzo bellico sovietico. Ne seguono, dopo la guerra, massacri di Ingusci a opera di Osseti, la deportazione in Siberia di decine di migliaia di Ingusci, e la cessione dall’Inguscia all’Ossezia del distretto autonomo di Prigorodny, i cui abitanti ingusci deportati sono sostituiti da Osseti.

Con la riabilitazione dei popoli deportati da parte di Kruschev, gli Ingusci ritornano alle loro terre di origine, ma il distretto di Prigorodny rimane parte dell’Ossezia. Gli scontri continuano.
Nel 1989 l’Ossezia del Sud diventa una regione della Georgia, mentre l’Ossezia del Nord rimane nella Federazione Russa. L’Inguscezia si dota nel 1991 di un governo provvisorio non riconosciuto da Mosca, e nell’ottobre 1992, decisa a riprendersi con la forza il distretto di Prigorodny, attacca l’Ossezia del Nord. Dopo un mese di massacri, le truppe russe intervengono per ristabilire i confini (che lasciano Prigorodny all’Ossezia del Nord), ma i musulmani ingusci le accusano di solidarizzare con gli Osseti e di lasciar continuare le stragi. Nel frattempo l’Ossezia del Sud si dichiara indipendente dalla Georgia, con il risultato che oltre cinquantamila profughi fuggono nell’Ossezia del Nord, stabilendosi in gran parte proprio nel distretto di Prigorodny, a maggior danno degli Ingusci.

La tensione nella regione aumentò insieme all'incremento dei nazionalismi tra i Georgiani e gli Osseti nel 1989. Prima di allora, le due comunità avevano vissuto in pace con l'unica eccezione del conflitto del 1920. Entrambi i gruppi etnici avevano un alto livello di interazione ed un alto tasso di matrimoni interetnici. Nello stesso anno, l'influente Fronte Popolare dell'Ossezia del Sud (Ademon Nykhas) richiese l'unificazione con l'Ossezia del Nord come un mezzo per difendere l'autonomia Osseta.

Il 10 novembre1989, il Soviet Sopremo dell'Ossezia del Sud approvò la decisione di unire l'Ossezia del Sud con la repubblica autonoma dell'Ossezia del Nord, appartenente alla Russia. Il giorno dopo, il parlamento georgiano revocò la decisione ed abolì l'autonomia dell'Ossezia del Sud. Oltretutto, il parlamento autorizzò la soppressione dei quotidiani e delle dimostrazioni.

Dopo l'indipendenza della Georgia nel 1991, grazie al leader nazionalista Zviad Gamsakhurdia, il governo Georgiano dichiarò la lingua georgiana come l'unico idioma amministrativo permesso nel paese. Durante l'era sovietica invece, come lingua ufficiale della Repubblica socialista sovietica Georgiana vi erano il georgiano ed il russo, come assicurato dalle due costituzioni della URSS nel 1936 e nel 1979. La decisione del 1991 causò un forte sconcerto nell'Ossezia del Sud, i cui leaders chiesero che la lingua osseta diventasse l'idioma del loro stato.

La minoranza Osseta continuò a godere di un alto livello di autonomia, ma dovette confrontarsi con il crescente sentimento nazionalista della maggioranza Georgiana. Violenti scontri animarono la fine del 1991, durante i quali molti villaggi sudosseti furono attaccati e dati alle fiamme, così come subirono attacchi case e scuole georgiane a Tskhinvali, capoluogo dell'Ossezia del Sud. In conseguenza di questi scontri, circa 1.000 persone persero la vita e tra i 60.000 e i 100.000 profughi lasciarono la regione, rifugiandosi lungo il confine con l'Ossezia del Nord e nel resto della Georgia. Molti profughi furono accolti nelle aree disabitate dell'Ossezia del Nord, dalle quali Stalin attuò l'espulsione degli Ingusci nel 1944, a risoluzione del conflutto tra Osseti ed Ingusci. Solo il 15% della popolazione Osseta vive oggi nell'Ossezia del Sud'

Nel 1992, la Georgia è stata costretta ad accettare un "cessate il fuoco" per evitare uno scontro a larga scala con la Russia. Il governo georgiano e i separatisti dell'Ossezia del Sud raggiunsero un accordo per evitare l'uso della forza tra di loro, e la Georgia scelse di non applicare sanzioni contro la regione. Fu istituita una forza di peacekeeping costituita da Osseti, Russi e Georgiani. Il 6 novembre1992 l'OSCE organizzò una missione in Georgia per monitorare le operazioni di peacekeeping.

Dal cessate il fuoco del 1993 a oggi, sia in Abkazia che in Ossezia del Sud non sono mai cessati sporadici scontri tra militari georgiani e milizie separatiste. In Abkazia queste violenze hanno provocato almeno 1.500 morti; in Ossezia del Sud oltre un centinaio, concentrati nell’estate del 2004, che ha visto una forte escalation del conflitto.

Nel giugno 2004, è riesplosa la tensione quando le autorità georgiane hanno aumentato gli sforzi per combattere il contrabbando nella regione. Prese di ostaggi, sparatorie e occasionali bombardamenti hanno lasciato decine di morti e feriti. Un cessate il fuoco fu raggiunto il 13 agosto, ma è stato ripetutamente violato.

Oggi l’Ossezia del Sud è di fatto uno Stato indipendente, non riconosciuto dalle Nazioni Unite ma dove le truppe georgiane non riescono a penetrare, grazie anche al sostegno che gli Osseti del Sud ricevono dalla Russia. Se si considera che per la zona passa uno dei maggiori oleodotti del mondo, che porta il petrolio dell’Azerbaijan verso la Georgia e la Russia, si comprendono le pressioni americane per portare al tavolo delle trattative Russi, Georgiani e osseti del Sud. Ma è difficile che il problema dell’Ossezia del Sud si risolva senza la pace in Ossezia del Nord.

Nell'ultimo anno la Georgia ha acquistato i bombardieri militari SU-25 dalla Repubblica di Macedonia e dalla Bulgaria e gli elicotteri Mi-8 dall'Ucraina. Queste armi sono state trasportate con l'aiuto dei marines statunitensi. Il governo georgiano protesta contro la continua crescita economica della Russia e la sua presenza politica nella regione, così come pure con la presenza incontrollata di militari nell'Ossezia del Sud.

Tratto da:
US army exercises begin in Georgia
su
Aljazeera, Qatar, 15 luglio 2008
Scheda conflitto Georgia - Abkhazia/Ossezia del Sud
su
peacereporter, Italia, 29 gennaio 2007
Il conflitto Georgiani-Osseti
su
Wikipedia, Italia
Tradotto da Bruno Picozzi

Articoli di riferimento:

Aria di guerra tra Georgia e Ossezia



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martedì 15 luglio 2008

Atene-Skopje: nuova escalation di toni sul nome "Macedonia" Atene-Skopje: nuova escalation di toni sul nome "Macedonia"


In una lettera il governo macedone rivendica i diritti di appartenenza di una minoranza in territorio greco.

Nuova escalation nella crisi tra Grecia ed Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia dopo l'invio di una lettera, da parte del primo ministro di Skopje, in cui si rivendica il riconoscimento di una presunta minoranza etnica macedone in territorio greco. Nella missiva del governo macedone si invoca il diritto alla proprietà degli attuali cittadini macedoni fuggiti dal paese vicino durante la Guerra Civile (1946-49) (continua a leggere)

"Il portavoce del governo di Atene, Theodoros Roussopoulos, ha risposto alla lettera di Nikola Gruevski, indirizzata al premier Costas Karamanlis, definendo «inaccettabili» le affermazioni di Skopje, accusata di voler deviare l’attenzione mentre sono in corso colloqui a New York, sotto l’egida dell’Onu, per tentare di risolvere la crisi del nome "Macedonia".

Roussopoulos, citato stamani da tutti i media, ha respinto le affermazioni di Gruevski su «minoranze inesistenti», accusandolo di tentare di sollevare «nuovi ostacoli nel processo negoziale in atto». Il portavoce ha annunciato una prossima risposta ufficiale di Karamanlis a Gruevski.

Il quadro della situazione

Per entrambi i contendenti si tratta di una questione politica di principio che sconfina largamente nel nazionalismo.

La Macedonia fu riconosciuta nel 1993 dall’Onu con il nome "Fyrom", acronimo di Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, ed aspira ad entrare nell’Ue e nella Nato.
Fu la Grecia ad opporsi alla volontà della Macedonia di chiamarsi in quanto tale. Atene infatti ritiene che il nome Macedonia sia intrinsecamente 'ellenico' e parte integrante della eredità culturale greca. L'opposizione di Atene si estende anche al nome del gruppo etnico e della lingua dello Stato vicino.

Per Skopje si tratta ovàviamente di un problema di autodeterminazione e di identificazione culturale. I Macedoni sentono violato il proprio diritto di autodeterminazione nel momento in cui i Greci vietano loro la possibilità di darsi il nome desiderato e che indentifica culturalmente l'intera nazione.

I Greci chiamani gli abitanti della nazione vicina Slavo-macedoni e guardano invece al nome politico Macedonia come il primo passo verso la rivendicazione dell'intera area geografica denominata Macedonia, gran parte della quale si trova in territorio greco. Sarebbe questa quindi una violazione dei diritti dei Greco-macedoni.

Il dibattito si sposta quindi sulla storia e sul regno di Alessandro il Macedone, comunemente conosciuto come Alessandro Magno, il quale estese il suo dominio fino ai confini dell'India partendo da un piccolo regno nell'attuale territorio della Macedonia greca. I Greci nazionalisti sottolineano che i popoli slavi che abitano attualmente la Fyrom arrivarono in quei luoghi dopo la disparizione del grande regno macedone.


Tratto da:
Atene-Skopje: nuova escalation di toni sul nome "Macedonia"
su
La Stampa.it, Italia, 15 luglio 2008
Macedonia naming dispute
su
Wikipedia in English



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Il Primo Ministro belga presenta le dimissioni


Il Primo Ministro belga Yves Leterme ha offerto al Re le dimissioni del suo governo dopo aver fallito nel portare a compimento le riforme politiche necessarie.

Il Primo Ministro avrebbe dovuto presentare un accordo sulla riforma dello Stato in un discorso al Parlamento questo martedì.

Re Alberto II non ha ancora deciso se accettare o meno le dimissioni. (continua a leggere)

"Leterme aveva fissato al 15 luglio la data limite per riuscire ad approvare una maggiore decentralizzazione del potere verso le regioni.

Prima delle elezioni generali del giugno scorso Leterme aveva promesso ai suoi sostenitori ancora più poteri devoluti ai governi regionali, in uno Stato che è già il più decentrato d'Europa.

Nella Vallonia francofona - dove la disoccupazione è più elevata e l'economia stagnante - ci sono stati timori che questo avrebbe potuto peggiorare la situazione.

Leterme era entrato in carica nel mese di marzo - dopo nove mesi di stallo politico - a capo di una coalizione mista di partiti di lingua fiamminga (olandese) e francese: i cristiano-democratici settentrionali fiamminghi di Leterme e i socialisti francofoni meridionali della Vallonia.

Costituzionalmente - e praticamente - un'amministrazione in Belgio deve includere i membri di entrambi i gruppi linguistici che si dividono il Paese.

Il quadro della situazione

In Belgio le due comunità, Valloni e Fiamminghi, sembrano esistere fianco a fianco, ma con poca interazione.

Non ci sono giornali, radio o stazioni televisive nazionali, presenti in entrambe le regioni del Belgio. Nessun singolo partito attraversa la barriera linguistica e geografica tra le due regioni.

Lo stesso Primo Ministro Yves Leterme ha affermato che è solo il re, l'amore per la birra e la squadra di calcio che unisce i Belgi - e la squadra di calcio non è stata nulla di eccezionale negli ultimi anni.

Leterme ha anche descritto il Belgio come "un incidente della storia" con "nessun valore intrinseco", per poi descrivere i francofoni come gente a cui "manca la capacità mentale per imparare il fiammingo".

Yves Leterme dei cristiano-democratici fiamminghi è diventato primo ministro belga lo scorso marzo, al posto di Guy Verhofstadt, caduto dopo nove anni in carica.
Tradizionalmente il Primo Ministro proviene da uno dei partiti di maggioranza fiamminga.

Ma i negoziati che hanno portato alla formazione di questo governo di coalizione sono stati a lunghi e tortuosi.

Il punto chiave da superare è stato la riforma costituzionale.

Leterme, uscito chiaramente vincitore dalle elezioni nel giugno dello scorso anno, aveva promesso ai suoi sostenitori un reale e significativo cambiamento.

Pur essendo il Belgio lo stato più decentralizzato d'Europa, egli aveva promesso di passare ancora più poteri dal governo federale alle regioni.

Questione di soldi

Ma mentre vi è un forte appoggio alla decentralizzazione nelle Fiandre di lingua olandese, a nord del paese, i francofoni in Vallonia, a sud, sono rimasti piuttosto rigidi.

La loro regione è molto più povera, con la disoccupazione in aumento e un'economia che balbetta.

Alcuni temono che la "riforma costituzionale" sia un modo di ridurre la quantità di denaro che si trasferisce dalla ricca regione fiamminga alla impoverita Vallonia.

Da parte loro, i politici fiamminghi sostengono che è giusto che abbiano voce in capitolo sul modo in cui parte di questo denaro viene speso. Si chiedono perché tocchi a loro sovvenzionare le politiche economiche e un elevato tasso di disoccupazione in Vallonia.


Tratto da:
New Belgian PM faces rocky road di Dominic Hughes
su
BBCNEWS, Regno Unito, 20 marzo 2008
Belgian PM offers his resignation
su
BBCNEWS, Regno Unito, 15 luglio 2008
traduzione di Bruno Picozzi


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venerdì 11 luglio 2008

La Corea del Sud propone a Pyonyang di riannodare un "dialogo completo"


Il Presidente sud-coreano si avvicina alla Corea del Nord per la prima volta da quando ha vinto le elezioni a febbraio 2008

Le martoriate relazioni tra le due Coree possono migliorare a partire dal passo compiuto dal governo sudcoreano. Il suo presidente, il conservatore Lee Myung-bak, ha proposto alla Corea del Nord di riprendere un "dialogo globale" per promuovere la riconciliazione tra i due paesi.

In un discorso in Parlamento, Lee ha ribadito la necessità di riprendere un immediato dialogo per affrontare la denuclearizzazione, il rispetto degli accordi raggiunti al vertice intercoreano e la cooperazione umanitaria. (
continua a leggere)

"La massima priorità della mia amministrazione riguardo alla politica verso la Corea del Nord è quello di garantire la sua denuclearizzazione e aprire la strada a relazioni reciprocamente vantaggiose e alla prosperità delle due Coree", ha sottolineato il presidente della Corea del Sud.

Le relazioni tra le due Coree hanno subito una battuta d'arresto con l'inizio del mandato del conservatore Lee il 25 febbraio scorso, condizionando il progresso della denuclearizzazione di Pyongyang. Tuttavia il discorso di Lee, secondo gli analisti locali, presagisce un cambiamento a Seul sulla politica verso la Corea del Nord quando saranno riuniti a Pechino i negoziatori del gruppo dei sei per cercare di far progredire il processo di denuclearizzazione della Corea del Nord.

Lee ha dimostrato la sua disponibilità a tenere consultazioni con Pyongyang per vedere come rendere effettivi gli accordi raggiunti tra le due Coree, incluse le dichiarazioni congiunte adottate in occasione dei vertici intercoreani svoltisi nel 2000 e nel 2007. Quindi Seul ha espresso la volontà di cooperare su questioni umanitarie come ad esempio gli aiuti alimentari alla Corea del Nord, così come per risolvere il problema dei prigionieri di guerra e delle famiglie separate dalla Guerra di Corea (1950-1953).

Martedì scorso, la Corea del Nord ha accusato Lee di negare gli accordi raggiunti nel corso dei due vertici intercoreani del 2000 e 2007 e ha invitato Seul a chiarire la sua posizione. Tali vertici, tenutosi sotto il mandato dei presidenti sud-coreani Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun, hanno aperto il processo di riconciliazione tra le due Coree dopo più di mezzo secolo di ostilità tra i due paesi.


Tratto da:
Corea del Sur propone a Pyongyang reanudar un "diálogo completo"
su
EL PAIS.com, Spagna, 11 luglio 2008
Traduzione di Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
I rapporti tra le due Coree
Binario, mai più solitario


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mercoledì 9 luglio 2008

La politica europea in materia di immigrazione preoccupa Africa e America Latina


La stretta politica sull'immigrazione in Europa crea reazioni nei paesi del sud del mondo. A capo dell'Unione europea, la Francia, attraverso il suo ministro per l'immigrazione Brice Hortefeux, ha presentato lunedì 7 luglio il Patto in materia di immigrazione ai suoi colleghi europei, che prevede la regolamentazione dell'immigrazione legale e la lotta contro l'immigrazione clandestina. Il testo è stato approvato e dovrebbe essere adottato il prossimo ottobre in occasione del Consiglio Europeo. (continua a leggere)

La "direttiva ritorno" votata dal Parlamento Europeo il 18 giugno rafforza l'arsenale repressivo dei paesi europei estendendo, in particolare, la durata della detenzione di stranieri senza documenti. In America Latina numerosi capi di stato sono insorti contro questo testo: dalla Bolivia all'Argentina, il testo ha provocato un clamore unanime. E alcuni, come il Venezuela, hanno minacciato di reciprocità i cittadini dell'Unione europea. Tuttavia senza passare dalle parole ai fatti.

In Bolivia, René Crespo Flores, responsabile della politica presso il giornale El Diario, è "molto preoccupata" dalla situazione dei Boliviani privi di documenti in Europa. Pensa che i propositi di Evo Morales contro questo testo sono un "semplice annuncio" e che la Bolivia sa che l'Unione Europea non farà marcia indietro. Ma il governo auspica che le misure non saranno così radicali come previsto. La stessa denuncia anche in Argentina, dove Mercedes Merono, dell'associazione Madri di Piazza di Maggio, giudica la direttiva europea "barbara, terribile, ingiusta e xenofoba".

NON IMPEDIRANNO L'INGRESSO A NESSUNO

Le minacce contro la Francia e l'Unione Europea non sono solo parole. In Gabon le relazioni diplomatiche con la Francia si sono incrinate anche prima della "direttiva ritorno". Nel marzo 2008, dopo l'espulsione di due studenti gabonesi, il Gabon ha applicato il principio di reciprocità espellendo due francesi. Ma per Pierre-Eric Mbog Batassi, giornalista gabonese a Afrik.com, dopo il "colpo a freddo" la situazione è tornata alla normalità.

In Mali, il SADI (Solidarietà Africana per la Democrazia e l'Indipendenza), all'opposizione, ha condannato con forza il testo. Oumar Mariko, presidente della commissione per gli affari esteri dell'Assemblea nazionale, ha detto che i paesi africani non possono "incrociare le braccia" nell'affrontare questa situazione. E denuncia un'Europa che si "fascistizza".

Ma in Mali, come in altri Stati africani, il potere non prevede di imporre sanzioni nei confronti degli immigrati europei. Oumar Mariko avverte che questa tendenza dell'Unione Europea ad inasprire le leggi sull'immigrazione può creare un senso di xenofobia anti-europea.


Tratto da:
La politique d'immigration européenne inquiète en Afrique et en Amérique latine di Laura Marzouk
su Le Monde.fr, Francia, 8 luglio 2008
Tradotto da Bruno Picozzi




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lunedì 7 luglio 2008

I leader africani chiedono al G8 di onorare le promesse di aiuto


TOYAKO, Japan, 7 luglio (Reuters) – I leader africani hanno esortato le otto nazioni più ricche del mondo a mantenere le promesse di aiutare il continente africano e gli hanno chiesto di ricordare che l'impennata del prezzo del petrolio e dei prodotti alimentari sta peggiorando la loro condizione di povertà.

Il G8 è stato accusato dagli attivisti di rinnegare la promessa fatta al vertice del 2005 a Gleneagles, in Scozia, di raddoppiare gli aiuti contro la povertà entro il 2010 fino alla cifra di 50 miliardi di dollari, di cui la metà dovrebbe andare in Africa. (continua a leggere)

Alcuni leader africani hanno voluto sottolineare che, pur apprezzando l'impegno di aiutare l'Africa preso dai leader del G8 negli ultimi vertici, a questo punto vorrebbero vedere questi impegni pienamente attuati", ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri giapponese Kazuo Kodama.

"Essi hanno anche inviato un messaggio per dire che vorrebbero davvero non vedere passi indietro da parte dei leader del G8 sugli impegni presi."

La questione della povertà africana è in cima all'ordine del giorno della tre-giorni del G8 in Giappone. Essa è strettamente collegata all'aumento dei prezzi degli alimenti e dei prezzi del carburante e al controverso argomento di come combattere il riscaldamento globale, che i leader affronteranno più avanti nel corso della settimana.

Citando un comunicato ufficiale dei leader del G8, il quotidiano giapponese Yomiuri lunedì ha riferito in merito che essi avrebbero definito l'aumento dei prezzi degli alimentari e del petrolio una "grave minaccia".

Il Giappone ha invitato i leader di Algeria, Etiopia, Ghana, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Tanzania a partecipare alla giornata di discussione in un hotel di lusso avvolto nella nebbia sull'isola settentrionale di Hokkaido.

"I leader africani hanno chiesto al G8 di aiutare coloro che sono colpiti in maniera significativa dal rialzo dei prezzi del petrolio, per esempio mostrando la forza della loro leadership nei colloqui con i paesi OPEC", ha detto un addetto giapponese dopo la riunione.

MIGLIORE SORVEGLIANZA

Il Presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, che è stato presente ai colloqui, ha detto che i leader hanno discusso un sistema per meglio monitorare gli aiuti al fine di garantire che gli impegni siano rispettati.

"C'è stato il desiderio di avere la maggiore disponibilità da entrambe le parti relativamente alla risoluzione. Quindi, vi è stato un certo movimento verso l'idea che le riunioni del G8 possano trattare con la Commissione dell'Unione Africana", ha detto Zoellick.

"I paesi devono mantenere le loro promesse, e questo è stato il tono generalmente accettato durante la discussione", ha detto in una conferenza stampa.

Una relazione pubblicata il mese scorso dall'Africa Progress Panel, istituito per monitorare l'attuazione degli impegni di Gleneagles, ha detto che secondo gli attuali piani di spesa mancano al G8 40 miliardi di dollari per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Quest'anno segna la metà strada verso il raggiungimento degli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) fissati dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2000 per ridurre la povertà nel mondo entro il 2015.

Secondo gli attivisti, col grano a prezzi raddoppiati dal gennaio 2006, l'Africa ha bisogno di aiuti maggiori, non minori.

Un primo studio della Banca Mondiale pubblicato la settimana scorsa stima che fino a 105 milioni di persone in più potrebbe cadere al di sotto della soglia di povertà a causa dell'aumento dei prezzi degli alimentari, tra i quali 30 milioni di persone in Africa.

Secondo questo studio, in Liberia il costo del cibo per una famiglia media è aumentato del 25% solo nel mese di gennaio, portando il tasso di povertà dal 64% a oltre il 70%.

Max Lawson, consulente politico Oxfam, una ONG britannica, ha detto che il vertice è stato probabilmente il più importante incontro del G8 negli ultimi dieci anni.

"Il mondo è chiaramente esposto a molteplici crisi, a gravi, gravi problemi economici, sia nei paesi ricchi che nei paesi poveri. Ma è la povera gente che soffre maggiormente, per lo più a causa degli aumenti di prezzo dei generi alimentari", ha detto Lawson ai giornalis.

IL G8

Il G8 comprende Stati Uniti, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Germania, Canada, Italia e Russia.

Molti critici e persino alcuni paesi membri suggeriscono che il G8, formato nel 1975 con soli sei membri in seguito alla prima crisi petrolifera, dovrebbe espandersi fino a comprendere le grandi nazioni in via di sviluppo per meglio rappresentare il mondo.

Lunedì centinaia di manifestanti provenienti dal Giappone e altri paesi hanno marciato sotto una fitta pioggia verso la sede del vertice, portando cartelli contro l'accogliente club delle nazioni ricche.

Pesanti misure di sicurezza ha fatto sì che i manifestanti siano stati tenuti a diversi chilometri di distanza. Due gruppi hanno cercato di prendere strade non autorizzate ma sono stati respinti da decine di poliziotti.

Il surriscaldamento del pianeta sarà mercoledì al centro di una riunione estesa a Cina e India, due economie in rapida crescita che producono sempre più gas a effetto serra.

Ma profonde divisioni all'interno del G8 e tra paesi ricchi e paesi poveri hanno sollevato dubbi circa le possibilità di fare progressi al di là del vertice dello scorso anno, in cui il G8 ha convenuto di "prendere in seria considerazione" un obiettivo globale di dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.

L'Unione Europea e i gruppi verdi stanno facendo pressione sugli Stati Uniti, riluttanti ad accettare un obiettivo globale di dimezzamento delle emissioni di gas serra entro la metà del secolo, e sostengono il bisogno di avere obiettivi in merito anche per il 2020 per tutti paesi ricchi.


Tratto da:
African leaders call on G8 to honour aid pledge da Reuters
su
Reuters AlertNet, Regno Unito, 7 luglio 2008
Tradotto da Bruno Picozzi



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venerdì 4 luglio 2008

Aria di guerra tra Georgia e Ossezia


Aria di guerra tra Georgia e Ossezia.

E’ salita improvvisamente la tensione nel Caucaso, tra la Georgia e la repubblica separatista dell’Ossezia, appoggiata da Mosca. L’artiglieria georgiana ha aperto il fuoco contro la principale città della regione, Tskhinvali e i villaggi vicini. Almeno tre persone sono state uccise e una decina sono rimaste ferite.

Il governo osseto, autoproclamato, ha dichiarato la mobilitazione generale e si preparerebbe a rispondere a quello che viene considerato un attacco deliberato della Georgia. Il governo di Tiblisi, invece, dice di avere reagito a un attacco delle milizie ossete contro un check point dell’esercito georgiano. (
continua a leggere)
L’Ossezia, assieme all’Abkhazia, nel nord, è una delle due regioni separatiste della Georgia, appoggiate da Mosca, che mantiene un contingente militare tanto nell’una quanto nell’altra. Il Cremlino ha condannato il bombardamento georgiano e ha ricordato al governo di Tiblisi che la Georgia ha firmato un trattato di non-aggressione verso le due repubbliche separatiste.

La storia del conflitto in Ossezia del Sud

L’Ossezia è stata la prima regione del Caucaso occupata dalla Russia, nel 1774, ed è stata quasi completamente cristianizzata, benché nell’Ossezia del Nord sia sempre rimasta una minoranza islamica. A sud dell’Ossezia c’è la Georgia cristiana, a est l’Inguscezia e la Cecenia musulmane.
Le relazioni fra Ossezia e Inguscezia sono sempre state tese per ragioni religiose, e quelle fra Ossezia e Georgia per ragioni etniche (osseti e georgiani parlano lingue diverse).

Con la Rivoluzione bolscevica gli Osseti, ortodossi e fedeli alla tradizione della Santa Russia, si schierano in grande maggioranza contro la Rivoluzione e con l’Armata Bianca; gli Ingusci - sedotti, come i Ceceni, dalle promesse di Lenin di un’ampia autonomia per le regioni musulmane - combattono a fianco dei comunisti. La vittoria dell’Armata Rossa porta a sanguinosi massacri di Osseti da parte di truppe ingusce.

Con la Seconda guerra mondiale la situazione si rovescia. Un certo numero di musulmani del Caucaso si lascia sedurre dai proclami filo-islamici di Hitler e collabora con i Tedeschi. Gli Osseti ascoltano il richiamo di Stalin, che rispolvera la retorica della Santa Russia, e partecipano allo sforzo bellico sovietico. Ne seguono, dopo la guerra, massacri di Ingusci a opera di Osseti, la deportazione in Siberia di decine di migliaia di Ingusci, e la cessione dall’Inguscia all’Ossezia del distretto autonomo di Prigorodny, i cui abitanti ingusci deportati sono sostituiti da Osseti.

Con la riabilitazione dei popoli deportati da parte di Kruschev, gli Ingusci ritornano alle loro terre di origine, ma il distretto di Prigorodny rimane parte dell’Ossezia. Gli scontri continuano.
Nel 1989 l’Ossezia del Sud diventa una regione della Georgia, mentre l’Ossezia del Nord rimane nella Federazione Russa. L’Inguscezia si dota nel 1991 di un governo provvisorio non riconosciuto da Mosca, e nell’ottobre 1992, decisa a riprendersi con la forza il distretto di Prigorodny, attacca l’Ossezia del Nord. Dopo un mese di massacri, le truppe russe intervengono per ristabilire i confini (che lasciano Prigorodny all’Ossezia del Nord), ma i musulmani ingusci le accusano di solidarizzare con gli Osseti e di lasciar continuare le stragi. Nel frattempo l’Ossezia del Sud si dichiara indipendente dalla Georgia, con il risultato che oltre cinquantamila profughi fuggono nell’Ossezia del Nord, stabilendosi in gran parte proprio nel distretto di Prigorodny, a maggior danno degli Ingusci.

La tensione nella regione aumentò insieme all'incremento dei nazionalismi tra i Georgiani e gli Osseti nel 1989. Prima di allora, le due comunità avevano vissuto in pace con l'unica eccezione del conflitto del 1920. Entrambi i gruppi etnici avevano un alto livello di interazione ed un alto tasso di matrimoni interetnici. Nello stesso anno, l'influente Fronte Popolare dell'Ossezia del Sud (Ademon Nykhas) richiese l'unificazione con l'Ossezia del Nord come un mezzo per difendere l'autonomia Osseta.

Il 10 novembre1989, il Soviet Sopremo dell'Ossezia del Sud approvò la decisione di unire l'Ossezia del Sud con la repubblica autonoma dell'Ossezia del Nord, appartenente alla Russia. Il giorno dopo, il parlamento georgiano revocò la decisione ed abolì l'autonomia dell'Ossezia del Sud. Oltretutto, il parlamento autorizzò la soppressione dei quotidiani e delle dimostrazioni.

Dopo l'indipendenza della Georgia nel 1991, grazie al leader nazionalista Zviad Gamsakhurdia, il governo Georgiano dichiarò la lingua georgiana come l'unico idioma amministrativo permesso nel paese. Durante l'era sovietica invece, come lingua ufficiale della Repubblica socialista sovietica Georgiana vi erano il georgiano ed il russo, come assicurato dalle due costituzioni della URSS nel 1936 e nel 1979. La decisione del 1991 causò un forte sconcerto nell'Ossezia del Sud, i cui leaders chiesero che la lingua osseta diventasse l'idioma del loro stato.

La minoranza Osseta continuò a godere di un alto livello di autonomia, ma dovette confrontarsi con il crescente sentimento nazionalista della maggioranza Georgiana. Violenti scontri animarono la fine del 1991, durante i quali molti villaggi sudosseti furono attaccati e dati alle fiamme, così come subirono attacchi case e scuole georgiane a Tskhinvali, capoluogo dell'Ossezia del Sud. In conseguenza di questi scontri, circa 1.000 persone persero la vita e tra i 60.000 e i 100.000 profughi lasciarono la regione, rifugiandosi lungo il confine con l'Ossezia del Nord e nel resto della Georgia. Molti profughi furono accolti nelle aree disabitate dell'Ossezia del Nord, dalle quali Stalin attuò l'espulsione degli Ingusci nel 1944, a risoluzione del conflutto tra Osseti ed Ingusci. Solo il 15% della popolazione Osseta vive oggi nell'Ossezia del Sud'

Nel 1992, la Georgia è stata costretta ad accettare un "cessate il fuoco" per evitare uno scontro a larga scala con la Russia. Il governo georgiano e i separatisti dell'Ossezia del Sud raggiunsero un accordo per evitare l'uso della forza tra di loro, e la Georgia scelse di non applicare sanzioni contro la regione. Fu istituita una forza di peacekeeping costituita da Osseti, Russi e Georgiani. Il 6 novembre1992 l'OSCE organizzò una missione in Georgia per monitorare le operazioni di peacekeeping.

Dal cessate il fuoco del 1993 a oggi, sia in Abkazia che in Ossezia del Sud non sono mai cessati sporadici scontri tra militari georgiani e milizie separatiste. In Abkazia queste violenze hanno provocato almeno 1.500 morti; in Ossezia del Sud oltre un centinaio, concentrati nell’estate del 2004, che ha visto una forte escalation del conflitto.

Nel giugno 2004, è riesplosa la tensione quando le autorità georgiane hanno aumentato gli sforzi per combattere il contrabbando nella regione. Prese di ostaggi, sparatorie e occasionali bombardamenti hanno lasciato decine di morti e feriti. Un cessate il fuoco fu raggiunto il 13 agosto, ma è stato ripetutamente violato.

Oggi l’Ossezia del Sud è di fatto uno Stato indipendente, non riconosciuto dalle Nazioni Unite ma dove le truppe georgiane non riescono a penetrare, grazie anche al sostegno che gli Osseti del Sud ricevono dalla Russia. Se si considera che per la zona passa uno dei maggiori oleodotti del mondo, che porta il petrolio dell’Azerbaijan verso la Georgia e la Russia, si comprendono le pressioni americane per portare al tavolo delle trattative Russi, Georgiani e osseti del Sud. Ma è difficile che il problema dell’Ossezia del Sud si risolva senza la pace in Ossezia del Nord.

Nell'ultimo anno la Georgia ha acquistato i bombardieri militari SU-25 dalla Repubblica di Macedonia e dalla Bulgaria e gli elicotteri Mi-8 dall'Ucraina. Queste armi sono state trasportate con l'aiuto dei marines statunitensi. Il governo georgiano protesta contro la continua crescita economica della Russia e la sua presenza politica nella regione, così come pure con la presenza incontrollata di militari nell'Ossezia del Sud.


Tratto da:
Aria di guerra tra Georgia e Ossezia
su
Carta, Italia, 4 luglio 2008
Scheda conflitto Georgia - Abkhazia/Ossezia del Sud
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peacereporter, Italia, 29 gennaio 2007
Il conflitto Georgiani-Osseti
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Wikipedia, Italia



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giovedì 3 luglio 2008

Due articoli su Ingrid Betancourt


Dopo sei anni è giunto al termine l’incubo di Íngrid Betancourt: con uno stratagemma l’esercito colombiano ha liberato la candidata alla presidenza insieme ad altri ostaggi detenuti dai ribelli delle FARC. All’aeroporto di Bogotá Betancourt ha riabbracciato la madre e rilasciato le prime dichiarazioni.

La cronaca di ieri


Dopo sei anni di prigionia, l’ostaggio più famoso dell’oragnizzazione ribelle colombiana FARC, Íngrid Betancourt, è stata liberata. Secondo le dichiarazioni del governo colombiano, la quarantaseienne franco-colombiana, tre cittadini statunitensi ed altri undici ostaggi sarebbero stati liberati dall’esercito in seguito ad un’operazione dei servizi segreti. (
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Dopo essere stati liberati, gli ostaggi hanno raggiunto in aereo l’aeroporto di Bogotá, dove Betancourt ha potuto riabbracciare la madre ed il marito. “È un miracolo” ha dichiarato. La notizia della liberazione degli ostaggi senza spargimenti di sangue ha fatto gioire il mondo intero. Betancourt, che indossava una giacca militare, è stata la prima a scendere dall’aereo del presidente colombiano Álvaro Uribe. Sorridendo ha abbracciato la madre Yolanda Pulecio ed il marito Juan Carlos Lecompte.

“Ringrazio Dio ed i soldati colombiani” ha dichiarato la quarantaseienne all’emittente radiofonica dell’esercito colombiano Caracol. L’operazione di liberazione degli ostaggi si sarebbe svolta “senza alcun intoppo. Credo che questo sia un segnale di pace per la Colombia.”

Ancora in aeroporto, Betancourt ha descritto nei dettagli l’operazione di liberazione. Né lei, né gli altri quattordici ostaggi avrebbero saputo che l’equipaggio dell’elicottero che avrebbe dovuto trasferirli in un altro accampamento dei ribelli fosse in realtà composto da soldati dell’esercito colombiano infiltrati nell’organizzazione ribelle, ha riferito.

I soldati erano vestiti e parlavano come guerriglieri. Solo quando l’elicottero si è finalmente alzato in volo uno dei soldati le avrebbe detto: “Siamo dell’esercito colombiano. Siete liberi!”
L’elicottero avrebbe addirittura rischiato di precipitare a causa dei salti di gioia degli ostaggi, ha aggiunto Betancourt. “Abbiamo gridato, pianto e ci siamo abbracciati. Non riuscivamo a crederci. È un miracolo”. E con un sorriso sulle labbra ha aggiunto: “Grazie Colombia, grazie Francia”.

Le condizioni di salute della quarantaseienne sembrano buone. Un video diffuso alla fine di Novembre scorso ritraeva una Betancourt estremamente magra seduda su una panca di legno nella giungla. Inoltre, secondo alcuni resoconti, durante la prigionia la franco-colombiana avrebbe contratto l’epatite B ed una malattia della pelle.

La liberazione degli ostaggi ha avuto luogo nella foresta della provincia di Guaviare nel sud-est del Paese, ha riferito il ministro della difesa colombiano Juan Manuel Santos in una conferenza stampa. Secondo quanto da lui dichiarato, alcuni agenti sarebbero riusciti ad infiltrarsi nelle “cerchie più alte” delle FARC.

Gli agenti sotto copertura sarebbero riusciti a far riunire gli ostaggi, inizialmente separati in tre gruppi, con un falso ordine del comandante delle FARC Alfonso Cano. Successivamente gli infiltrati avrebbero fatto credere ai guerriglieri delle FARC che Cano avesse disposto il trasferimento degli ostaggi in un campo nel Sud del Paese. Quindi gli ostaggi sarebbero stati imbarcati su di un elicottero in realtà appartenente all’esercito, ha riferito Santos.

La prigionia di Betancourt iniziò nel Febbraio 2002. I tre cittadini statunitensi liberati insieme a lei, Marc Gonsalves, Thomas Howes e Kieth Stansell, impiegati presso la multinazionale delle armi Northrop Grumman furono catturati nel 2003. Dopo la liberazione hanno proseguito in aereo da Bogotá a San Antonio in Texas.

Il pensiero di Gennaro Carotenuto


Il primo pensiero è di allegria, allegria per Ingrid Betancourt e per gli altri 14 sequestrati liberati, tra i quali tre mercenari statunitensi, che in qualunque altro conflitto al mondo sarebbero stati da tempo passati per le armi.

Il secondo pensiero è perchè non si spenga la luce sulle centinaia di ostaggi che restano nella selva nelle mani delle FARC. Si vedrà se l’interesse dei benpensanti europei per la selva colombiana era genuino o era solo figlio del colonialismo mentale e razzista con il quale l’Europa guarda ai drammi del Sud del mondo. Se le luci sulla selva si spegneranno dovremo amaramente concludere una volta di più che è così, che la benpensante Europa si mobilita solo se qualcuno buca lo schermo. Altrimenti se ne frega.

Il terzo pensiero è per Álvaro Uribe, apparente trionfatore della giornata di oggi. La giornata per lui si era aperta nel peggiore dei modi, come si era aperta la settimana, il mese, l’anno. La Corte Suprema, con parole insolitamente dure, aveva preteso il rispetto delle proprie decisioni da parte del Presidente che non accetta che la sua stessa rielezione, nel 2006, sia stata viziata dalla corruzione nella forma e nella sostanza e che potrebbe perfino essere annullata.

Se è presumibile che l’azione sia stata preparata nel tempo, è evidente che la stessa sia stata giocata alla disperata ricerca di un successo personale. Per fortuna è andata bene, ma ciò non sposta i termini della questione, anzi se è possibile, se è dovuto ricorrere a giocarsi tutto con la liberazione di Ingrid, avendo fatto sempre di tutto per evitarla in passato, la vittoria di Uribe potrebbe essere la vittoria di un Pirro disperato.

Il quarto pensiero è per le FARC. E’ difficile non pensarle indebolite politicamente e militarmente. E’ difficile pensare alle FARC come chi tiene alta la bandiera di milioni di esclusi colombiani. E’ difficile non pensare che le FARC da anni sono oramai la scusa per i paramilitari per appropriarsi delle terre e consegnarle alle multinazionali. Ma allo stesso tempo è difficile pensare alla liquidazione delle FARC come un processo indolore e possibile, in una Colombia dove l’ingiustizia è causa della guerriglia e non viceversa.

L’interesse per Ingrid Betancourt da parte dei media e dell’opinione pubblica europea è stata in questi anni una cartina tornasole del colonialismo mentale con il quale l’Europa guarda alle cose del Sud del mondo. Ingrid è giovane, Ingrid è bella, aristocratica, elegante. Ingrid è francese, una di noi quindi. Ingrid è progressista. Ingrid buca lo schermo. Ingrid, lungi dall’esserne colpevole, ha occupato in questi sei anni completamente lo schermo, oscurando milioni di altre donne vittime di una guerra, quella colombiana, che conta più profughi, 4 milioni, che Iraq, Afghanistan e Darfur insieme.

Lungi dall’esserne colpevole, lungi dal giustificare la sua orribile e imperdonabile prigionia, Ingrid è stata soprattutto una foglia di fico servita a distorcere il conflitto colombiano in maniera manichea fino a renderlo incomprensibile. Visto dall’Europa e per chi nulla sa di Colombia, in piena logica post-11 settembre di “guerra al terrorismo”, le FARC che hanno tenuta sequestrata Ingrid rappresentano tutto il male in Colombia, laddove chi l’ha liberata, il governo paramilitare di Álvaro Uribe rappresenterebbe tutto il bene. E’ una visione manichea ed infondata del conflitto colombiano.

Lo testimonia ancora l’uccisione di uno dei capi delle FARC, Raúl Reyes, lo scorso primo marzo quando stava per incontrare gli emissari di Nicolas Sarkozy e la liberazione era ad un passo. Reyes fu ammazzato in pieno territorio ecuadoriano, con un’azione militare tanto illegale quanto chirurgica, orchestrata dagli eserciti colombiano e statunitense: Ingrid, per i governi di Washington e Bogotà, non doveva essere liberata anche al prezzo di una crisi internazionale.

Adesso le cose sono cambiate, in due mesi ancora molti scandali hanno pesato sull’uomo di Washington tanto da farlo decidere di legare la sua immagine alla liberazione della sua più acerrima nemica che bucava e chissà se bucherà ancora lo schermo rompendo il silenzio sulla Colombia. Una Colombia facile da digerire e dimenticare per gli stomaci delicati dell’opinione pubblica europea, che non vuol sapere dei contadini fatti a pezzi con la motosega dai paramilitari, di fumigazioni velenose come in Vietnam e di una guerra con la quale il paramilitarismo, solo negli anni di Uribe, si è già appropriato di sei milioni di ettari di terra fertile, strappandoli ai piccoli produttori indigeni e afrodiscendenti e girandoli alle multinazionali.

La sesta vita di Ingrid Betancourt

Ingrid viene dal mondo delle oligarchie, quello della Colombia bene che chiude un occhio da sempre sulle ingiustizie e se ne fa complice, del narcotraffico, della corruzione, dello sfruttamento, delle voci critiche sistematicamente silenziate. È figlia di Gabriel Betancourt, che fu Ministro dell’Educazione al tempo di Gustavo Rojas Pinilla. È figlia di Yolanda Pulecio, già Miss Colombia e poi politica e diplomatica, che in questi anni ha girato il mondo accusando con coraggio Álvaro Uribe di essere il primo responsabile della cattività della figlia.

Nacque nel 1961 a Bogotà Ingrid, lo stesso anno di Zapatero e forse non è un caso, quando il suo paese era già desolato da più di un decennio dalla Violencia, che dura tuttora. Con i natali giusti, non poteva non fare le scuole giuste, il Liceo francese e poi il salto a Parigi con il padre Ambasciatore colombiano all’UNESCO. Lì comincia rapidamente una seconda vita, dorata come la prima. A vent’anni è già sposata con un diplomatico francese e prende quella cittadinanza comunitaria così preziosa che l’ha sottratta all’oscurità. Si laurea in Scienze politiche, e sarà madre per due volte. Ha fretta di vivere Ingrid e archivia quella vita per una nuova, la terza, di nuovo in America.

Torna in Colombia, divorzia, e si impegna in politica con il Partito Liberale. Collabora con César Gaviria, allora presidente e nel 1994, ad appena 33 anni, diventa deputata. È pienamente integrata nel sistema e l’aspetta una radiosa carriera, ma è lì che scatta qualcosa. E’ la corruzione che comincia a risultarle insopportabile. Quella corruzione con la quale il Cartello di Cali, uno dei più importanti nel paese, sta finanziando il presidente liberale Ernesto Samper che lei stessa appoggia. Resta nel Partito Liberale ma ne diventa una spina nel fianco. In pieno parlamento a Bogotà si mette in sciopero della fame contro la sentenza aggiustata che aveva assolto Samper per aver preso soldi dal narcotraffico.

Denuncia dagli stessi scranni del Partito Liberale in parlamento come questo fosse viziato da interessi mafiosi. La fischiano e la spingono giù con la forza. E’ il segno che il suo mondo, che alla corruzione e all’ingiustizia deve il proprio benessere, la sta espellendo e le dichiara guerra. Da quel momento saranno continue le minacce di morte e gli attentati, dai quali esce viva per miracolo. I sicari sono i paramilitari, i mandanti la parapolitica, la narcopolitica, lo stesso Álvaro Uribe, al quale contenderà la presidenza, che gliel’ha giurata.

Comincia così una nuova vita ancora, la quarta, al di fuori delle sicurezze del mondo dorato nel quale è nata, cresciuta, educata. Nel 1998 ottiene un buon successo personale con una nuova forza politica, il partito Verde Oxígeno, che unisce alle tematiche ambientali quelle della corruzione. È eletta senatrice, appoggia il predecessore di Uribe, Andrés Pastrana, ma poi se ne dichiarerà tradita. E’ protagonista di azioni clamorose per la società colombiana, distribuisce preservativi e perfino il Viagra, sempre in polemica con la corruzione. Ha un linguaggio diretto che piace alla gente, ma è sempre più isolata dal sistema politico. Nel 2002 si candida alle presidenziali. Dalla Francia, dall’Europa, c’è interesse per lei, ma in Colombia c’è il vuoto e il silenzio intorno alla sua candidatura. Attacca duramente Álvaro Uribe. Lo accusa carte alla mano di essere un paramilitare, complice di paramilitari e di considerare l’assassinio come una normale arma politica. Aveva ragione e da quando è stato eletto una media di 600 oppositori politici sono stati ammazzati ogni anno in Colombia. È troppo scomoda Ingrid per il candidato di Washington che si propone di spazzar via le FARC con una guerra senza quartiere. È scomoda ma è un grillo parlante che molti temono ma pochi ascoltano. Quando viene rapita non arriva all’1% nei sondaggi.

Comincia così la quinta vita di Ingrid, prigioniera delle FARC dal 23 febbraio del 2002. È la più angustiosa, quella che lei stessa definirà in una lettera alla madre “una non vita”. Era andata a San Vicente del Caguán, la località al centro della zona di distensione tra governo e guerriglia, che con la fine del governo Pastrana veniva smobilitata. Voleva testimoniare l’appoggio a quella comunità (una delle poche che il suo partito amministrava) e continuare a puntare sul dialogo con la guerriglia come soluzione alla guerra. Il governo se ne lavò le mani. “E’ colpa sua se è stata rapita” dichiarò il Ministro degli Interni.

Da allora sono passati sei anni, quattro mesi e una settimana. Ingrid è stata la più pregiata di un migliaio di disgraziati prigionieri delle FARC nella selva. Lei è l’unica che per i media occidentali conti qualcosa e le dirette di queste ore nelle quali la selva colombiana diviene boliviana e lei viene definita Premio Nobel lo testimoniano. Il contesto non conta nulla e neanche la bella francese serve per parlare della Colombia e della sua guerra dimenticata. Oggi parlano tutti di lei, i politici, le grandi firme del giornalismo, ma la Colombia sembra non esistere e dalle loro parole Ingrid sembra sia stata in questi anni sequestrata dagli extraterrestri.

Ingrid adesso è libera, salvata paradossalmente da Uribe che l’ha voluta e forse la vuole ancora morta. Lo hanno testimoniato i precedenti, le minacce, gli attentati, l’odio che il parapresidente della Colombia ha per lei. Un Uribe travolto da uno scandalo alla settimana al quale la liberazione di Ingrid dà respiro. Qualcuno in Europa fantastica di una Ingrid restituita alla vita politica e addirittura futura presidente della Repubblica. Per adesso lasciamole cominciare la sua sesta vita, abbracciare i suoi cari e ricominciare a vivere. E’ solo la sua sesta vita e speriamo, ma siamo pessimisti, che la luce non si spenga sul dramma colombiano.

Le reazioni della politica internazionale

Nel corso di una telefonata alla moglie del presidente francese, Carla Bruni-Sarkozy, la Betancourt avrebbe dichiarato di voler tornare in Francia “al più presto possibile”, riferisce l’Eliseo.

In una dichiarazione sulla liberazione di Betancourt il presidente francese Nicolas Sarkozy ha ringraziato il collega colombiano Álvaro Uribe. Dal palazzo dell’Eliseo, circondato dai figli della Betancourt, Sarkozy ha sollecitato le FARC a sospendere la loro “lotta insensata.” Il figlio di Betancourt, Lorenzo Delloye, ha dichiarato alla stampa di provare una “gioia enorme e indescrivibile.”

Il presidente statunitense George W. Bush si è congratulato al telefono con il collega Uribe, ha comunicato la Casa Bianca. Anche il candidato repubblicano John McCain, ieri in vistita a Bogotá, si è congratulato per il successo dell’operazione.
Gli USA avrebbero contribuito attivamente alla liberazione degli ostaggi. Secondo le dichiarazioni rilasciate a Washington dal portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Gordon Johndroe, il governo americano sarebbe stato al corrente dell’operazione durante la fase di pianificazione ed avrebbe fornito un supporto “specifico”, sulla cui natura Johndroe non può rilasciare dichiarazioni.

A Bruxelles il commissario dell’ UE Benita Ferrero-Waldner ha definito la liberazione della Betancourt “la fine di un incubo”, comunicando inoltre il suo sollievo e la sua grande gioia.
Da Madrid un portavoce del governo spagnolo ha espresso “l’enorme soddisfazione” di tutto il Paese per il buon esito dell’operazione.

Secondo un portavoce di Papa Benedetto XVI la notizia della liberazione di Betancourt sarebbe “un segnale di speranza per la libertà tutti gli ostaggi del mondo”. Il segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon avrebbe accolto con gioia la notizia della liberazione dei quindici ostaggi in mano alle FARC, secondo quanto riferito dal suo portavoce.

Congratulazioni sono giunte anche dai capi di stato di Bolivia e Argentina, Evo Morales e Cristina Krichner. Da Londra Amnesty International ha chiesto alle FARC il rilascio di altri 700 ostaggi. A Bogotá ed in altre città della Colombia centinaia di persone sono scese in piazza per festeggiare la liberazione della Betancourt.

Secondo alcuni osservatori politici a Bogotá, la liberazione sarebbe un grave colpo per le già indebolite FARC, nonché il più grande successo per la dura linea politica portata avanti dal presidente conservatore Álvaro Uribe dal 2002 fino ad oggi.
Tale successo sarebbe addirittura provvidenziale per il presidente Uribe, di recente coinvolto in uno scandalo sulla possibile corruzione di alcuni parlamentari finalizzata alla sua rielezione nel 2006.


Tratto da:
Farc-Rebellen mit Husarenstreich überlistet di AFP/AP/dpa/Reuters/gal
su
Süddeutsche Zeitung, Germania, 03 luglio 2008
tradotto da Susanna Bandiera
La sesta vita di Ingrid Betancourt di Gennaro Carotenuto
su
Giornalismo partecipativo, Italia, 03 luglio 2008

Articoli di riferimento:
Forze Armate rivoluzionarie della Colombia - Wikipedia


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