mercoledì 26 agosto 2009

Somalia allo sbando


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 194/2009 di Terra

Sembra tornata la calma a Mogadiscio dopo gli scontri del fine settimana che hanno causato circa 25 vittime. Venerdì scorso i guerriglieri islamici di al-Shabaab, “la gioventù”, hanno attaccato a colpi di mortaio le posizioni dell’esercito in rappresaglia contro le attività militari della missione Amisom dell’Unione africana (Ua).

I circa 4.300 caschi verdi di Uganda e Burundi, schierati a protezione di porto, aeroporto e installazioni governative in una posizione di neutralità almeno apparente, sostengono ormai apertamente il governo di Sheikh Sharif Ahmed, ex miliziano e leader moderato delle Corti islamiche accordatosi con le forze filoccidentali del Paese. E la guerriglia non è più disposta a fare differenza tra nemici veri e nemici apparenti. «La prima fase della guerra contro il governo e l’Amisom è finita - ha annunciato giorni fa il portavoce di al-Shabaab, Sheikh Ali Dhere - Vedrete la seconda fase, con conseguenze ancora più mortali». L’inizio del santo mese del Ramadan, il digiuno rituale le cui celebrazioni sono uno dei pilastri dell’Islam, ha portato con sé un ulteriore inasprimento della guerra in Somalia.

Il mese scorso, il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, aveva fatto appello a tutti i Paesi per l’invio urgente di supporto militare al governo di transizione somalo, il quindicesimo dalla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991.
Il sostegno incondizionato degli Usa al presidente Ahmed, espresso dal segretario di Stato statunitense Hillary Clinton durante la sua recente visita in Kenya, era già stato preceduto a fine giugno da una fornitura di 40 tonnellate di armi e munizioni e da una promessa di ulteriori forniture. Ma, secondo il Garowe Online, le armi inviate da Washignton sono andate direttamente sul mercato nero, a disposizione proprio dei miliziani islamici che, nel frattempo, rigettano ogni accusa di terrorismo e legami con la rete di al-Qaeda.

Intanto la capitale somala è ormai un campo di battaglia. Sharif Ahmed riesce a malapena a controllare l’area intorno al palazzo presidenziale mentre le milizie di al-Shabaab e degli altri gruppi armati hanno in mano il resto della città e buona parte del Paese. Lo scorso luglio i miliziani sono giunti a circa un chilometro dalla residenza del presidente e solo l’intervento dei blindati dell’Amisom ha raddrizzato la situazione. Capita che le milizie si combattano tra di loro e di recente vi sono stati scontri armati persino tra reparti dell’esercito governativo a causa di regolamenti di conti tra ufficiali. Le regioni settentrionali, Somaliland e Puntland, si governano praticamente da sé e non senza difficoltà. L’imposizione la settimana scorsa della legge marziale da parte del Parlamento di Mogadiscio è stata descritta come una vittoria del presidente ma è stata solo una farsa politica senza conseguenze sul piano pratico.

Nel frattempo l'International Maritime Bureau registra "un aumento esponenziale" della pirateria nel Golfo di Aden e nel bacino somalo durante il primo trimestre del 2009, con 61 attacchi riportati, rispetto ai 6 dello stesso periodo nel 2008. E aumentano i traffici illegali di rifiuti tossici inabissati al largo delle coste somale da cargo provenienti dal mondo industrializzato.

È il quadro di un Paese allo sbando, diviso tra la volontà europea e americana di farne, con la forza delle armi, uno Stato filoccidentale e la capacità ormai dimostrata delle milizie islamiche di controllare il territorio attraverso l’applicazione di leggi tribali e della sharia.

Etiopia ed Eritrea, dal canto loro, tirano la corda ai due estremi opposti. L’Etiopia, longa manus dell’Occidente, sostiene con la minaccia di un nuovo intervento militare l’accordo tra “signori della guerra” che garantisce la tenuta del governo di transizione. L’Eritrea fornisce supporto politico e armi alla guerriglia islamica, non riconoscendo la leadership di Sharif Ahmed in quanto frutto di una spartizione non avallata dal popolo e sostenuta dalle potenze occidentali.

La guerra continua dunque a essere l’unica certezza in questo Stato inesistente, dove né le decine di governi provvisori formati nel tempo attraverso accordi tra signori e signorotti locali, né le varie missioni internazionali, tra le quali la disastrosa Unosom terminata nel sangue a inizio 1995, hanno potuto sostituirsi ai rapporti tradizionali tra etnie e clan.

La nuova ondata di scontri iniziata nel maggio scorso ha già causato oltre 300 morti e decine di migliaia di profughi. Ad oggi quasi metà della popolazione, circa 3,2 milioni di persone, sopravvive solo grazie agli aiuti alimentari dall’estero.
L’Unione africana ha promesso di rinforzare l’Amisom, ma la verità è che nessuno, né in Africa né in Occidente, ha voglia di andarsi a invischiare nella palude somala e già da tempo le opposizioni parlamentari in Uganda e Burundi premono per il ritiro dei contingenti. Intanto i Paesi ricchi hanno occhi solo per la pirateria e in Somalia si continua a morire, di guerra, di fame e di povertà.


Bruno Picozzi



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lunedì 17 agosto 2009

Ricominciano i colloqui sul Sahara Occidentale


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 186/2009 di Terra

Dopo quasi 18 mesi di stallo sono ripresi i colloqui sulla questione del Sahara Occidentale tra il governo marocchino e gli indipendentisti del Fronte Polisario.
Archiviati gli insuccessi dei quattro incontri di Manhasset, New York, le parti si sono incontrate il 10 agosto scorso a Dürnstein, in Austria, sotto l’egida del nuovo inviato personale del Segretario generale dell’Onu, lo statunitense Christopher Ross. Due giorni di incontri separati con la partecipazione di delegazioni dall’Algeria e dalla Mauritania e nessun obiettivo stabilito, se non quello di superare la situazione di “impasse” venutasi a creare negli ultimi anni. «Non abbiamo alcun problema con qualsiasi punto all'ordine del giorno - ha detto il ministro per gli Affari africani del Polisario, Mohamed Beisat - Siamo pronti a discutere di autonomia, siamo pronti a discutere di indipendenza, ciò che vuole il mediatore».

La questione della piena decolonizzazione del Sahara Occidentale si trascina ormai da 34 anni, in virtù dell’occupazione militare attuata dal Marocco a partire dal 1975 quando la Spagna, potenza colonizzatrice, abbandonò i Saharawi all’invasione marocchina in cambio di accordi commerciali favorevoli. Il Sahara Occidentale è iscritto nella Lista dei Territori non autonomi delle Nazioni unite, poiché l’annessione da parte del Marocco non è mai stata riconosciuta dai massimi organismi internazionali. Il Marocco infatti è l’unico Stato del continente a non fare parte dell’Ua, cui invece aderisce la Repubblica democratica araba Saharawi in esilio (Sadr), braccio politico del Polisario.

La guerra ha insanguinato la regione dal 1975 al 1991, fino al cessate-il-fuoco firmato dalle due parti dietro mediazione dell’Onu. Mentre un muro di 2600 km veniva eretto nel bel mezzo del Paese, a dividere mare pescoso, terre coltivabili e miniere di fosfati sotto controllo marocchino dall’arido deserto controllato dal Polisario, una missione internazionale, la Minurso, ha ricevuto il compito di organizzare un referendum di autodeterminazione per il popolo Saharawi. Ma nei quasi diciotto anni di permanenza sul territorio africano la missione non è riuscita a compilare le liste degli aventi diritto al voto, ostacolata dai continui impedimenti procedurali trovati dalle autorità marocchine e anche grazie alla sospetta benevolenza dei vertici dell’Onu verso le stesse.

Nel frattempo circa 160mila Saharawi, scacciati a suo tempo a forza di bombe al napalm, vivono oltre frontiera nel deserto algerino, nell’oasi di Tindouf, sopravvivendo esclusivamente grazie agli aiuti internazionali amministrati dalla Sadr.

La storia di questo conflitto è un vero trattato di diritto internazionale. Decine di risoluzioni dei maggiori organismi internazionali si sono succedute senza alcun effetto concreto, compreso un parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Ogni risoluzione in sostanza afferma con forza il diritto del popolo Saharawi all’autodeterminazione, ribadendo in ogni sede possibile che in nessun modo il Marocco può vantare un’inequivocabile dominio storico sul territorio in questione. Eppure tutti i documenti, e l’idea stessa di autodeterminazione, sono sufficientemente ambigui da lasciare aperta la porta alle rivendicazioni marocchine ed evitare l’imposizione con la forza della soluzione a suo tempo auspicata, ossia lo svolgimento di un giusto referendum di autodeterminazione.
Anche l’ultima risoluzione approvata lo scorso dicembre dall’Assemblea generale dell’Onu segue lo stesso schema: sostiene l’interminabile processo negoziale e chiama le parti a dare prova di realismo e di spirito di compromesso senza spingersi oltre, lasciando i due contendenti in un sostanziale braccio di ferro in cui non conta il diritto ma la forza dell’appoggio internazionale.

Nel 2006, in pieno stallo diplomatico, il Corcas marocchino (Consiglio Reale Consultivo per gli Affari del Sahara, del quale fanno parte alcuni notabili Saharawi) propose una “Iniziativa di autonomia” per il Sahara Occidentale che, presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu nell’aprile 2007, ricevette il pieno appoggio della Francia, da sempre primo partner commerciale e militare del Marocco, e di George Bush, apertamente sostenuto da Rabat nella sua “guerra al terrorismo”.

Da allora ogni tentativo di dialogo si perde nella terra di nessuno che divide l’Iniziativa marocchina dall’auspicato referendum di autodeterminazione. Nel dicembre 2007, durante il suo ultimo congresso, il Polisario ha seriamente ventilato l’ipotesi di riprendere la lotta armata. Ma nel frattempo l’Algeria, primo sponsor degli indipendentisti, ha cercato di ricucire i suoi rapporti col Marocco e pochi credono che si lascerà coinvolgere in una nuova guerra. Resta allora solo la soluzione negoziale e la volontà espressa dalle parti di ritrovarsi presto al tavolo della trattativa. Vedremo nei prossimi mesi se l’autorevolezza di Ross e il nuovo corso di Obama saranno sufficienti a trovare un difficile compromesso.


Bruno Picozzi



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venerdì 7 agosto 2009

Uribe sempre più isolato in America Latina


Questo articolo è stato pubblicato il 7 agosto 2009 su Dazebao

Aumenta l’isolamento internazionale del presidente della Colombia Álvaro Uribe in seguito alla sua scelta di aumentare la presenza statunitense nel Paese, per combattere contro i cartelli della droga e contro i circa 9mila guerriglieri marxisti delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc), in guerra contro il governo da quasi mezzo secolo.

Colloqui sono in corso per la firma di un accordo che consentirà alle forze americane l’accesso a sette basi militari in territorio colombiano. Un contratto di affitto valido per dieci anni dovrebbe essere firmato a fine mese, anche se sul piano pratico poco cambierà rispetto ai trattati già esistenti dal 1999, quando a Washington fu lanciato il famigerato “Plan Colombia”, 5 miliardi di dollari in aiuti militari e la dislocazione di forze speciali nel Paese sudamericano per la formazione dei quadri locali e per la condivisione di informazioni di intelligence.

La quantità di truppe USA in Colombia, ad oggi intorno alle 300 unità, non dovrebbe superare il tetto di 800 soldati e 600 contractors civili, il massimo consentito nel quadro del patto militare già in vigore. Le forze antidroga della U.S. Air Force dovrebbero trasferirsi a Palanquero, nella valle della Maddalena, dopo essere state invitate dal presidente ecuadoregno Rafael Correa a lasciare la base di Manta, in Ecuador, dove erano dislocate fino al 17 luglio scorso.

La mossa di Uribe ha scatenato un vespaio di critiche da parte degli altri leader regionali, in particolare i leader socialisti, il venezuelano Hugo Chavez, il nicaraguense Daniel Ortega e lo stesso Correa, preoccupati che l’accordo danneggi la stabilità del continente. Secondo Chavez, Washington «sta trasformando la Colombia in una base imperialista le cui operazioni minacciano la sovranità del Venezuela».

Del resto Uribe è ormai ai ferri corti con Chavez e Correa a causa dei loro “presunti legami” con le Farc. Nel mese di ottobre, tre lanciarazzi anticarro svedesi, acquistati dal Venezuela nel 1988, sono stati ritrovati in un campo dei ribelli. Alla richiesta di spiegazioni Chavez ha richiamato il suo ambasciatore a Bogotà e congelato le relazioni diplomatiche. Con l’Ecuador le relazioni sono interrotte dal raid aereo che nel marzo 2008 provocò la morte di uno dei capi delle Farc, Raul Reyes. Un video distribuito il mese scorso dalla Associated Press mostra un comandante ribelle che discute di fornire contributi elettorali per la campagna elettorale di Correa, nel 2006.

Per difendere i suoi piani e raffreddare le tensioni diplomatiche, Uribe è partito su un vorticoso tour in Perù, Bolivia, Cile, Brasile, Paraguay, Argentina e Uruguay. Il leader colombiano ha ottenuto il sostegno del presidente peruviano Alan Garcia, conservatore anche lui. Non quello del boliviano Evo Morales, stretto alleato di Chavez e Correa, il quale si è opposto all’accordo, dichiarandosi «minacciato» e definendo «inaccettabile» una maggiore presenza militare Usa in America Latina.

Ma anche i leader moderati della regione hanno espresso forte contrarietà. Inequivocabili le parole del brasiliano Lula: «Non mi piace l'idea di una base militare americana in Colombia». Michelle Bachelet, dal Cile, ha fatto suo il disagio espresso dagli altri governi, etichettando come «inquietante» l’accordo, e ha chiesto di mettere il tutto all’ordine del giorno della riunione dell’unione regionale Unasur, che si terrà in Ecuador il prossimo 10 agosto. È prevista la partecipazione di tutti i capi di Stato del continente. Solo Uribe e il suo ministro degli Esteri, Jaime Bermudez, non prevedono di parteciparvi.

Il messaggio centrale del tour diplomatico di Uribe è stato che la presenza americana non è una minaccia per le altre nazioni ma solo un vantaggio per tutti.
«Nessuno, se non i terroristi e i trafficanti di droga, dovrebbe preoccuparsi di questo accordo, che è trasparente, rispetta la nostra sovranità, rispetta gli accordi internazionali e rappresenta semplicemente il rafforzamento della nostra capacità di combattere contro questo flagello mondiale», ha detto il generale Freddy Padilla, ministro della Difesa colombiano.

Ma la reazione alla strategia di Uribe potrebbe complicare gli sforzi compiuti dal presidente Barack Obama per migliorare le relazioni con gli altri Paesi dell'America latina. Obama ha conquistato l’apprezzamento di tutti per la condanna del colpo di Stato militare che nel giugno ha destituito in Honduras il legittimo presidente, il liberale Manuel Zelaya. Ma alcuni accusano la Casa bianca di non dare un sostegno più attivo al leader deposto.

Nel frattempo le forze di sicurezza colombiane hanno lanciato una grande operazione contro i ribelli. Il generale Javier Florez, comandante della Joint Task Force Omega, ha dichiarato che i suoi soldati hanno ucciso almeno 40 militanti delle Farc nel corso delle ultime settimane. Almeno 17 ribelli sono stati uccisi la settimana scorsa, quando le forze di sicurezza hanno bombardato un campo dove si trovavano circa 200 guerriglieri.

Bruno Picozzi



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martedì 28 luglio 2009

Scontri tra fondamentalisti e polizia in Nigeria


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 171/2009 di Terra

La città di Bauchi, capitale dell’omonimo Stato settentrionale della federazione nigeriana, è stata teatro domenica mattina di scontri gravissimi tra fondamentalisti religiosi e forze dell’ordine. Gli scontri sono cominciati dopo che una sessantina di islamisti appartenenti alla setta Boko Haram, armati di fucili e bombe a mano, hanno assaltato una stazione di polizia e hanno cacciato gli agenti, distruggendo tutto all’interno dell’edificio. La polizia, per rappresaglia, ha poi fatto irruzione in forze nei quartieri di provenienza dei fondamentalisti, sequestrando armi e uniformi e arrestando centinaia di persone.

Non vi è un bilancio ufficiale delle vittime ma dalle testimonianze sembra che vi siano oltre 50 morti e varie decine di feriti. Il comando di polizia ha rifiutato per il momento di confermare qualsiasi cifra. Altri attacchi contro stazioni di polizia sono avvenuti la notte seguente in altri due Stati nordorientali, causando la morte di un pompiere.

La setta Boko Haram è un gruppo militante che si batte contro la propagazione della cultura occidentale. Essa è guidata da Ustaz Mohammed Yusuf, un religioso che vive in una città all’estremo Nord-Est del Paese, quasi ai confini col Ciad. Boko Haram significa letteralmente "l'istruzione è il peccato", con riferimento alla corruzione dei valori islamici attribuita alla scuola laica di stampo occidentale. I suoi membri sono in prevalenza studenti che hanno abbandonato l’università. «La democrazia e l'attuale sistema di istruzione devono essere cambiati altrimenti questa guerra, che è appena all’inizio, continuerà a lungo», ha dichiarato Ustaz Mohammed Yusuf in un’intervista al quotidiano locale Daily Trust.

Secondo il quotidiano, i membri della setta Boko Haram programmavano da tempo una manifestazione a Bauchi per protestare contro l’atteggiamento del governo che impedisce loro di professare la loro interpretazione rigida dell’islam e fare proselitismo tra la popolazione. Il governo, dal canto suo, teme che il propagarsi delle loro idee possa causare una nuova crisi religiosa. L’insegnamento di Yusuf viene infatti considerato in disaccordo con quanto professato da altri gruppi islamici e minerebbe la coesistenza pacifica tra interpretazioni differenti.
L’obiettivo politico della setta è l’imposizione della sharia islamica in tutti i 36 Stati della federazione nigeriana, sebbene in buona parte di essi venga praticato il cristianesimo mescolato a forme radicate di animismo.

Più di 200 gruppi etnici vivono fianco a fianco, di solito pacificamente, in questo che è il più popoloso Stato dell'Africa occidentale. Il Nord è abitato da tribù islamiche ancora preda di una mentalità semifeudale, ereditata dal passato precoloniale. Il Sud è prevalentemente cristiano e animista, ma anche più debole politicamente. La ricchezza del Paese è il petrolio, i cui giacimenti si trovano nel meridione, in quella zona che, tra il 1967 e il 1970, tentò la secessione col nome di Biafra, attraverso una guerra che causò la morte di oltre un milione di persone. Da allora in poi ci sono stati segni di inquietudine religiosa nel Paese.

Nel 2000 il governo centrale ha accettato di concedere un’applicazione più rigida della sharia islamica in 12 Stati settentrionali, tra i quali Bauchi, Yobe e Borno. Una decisione che ha visto una ferma opposizione da parte delle minoranze cristiane e ha scatenato attacchi di violenza settaria in varie zone del Paese.

L’estremismo islamico ha fatto il suo debutto nel 2004, quando da una base nello Stato dello Yobe, al confine con il Niger, i militanti hanno attaccato avamposti di polizia uccidendo alcuni funzionari. Più di 700 persone sono morte nel novembre scorso a Jos, capitale dello Stato centrale del Plateau, quando una contestazione sulle elezioni locali è degenerata in sanguinosi scontri tra comunità cristiane e musulmane. A febbraio, ulteriori scontri tra le due comunità nello Stato del Bauchi hanno portato alla morte di 11 persone.

Il Governatore del Bauchi, Mallam Isa Yuguda, ha descritto i membri della setta come fondamentalisti militanti, sollecitando i nigeriani a considerare questa come una questione nazionale. Egli ha invitato tutti i governatori del Paese a raccogliere la sfida e schiacciare ovunque la diffusione del fondamentalismo.

Secondo la polizia, la situazione in città è tornata adesso alla normalità e la gente è impegnata nelle sue attività quotidiane. Ciononostante il governo ha annunciato ieri l'imposizione di un coprifuoco dalle 9 di sera alle 6 del mattino e ha mobilitato un maggior numero di poliziotti in zona per mantenere l'ordine. Altre misure di sicurezza sono state prese per evitare la diffusione della crisi negli Stati adiacenti, compreso il dispiegamento di blindati in assetto di guerra per le strade di alcune città.

Bruno Picozzi



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martedì 21 luglio 2009

Un continente ancora in lotta per l'indipendenza


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 165/2009 di Terra

Nel suo discorso per il bicentenario della “rivoluzione di luglio 1809”, primo passo verso l’indipendenza del Sudamerica, il presidente Morales ha affermato la necessità per tutto il continente di rigettare l’influenza militare statunitense. Alle parole di Morales hanno fatto eco gli altri capi di Stato sudamericani presenti. Secondo l’ecuadoriano Rafael Correa «i popoli dell’America latina lottano affratellati per la seconda e definitiva indipendenza». Il venezuelano Hugo Chávez ha parlato di battaglia in corso contro le minacce degli imperi. Il paraguayano Fernando Lugo ha auspicato che i popoli sudamericani «diano vita all’unità, all’integrazione, all’equità e all’uguaglianza necessari per un’esistenza veramente indipendente».
Parole pesanti, pronunciate alla presenza del vicepresidente del Consiglio dei ministri cubano Jorge Luis Guerra e del rappresentante del deposto presidente honduregno Manuel Zelaya.

È una vera e propria rivoluzione copernicana che sembra farsi largo nel Sudamerica, una volta giardino di casa degli Usa e preda di dittature destrorse bellamente finanziate dalla Cia, oggi gigantesco laboratorio sociale gestito da presidenti socialisti e socialdemocratici che, grazie a leggi sinceramente progressiste, cercano di dare pari dignità sia ai discendenti dei conquistadores, oggi latifondisti e depositari del potere economico, che a quelli delle popolazioni autoctone, gli indigeni, oggi come ieri ultimi degli ultimi.

In questa lotta la Bolivia è sicuramente in prima fila, grazie all’approvazione con larga maggioranza, lo scorso gennaio, della nuova costituzione voluta da Evo Morales, primo presidente indigeno del Paese. Un passo importantissimo verso il riconoscimento dei diritti dei nativi, nonostante la forte opposizione delle regioni ricche dell’Est, dove vivono i latifondisti e i boliviani con origini europee.
La società boliviana, come tutta l’America latina, è anch’essa figlia di quei secoli bui di conquista europea attuata in nome di Dio e dell’oro, che ha lasciato a tutto il continente due eredità: un’oligarchia terriera composta dalle famiglie che ebbero antenati potenti, per lo più bianchi, e la grande povertà degli indigeni che, privati delle terre e della cultura, hanno potuto solo essere schiavi del potere.

Fu in Bolivia che visse l’ultima parte della sua avventura Che Guevara, ucciso a Santa Cruz dopo la cattura. Protetto dalla dittatura boliviana visse libero il boia di Lione, Klaus Barbie, scampato al processo di Norimberga e diventato poi agente al servizio degli Usa.
In Bolivia avvenne nel 2000 la rivolta di Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, paradigma di tutti i movimenti popolari di resistenza contro l’occupazione del territorio da parte delle lobbies industriali e finanziarie.
Fu la Bolivia il teatro della “guerra del gas”, una violenta insurrezione popolare nel 2003 contro l’allora presidente Sánchez de Lozada che fu domata a colpi di fucile. Decine di manifestanti furono uccisi e il presidente fu costretto all’esilio volontario negli Stati Uniti. Da allora prese il potere Evo Morales, leader sindacale dei produttori di coca, grande oppositore della politica regionale degli Usa.

La nuova costituzione approvata a larga maggioranza dalla popolazione boliviana è un macigno lanciato nel futuro del Paese per distruggere schemi antichi e ridistribuire ricchezze e potere tra la popolazione. Essa concede autonomia ai popoli indigeni e concentra nelle mani dello stato il controllo dell’economia. A trentasei gruppi indigeni viene riconosciuto il diritto di proprietà sui territori ancestrali e sulle loro immense risorse e il diritto di far uso delle proprie leggi tradizionali e delle proprie lingue madri. Una rivoluzione indigenista, quindi, ma anche un grosso colpo alle oligarchie terriere: gli immensi latifondi del Paese saranno limitati a proprietà di non oltre 5mila ettari.

Contrari alla nuova costituzione tutte le destre e i gruppi del potere economico, le regioni ricche di gas e petrolio della cosiddetta mezzaluna orientale, che saranno costrette a dividere i ricchi proventi delle esportazioni con le regioni agricole a maggiore presenza indigena. Contrari anche i papaveri del clero, impauriti dalla proclamata laicità dello stato che potrebbe, in ultima analisi, aprire la Bolivia ai temuti diritti degli abortisti e dei gay. Meglio morti di fame ma timorati di Dio, questa sarebbe la posizione dei vescovi.

Sono questi gli stessi settori conservatori che, in tutta la società sudamericana, hanno sempre visto di buon occhio l’intervento neocolonialista degli Usa nella politica e nell’economia del continente. Ma il vento nuovo che soffia da sinistra ha spinto Morales ad affermare che «chiunque ospiti una base militare nordamericana in qualsiasi Paese è un traditore della patria». Con buona pace di Álvaro Uribe che conta di aprirne ben tre nella sua Colombia, in sostituzione di quella chiusa proprio venerdì scorso a Manta, in Ecuador, per volontà del presidente Correa.

Bruno Picozzi



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martedì 14 luglio 2009




Questo blog aderisce allo sciopero contro il decreto “ammazza Internet” del ministro Alfano.


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sabato 11 luglio 2009

L’Indonesia in mano ai soliti noti


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 157/2009 di Terra

Sembra ormai fatta per Susilo Bambang Yudhoyono, presidente indonesiano uscente che, secondo le ultime proiezioni, sarebbe stato confermato già al primo turno delle elezioni presidenziali tenutesi mercoledì scorso con oltre il 60 per cento dei consensi.Alle sue spalle, con il 27 per cento, l’anziana presidentessa già sconfitta nel 2004, Megawati Sukarnoputri, figlia dell’eroe dell’indipendenza Sukarno. Invece il vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, si è fermato al 13 per cento. Quasi una competizione fatta in casa, quindi, tra vecchi compagni e avversari che nulla lasciano alla novità e al cambiamento.

Piuttosto strano per una nazione che conta quasi 240 milioni di abitanti, quarto Paese più popoloso al mondo, terza democrazia e prima nazione per numero di musulmani. Con i suoi 300 e passa gruppi etnici, le 742 lingue parlate e le sei religioni riconosciute, il tutto sparso per 17.508 isole grandi e piccole, l’Indonesia dovrebbe essere uno Stato dinamico, vitale, sempre adagiato sull’orlo del rinnovamento. Invece i personaggi al potere sono oggi gli stessi di ieri e, probabilmente, gli stessi di domani.
Nelle sue prime dichiarazioni Yudhoyono ha promesso di abbracciare l’onda riformista che attraversa il mondo intero per dare impulso all’economia e scacciare i fantasmi della crisi. Con l’aiuto di Allah onnipotente, sia ben chiaro.

Solo dieci anni fa l’Indonesia era etichettata come “il malato dell’Asia”, sempre sul filo del fallimento dal punto di vista sociale, economico e soprattutto politico. Il trentennio del feroce dittatore anticomunista Suharto, benvoluto dalla Cia e dalle potenze occidentali, aveva lasciato un livello impressionante di corruzione e nepotismo, oltre che un milione di morti e un numero incredibile di conflitti armati: Aceh, Timor Est, Sulawesi, Molucche, West Papua, oltre a una quantità di rivendicazioni da parte di popolazioni indigene.

La discutibile democrazia giunta a furor di popolo in sostituzione della dittatura ha fatto meglio, ma non bene. La concessione della libertà d’espressione ha aperto sicuramente scenari nuovi tra questi popoli antichi. La decentralizzazione del potere politico ha permesso la crescita di quadri locali e una maggiore rispondenza delle scelte ai bisogni locali. La separazione tra polizia e esercito ha sicuramente migliorato le qualità democratiche del Paese.

Ma un decennio di neoliberismo incontrollato e privatizzazioni ha causato l’aumento di povertà, disoccupazione e distruzione ambientale. Come dappertutto. Oggi oltre 100 milioni di indonesiani vivono con meno di 2 dollari al giorno, 37 milioni sono disoccupati e migliaia di bambini soffrono di malnutrizione. La destrutturazione dell’industria nazionale, sia in campo agricolo che manifatturiero, ha visto salire alla ribalta una generazione arrogante di uomini d’affari che si sono impadroniti senza ritegno delle risorse naturali del Paese, entrando in rotta di collisione con le popolazioni indigene che vengono zittite attraverso ogni tipo di abusi da parte di militari e paramilitari.

La deforestazione incalzante è il termometro di quanto sta avvenendo: miniere e trivellazioni avanzano, siano i mezzi legali o illegali, la foresta retrocede. La gente non è consapevole di questa lenta ma inesorabile degradazione del territorio e della società e concede il suo voto ai soliti noti, mentre le oligarchie da sempre al potere si combattono per impugnare le leve del comando. L’estremismo religioso pesca nel malcontento diffuso e mette in pericolo la democrazia. Tutto ciò, i riformisti indonesiani lo chiamano sviluppo.

Molti osservatori comunque sottolineano che il governo dell’attuale presidente Yudhoyono ha portato stabilità politica, una ventata di pace e la migliore performance economica degli ultimi dieci anni. Il presidente esce inoltre politicamente rafforzato dal voto di mercoledì e anche dalle elezioni parlamentari dello scorso aprile, nelle quali il suo partito democratico ha più che triplicato il numero di seggi. Eppure il Paese continua a non vedere le riforme promesse, affondato com’è dalla corruzione dilagante e dalla povertà diffusa. La gente avrebbe voluto ascoltare candidati autorevolmente schierati contro gli errori del passato, con idee nuove e voglia di lottare. Invece si ritrovano con le stesse ricette già bruciate e gli stessi volti di prima.

Nella corsa elettorale il terzo candidato e vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, ha condotto la sua campagna proponendo come suo vice Wiranto, ex comandante in capo dell’esercito accusato dalle Nazioni unite di crimini contro l’umanità per i massacri a Timor Est, nel 1999, e già candidato sconfitto nel 2004. L’anziana presidentessa Sukarnoputri ha invece candidato alla vicepresidenza Prabowo Subiyanto, tenente generale in pensione che comandava le truppe speciali Kopasus responsabili nel 1998 della sanguinaria repressione ai danni degli attivisti democratici. È probabile che gli indonesiani si aspettassero un altro tipo di cambiamento, che non avranno.

Bruno Picozzi



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martedì 7 luglio 2009

Lotta all’oppio afghano, finalmente si cambia rotta


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 150/2009 di Terra

Dopo anni di inefficaci politiche repressive, gli Stati Uniti fanno inversione di marcia riguardo alla strategia di lotta contro la produzione e il commercio di droga in Afghanistan. Non saranno più concessi finanziamenti per l’eradicazione coatta delle coltivazioni di papavero ma si introdurranno incentivi concreti di sostegno ai contadini per la sostituzione del papavero con altre colture.

Questo è quanto annunciato sabato scorso dall'inviato statunitense per l'Afghanistan e il Pakistan, Richard Holbrooke, in un’intervista concessa all'Associated Press a margine della riunione dei ministri degli Esteri del G8 a Trieste. «L’eradicazione è uno spreco di denaro - ha affermato Holbrooke davanti al ministro degli Esteri afghano Rangin Dadfar Spanta, presente all’incontro - Si possono distruggere alcuni ettari di superficie, ma non si riduce di un solo dollaro la quantità di denaro guadagnata dai talebani. Così facendo abbiamo solo aiutato i talebani. Quindi, faremo in modo da eliminare l’eradicazione».

L’inefficacia delle politiche portate avanti ciecamente dall’amministrazione Bush e fino ad oggi avallate senza discussione dall’Onu è stata evidenziata dalle parole del capo del dipartimento droghe delle Nazioni unite, Antonio Maria Costa, secondo cui distruggere le colture di papavero ha un costo enorme a fronte di risultati minimi, e prende di mira i piccoli produttori che lottano per sopravvivere invece che la base finanziaria del potere talebano. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni unite, l'eradicazione di oppio ha raggiunto un livello elevato nel 2003, subito dopo che i talebani sono stati estromessi dal potere, con oltre 21mila ettari distrutti. 19mila ettari sono stati invece distrutti nel 2007 e solo 5.500 nel 2008.
L'obiettivo della nuova politica statunitense sarà privare i talebani delle decine di milioni di dollari di entrate che, garantiti dal commercio della droga, alimentano l’insurrezione. L’incentivazione di coltivazioni legali è considerata la migliore strategia in questa direzione.

Da Kabul non è venuto nessun commento alle dichiarazioni di Holbrooke, ma non vi sono dubbi che le nuove direttive saranno bene accolte. Molti afghani vivono esclusivamente del loro raccolto, unica fonte di sostentamento e di reddito, e tutti concordano sul fatto che la distruzione delle piantagioni fortemente voluta da Bush ha ottenuto l’unico risultato di radicalizzare i sentimenti antioccidentali, spingendo anche molti contadini moderati a sostenere l’insurrezione dei talebani.

L’incentivazione della legalità è invece la strada fondamentale per dare un futuro alle popolazioni di Afghanistan e Pakistan. Attraverso gli incentivi esse potranno aumentare i redditi, creare posti di lavoro, migliorare lo sviluppo rurale e raffreddare le tensioni regionali. Al contrario l'insicurezza alimentare cronica e la povertà sono le cause profonde dell’instabilità che mina la società civile.
Al momento non sono state ancora fornite cifre in merito ai costi della nuova strategia, ma è certo che gli incentivi all’agricoltura afghana passeranno dalle attuali decine di milioni di dollari l'anno a centinaia di milioni di dollari, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini.

Ovviamente le politiche di supporto all’agricoltura e di contrasto al commercio delle droghe saranno integrate da uno sforzo di rafforzamento delle istituzioni, vera chiave di volta del successo democratico in qualsiasi Paese. Un valido programma di repressione del traffico di droga in Afghanistan richiede anche il coordinamento tra gli Stati confinanti, per intercettare l’eroina prima che raggiunga i tossicodipendenti in Europa, in Russia e in Iran. Negli ultimi mesi i soldati del contingente statunitense e le truppe NATO in Afghanistan hanno iniziato ad attaccare i siti di stoccaggio e i laboratori di lavorazione dell’oppio nel tentativo di privare i talebani dei profitti derivanti dal traffico di stupefacenti. I ministri hanno inoltre previsto di formare una rete regionale di intelligence per bloccare l’importazione degli agenti chimici necessari alla lavorazione dell’eroina.

In Afghanistan si concentra oggi il 93 per cento della produzione mondiale di oppio, dal quale si ricava l’eroina. Pur essendo diminuita del 19 per cento lo scorso anno, la coltivazione del papavero da oppio rimane intatta nelle province meridionali dell’Afghanistan, dove i talebani hanno totale controllo del territorio. 7mila tonnellate di prodotto vengono esportate ogni anno, transitando attraverso Pakistan e Iran, dove il tasso di dipendenza da eroina è altissimo. Lo scorso anno la produzione di oppio ha fruttato ai ribelli islamici da 50 a 70 milioni di dollari, secondo le stime del dipartimento droghe dell’Onu. Allo stesso tempo, solo quest’anno, i derivati dell'oppio prodotto in Afghanistan hanno causato la morte di circa 100mila persone in quelle parti del mondo dove la domanda di stupefacenti è più elevata: Europa, Russia e Asia occidentale.

Bruno Picozzi



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lunedì 22 giugno 2009

Un quarto del mondo a rischio schiavitù


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 139/2009 di Terra

Della schiavitù abbiamo una visione romanzesca, a volte poetica, dall’epopea di Kunta Kinte al buon Venerdì di Robinson Crusoe, dal pantalone stracciato di Jim, amico inseparabile di Hukleberry Finn, alle catene di Massimo Decimo Meridio, in arte “il gladiatore”.

Tutt’al più ci viene insegnato che la schiavitù fu abolita nel 1862 da Abramo Lincoln, e ci commuoviamo a vedere Via col vento non per la vita disgraziata dei lavoratori neri ma per il sorriso e le lacrime dell’opportunista Rossella. Pochi si soffermano a pensare che la schiavitù è sopravvissuta alle galere romane e alle piantagioni di cotone, per giungere ai giorni nostri in forme altrettanto sordide e disumane.

Nel 2003 il Codice penale italiano ha introdotto il reato di riduzione in schiavitù, che comporta una condanna da otto a vent’anni di reclusione. Esso riprende la Convenzione di Ginevra del 1926, secondo la quale la riduzione in schiavitù in buona sostanza è il fatto di trattare un essere umano come un oggetto di proprietà. La Corte di Cassazione ha in seguito stabilito che lo sfruttamento di una persona più debole, assoggettata e costretta contro la sua volontà a forme di lavoro forzato, quali ad esempio prostituzione o accattonaggio, è equiparata alla riduzione in schiavitù, precisando che «la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».

La schiavitù oggi si presenta sotto varie forme, tutte legate dall’idea di costrizione: lavoro nero, accattonaggio, prostituzione, mendicità, furto, spaccio. Persino il lavoro svolto da domestiche e badanti nelle nostre case perbene può nascondere, in casi estremi, la tremenda realtà della schiavitù. Secondo la Direzione antimafia, tra il 2003 e il 2007 sono state 300 le vittime accertate di questo reato in Italia e circa 1000 persone sono state processate. In Francia e Spagna invece le vittime accertate negli ultimi anni sono oltre duemila. La schiavitù non è più quindi un fatto storico, legato a schemi sociali e culturali antichi, ma un fatto ricorrente di cronaca giudiziaria.

Il diritto internazionale si occupa da molto tempo del problema e da tempo si cerca di uniformare le legislazioni e le azioni dei Paesi interessati al fenomeno. Nelle scorse settimane l'amministrazione statunitense ha pubblicato la lista aggiornata dei Paesi sospettati di non fare abbastanza per combattere la tratta di esseri umani, un lungo elenco di nazioni che potrebbero venir colpite da sanzioni se non migliorano le loro performance in materia.

La lista dei “cattivi” iscrive 52 tra Paesi e territori, soprattutto in Africa, Asia e Medio Oriente, con molte new entries rispetto all’anno scorso: Angola, Bangladesh, Cambogia, Iraq, Libano, Nicaragua, Pakistan, Filippine, Qatar, Senegal, Emirati Arabi Uniti e persino le Antille Olandesi. L’aumento del 30 per cento rispetto alla lista precedente è motivato in gran parte dalla crisi economica, che colpisce non solo i supermanager di Wall Street ma anche e soprattutto gli strati più vulnerabili delle popolazioni, dalle periferie industriali ai deserti del sottosviluppo. Ed è proprio la povertà incalzante che sta spingendo milioni di persone in tutto il mondo a cercare soluzioni estreme per sopravvivere, venendo a patti con le reti criminali che ingrassano i canali di migrazione clandestina. Secondo il Segretario di Stato Hillary Clinton, «la pressione economica, soprattutto in questa fase di crisi globale, rende le persone più sensibili alle false promesse dei trafficanti».

Così, dalle spiagge della Libia ai cantieri di Dubai, dai bordelli di Bangkok alle imprese tessili dell’entroterra vesuviano, uomini e donne costretti dalla fame e dalla necessità si lasciano assoggettare e sfruttare, ridotti in catene immateriali che spesso hanno la forma del ritiro del passaporto. In alcuni luoghi, essere clandestino significa essere schiavo.

L’inclusione nella lista degli osservati speciali redatta dal governo Usa riguarda quei Paesi i cui governi non agiscono in maniera pienamente conforme ai requisiti minimi stabiliti dalla legge statunitense per la cooperazione nel quadro degli sforzi mirati a ridurre il traffico di esseri umani, soprattutto in materia di commercio del sesso, lavori forzati e reclutamento di bambini soldato. Un Paese presente per due anni di seguito nella lista può essere sottoposto a sanzioni quali il blocco degli aiuti non-umanitari e degli scambi commerciali con gli Usa, o l’opposizione a prestiti da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
Attualmente sono 17 i Paesi colpiti da sanzioni. Alcuni tradizionali nemici degli Stati Uniti, come Cuba, Iran, Myanmar, Corea del Nord, Sudan e Siria, ma anche amici e alleati americani, come l'Arabia Saudita e il Kuwait.

Bruno Picozzi



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venerdì 29 maggio 2009

In Zimbabwe tutto bene, peggio non si poteva


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118/2009 di Terra

Solo qualche mese fa lo Zimbabwe aveva toccato il fondo. I dipendenti pubblici non venivano pagati, si stampavano banconote da un trilione con cui non si poteva comprare nulla e del resto i negozi erano vuoti. La disoccupazione era al 94 per cento, la gente aveva fame, la politica era all’impasse e si rischiava la guerra civile.

A dire di tutti, colpa del padre-padrone Robert Mugabe che nel 1980 aveva preso in mano un Paese governato dai colonizzatori britannici quasi in regime di apartheid, ma con un’economia solida e prospera, tanto da essere chiamato la “Svizzera d’Africa”. In quegli anni tutta la ricchezza, il potere e la conoscenza erano nelle mani dei bianchi i quali, a misurare col metro del dollaro, facevano le cose per bene. Ciò che non seppero fare fu preparare una classe dirigente locale in un Paese multietnico e tribale. Il passaggio di potere fu invece di matrice violenta, una partita giocata col fragore delle armi.

Mugabe lottò contro i bianchi e vinse. Poi colpì le etnie rivali e vinse. E cominciò, pezzo a pezzo, a smantellare l’impalcatura ingiusta ma efficiente dello Stato coloniale per sostituirla con una struttura dittatoriale, altrettanto ingiusta e largamente inefficiente. Negli anni Novanta furono presi di mira i latifondisti bianchi. Nel 2000 partì la riforma agraria per espropriare le enormi aziende agricole e distribuire le terre tra i contadini neri. Ma la ridistribuzione delle terre non fu accompagnata da misure adeguate, l’economia crollò e la crisi cominciò a galoppare fino a provocare iperinflazione, povertà generalizzata e l’estinzione della valuta locale a fine 2008. Ora, dopo che il nuovo governo di unità nazionale ha superato la magica pietra miliare dei 100 giorni, le cose vanno un po’ meglio. Negli scaffali dei supermercati sono ritornate le merci e i prezzi dei prodotti essenziali stanno lentamente scendendo.

Il nuovo governo è riuscito a ottenere crediti per oltre un miliardo di dollari Usa, ha pagato i dipendenti pubblici e ha consentito agli insegnanti di tornare al lavoro, versando loro un assegno mensile di 100 dollari. Non è abbastanza per vivere ma è sempre meglio delle inutili banconote da un trilione di nulla che si stampavano prima. Secondo Jameson Timba, ministro delle telecomunicazioni, «il nuovo governo ha creato una speranza per il popolo dello Zimbabwe».

Ma il governo di unità nazionale è in fondo un matrimonio d’interesse emerso dal braccio di ferro successivo alle elezioni del 2008, quando l’Mdc, il Movimento per il cambiamento democratico del sindacalista Morgan Tsvangirai, ha vinto sia le presidenziali che le parlamentari. Mugabe non ha riconosciuto la sconfitta e un difficile accordo è stato mediato dalla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, organizzazione che promuove la cooperazione tra i 15 Paesi dell’Africa australe. Tsvangirai è diventato quindi primo ministro ma Mugabe continua in carica come presidente, e in fondo il potere è rimasto nelle mani dell’élite del suo partito, lo Zanu-Pf. Per questo i due litigano su ogni nomina o passaggio politico e continuano a negoziare all’infinito i criteri di spartizione del potere mentre dovrebbero discutere di ricostruzione e creazione di posti di lavoro.

Ora per la maggior parte le scuole pubbliche sono aperte, ma negli ultimi due anni 20mila insegnanti hanno lasciato il Paese. In alcune scuole 15 bambini condividono un solo libro di testo, in altre semplicemente non ci sono libri.

La situazione è molto fragile e la democrazia resta un miraggio. La mancanza di libertà di stampa e le violazioni dei diritti umani dominano la vita politica, molti giornalisti, avvocati, esponenti dell’opposizione e attivisti per i diritti umani lamentano di essere stati molestati dalla polizia. Le attività agricole continuano a essere occupate, mettendo in pericolo la sicurezza alimentare del Paese. Con poco cibo e ancor meno acqua impazza il colera. La recente epidemia è arrivata a 100mila infezioni e 4300 decessi.

Solo l'assenza di un'alternativa ha impedito finora la caduta del governo. L’Mdc ha dimostrato di mantenere gli impegni mentre lo Zanu-Pf è fuori controllo, ma tutti hanno troppo da perdere e dunque l’accordo di spartizione del potere verrà tirato e spinto da ogni lato fin quando non potrà funzionare.

Il Paese ha già ricevuto 2 miliardi di dollari in aiuti da banche e governi africani, ma ha bisogno ancora di oltre 8 miliardi di dollari. I donors occidentali non si fidano e rifiutano di fare credito al governo. Il segretario di Stato degli Usa, Hillary Clinton, sostiene che sarebbe meglio nell’interesse di tutti se Mugabe rassegnasse le dimissioni. Usa e Ue rifiutano di revocare le sanzioni mirate quali il divieto di viaggio e il congelamento dei beni imposte a Mugabe e all’élite dominante del suo partito. Anche il Fmi e la Banca mondiale hanno promesso sostegno, ma vogliono vedere un programma di governo credibile prima di distribuire grandi quantità di denaro contante.

Vedremo cosa succederà nei prossimi 100 giorni.

Bruno Picozzi



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venerdì 22 maggio 2009

L'infinita battaglia per la Terra madre


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 112/2009 di Terra

L’ultima notizia era apparsa appena due settimane fa su Survival International ed era rimbalzata sui mille blog che si occupano degli indios dell’Amazzonia e della loro lotta in difesa delle terre ancestrali, quelle dove essi già vivevano quando Colombo, Cortés e Pizarro non erano ancora nati. La multinazionale colombiana Ecopetrol e la consociata brasiliana Petrobas si apprestano a condurre esplorazioni petrolifere in una vasta area di foresta che dovrebbe diventare riserva per gli indios Murunahua, popolo ancora isolato e quindi estremamente vulnerabile per mancanza di difese immunitarie nei confronti di malattie anche estremamente comuni come la rosolia o l’influenza.

Alla luce della Convenzione Ilo 169 sui popoli indigeni e tribali, in vigore dal 1989, e della più recente Dichiarazione dell’Onu sui diritti dei popoli indigeni, settembre 2007, l’accordo appare come una palese violazione dei diritti dei Murunahua e potrebbe portare al loro etnocidio o, ancora peggio, al loro sterminio. All’accordo tra petrolieri e governo peruviano si oppongono con decisione le comunità indigene, decise a tutto per impedire le esplorazioni. «Ancora una volta il governo del presidente García ha deciso di ignorare i trattati internazionali», aveva dichiarato allora Alberto Pizango, presidente dell’organizzazione indigena nazionale Aidesep, Associazione interetnica di sviluppo della foresta peruviana.

Il 16 maggio scorso, dopo 36 giorni di protesta contro un pacchetto di leggi volte a liberalizzare lo sfruttamento delle foreste, le circa 1350 comunità indigene del Paese hanno proclamato l’ “insurrezione amazzonica” in difesa di quelli che esse considerano i loro diritti inviolabili sulla terra e sulle risorse naturali. Gruppi di nativi hanno bloccato il transito stradale e fluviale nelle cinque regioni in cui vivono, contando sull’appoggio delle popolazioni rurali, degli allevatori e anche di alcune autorità locali.

In tutta risposta il presidente peruviano Alan García ha lasciato all'esercito mano libera contro gli insorti, sostenendo a muso duro che gli indios non possono pretendere di considerarsi i padroni delle regioni amazzoniche. «Le terre dell'Amazzonia sono di tutti i peruviani e non appartengono a un piccolo gruppo», ha affermato García. Affermazioni che ricalcano quelle fatte dal ministro dell’ambiente Antonio Brack lo scorso agosto, quando migliaia di guerrieri con armi rudimentali e facce dipinte dei colori di guerra avevano creato non poco scompiglio in varie zone del Perù.

Sebbene non vi sia notizia di morti o feriti, le massime autorità del Paese stigmatizzano la violenza cui gli indigeni fanno ricorso per far valere le proprie ragioni. Come se aggredire per denaro lo stile di vita e le tradizioni secolari di un popolo, giustificati dal fatto di essere in maggioranza, non fosse di per sé violenza. « I nativi non capiscono - disse allora Brack - che il sottosuolo è di proprietà di tutti i peruviani».

Può darsi che sia vero, che essi non capiscono e che le ricchezze appartengono davvero a tutti. Ma l’inquinamento che deriva dalle estrazioni minerarie e petrolifere rimane poi ai nativi, così come le malattie, la devastazione del territorio, l’avvelenamento dei fiumi e dei campi, l’annientamento culturale, la dipendenza alimentare e tutti i mille, insanabili problemi che sempre affliggono le popolazioni soggette a riconversione del territorio.

In più, cosa strana, non è mai capitato che la ricchezza derivante dalle attività industriali si distribuisca tra i nativi, i quali invece, perse le terre e i tradizionali metodi di sostentamento, rimangono di solito poveri tra i poveri, esclusi ed emarginati. Poiché rifiutano questo, essi vengono accusati di egoismo dal governo peruviano di Alan García, avvocato e sociologo di centrosinistra, la sinistra del sì, per il quale le risorse del Perù sono quelle che si vendono al chilo, al metro, al barile, e non hanno nulla a che vedere con criteri aggressivi e destabilizzanti quali diversità culturale e sviluppo sostenibile.

Le Ong urlano contro la distruzione della biodiversità animale e vegetale causata dalle attività estrattive in Amazzonia e le associazioni dei diritti umani si scagliano contro il genocidio culturale cui vanno incontro i popoli dell’area. Le lobbies industriali denunciano invece posizioni puramente ideologiche che non tengono conto del miglioramento della qualità di vita cui vanno incontro queste genti che, in fondo, vivono coperte di stracci mangiando ragni e serpenti.

Lo scontro è in profondità: da un lato la cultura della quantità, della felicità misurata in numero di giorni vissuti e di metri quadri posseduti; dall’altro la cultura della terra madre, del considerare sé stessi e ogni altro essere vivente come elementi passeggeri di un sistema di cui nessuno è padrone ma tutti siamo parte. In mezzo gli indios Murunahua armati di archi, frecce e colori di guerra, l’esercito peruviano e ricche distese di petrolio che aspettano solo di essere trivellate.

Bruno Picozzi



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giovedì 14 maggio 2009

Muri della discordia


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 105/2009 di Terra

La linea Maginot fu forse la barriera più imponente mai concepita dall’uomo contro l’uomo. Fortificazioni, blocchi di artiglieria e bunker sotterranei dal Belgio meridionale al Mediterraneo, il muro di fuoco voluto dal ministro della guerra André Maginot negli anni Venti avrebbe voluto garantire l’integrità del suolo patrio anzitutto contro il minaccioso fascismo italiano. Inutilmente. In soli sei anni di governo Hitler avrebbe trasformato la Germania nella più potente macchina bellica mai vista. La Blitzkrieg tedesca aggirerà la linea a nord, attraverso il Belgio, annichilando la Francia in tre settimane.

La storia insegna che qualsiasi muro, per quanto solido, può spaventare il nemico per un po’, gli può rendere la vita difficile, ma il momento del confronto arriva sempre. La pace affidata alla passività di un recinto che respinge ed esclude non è vera pace ma solo la quiete che precede la tempesta. Solida è invece la condivisione di regole e principi che rendano possibile a tutti la convivenza. È ciò che in fondo significano il trattato di Roma e gli accordi di Schengen: un’Europa senza confini in cambio di pace. Ma poiché difficile è costruire concordia e compartecipazione mentre facile è versare cemento nelle casseforme, i governi continuano a separare i popoli dai popoli usando la forza bruta laddove meglio varrebbe usare il dialogo e l’ascolto.

E allora si costruiscono muri, di mattoni, di sabbia, di spine, purché solidi e impenetrabili. Per frenare l’immigrazione illegale dal Marocco, la Spagna ha circondato Ceuta e Melilla di un muro alto tre metri sormontato da filo spinato, facendo prosperare i mercanti di uomini capaci di permetterne l’attraversamento.

Barriere simili esistono tra il povero Botswana e il poverissimo Zimbabwe; tra la Malesia e il Brunei; tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman. Migliaia di chilometri di barriere anticontrabbando: 1700 tra Turkmenistan e Uzbekistan; 1800 tra Arabia Saudita e Yemen; 1600 tra India e Birmania. Il Texas border fence tra Usa e Messico supera i 3mila km. Quello tra India e Bangladesh raggiunge i 4mila.

Poi vi sono le barriere di guerra. 21 km di muri separano i quartieri cattolici da quelli protestanti a Belfast, Irlanda del Nord. 740 km di filo spinato dividono in due il Kashmir, musulmani da un lato e indù dall’altro. 240 km di cemento armato segnano la tregua armata tra nord e sud della Corea. A Nicosia, capitale di Cipro, i muri tra greci e turchi stanno pian piano cadendo sotto il peso di accordi veri e duraturi.

Invece non ci sono accordi che fermino la costruzione degli oltre 700 km di barriera che chiudono Israele alla popolazione cisgiordana, attraverso Gerusalemme. Né rimuovere la gabbia completamente chiusa che circonda la Striscia di Gaza, anche dal lato mare. E nemmeno eliminare il berm, 2700 km di sabbia, pietra e mine antiuomo che dividono il Sahara Occidentale in due parti: da un lato città e terre coltivabili, occupate dal Marocco, dall’altro il deserto, lasciato ai saharawi del Polisario.

Bruno Picozzi



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giovedì 7 maggio 2009

Emirati Arabi Armati...


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 101/2009 di Terra

Secondo i dati pubblicati nell’annuario del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma, la Cina si aggiudica il titolo di maggior importatore di armi convenzionali al mondo nel periodo dal 2003 al 2007, con il 12 per cento dello share mondiale, seguita dall’India con l’8 per cento. Nulla di straordinario per le due economie emergenti che da sole rappresentano oltre un terzo dell’umanità. Al terzo posto, con il 7 per cento dell’import d’armi al mondo, si piazzano a sorpresa gli Emirati Arabi Uniti, piccola federazione di sette monarchie dove vivono gli sceicchi delle favole, quelli la cui ricchezza non finisce mai e che possono pagarsi qualsiasi capriccio, costruirsi isole artificiali a forma di palma o farsi assegnare un Gran premio di Formula 1.

Una nazione governata da paperoni dove tutto ciò che è in vendita può essere comprato. E poiché, come si dice, tra gli adulti e i bambini l’unica differenza è la dimensione dei giocattoli, ecco che negli ultimi quattro anni gli Eau, dopo essersi dotati di una trentina di elicotteri d’assalto Apache, hanno acquistato ottanta caccia da combattimento F-16E dagli Usa e dalla Francia cinquanta Mirage 2000-9, meraviglie della tecnologia moderna, contribuendo all’aumento del volume complessivo del commercio di armi convenzionali in Medio Oriente di quasi il 40 percento nel periodo considerato. Una spesa militare che continua a crescere per la piccola nazione araba e che nel solo 2009 dovrebbe superare i 7 miliardi di dollari, cifra ragguardevole superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo nazionale, in proporzione quasi il doppio dell’Italia, missioni all’estero comprese.

Prossimamente alla corte degli sceicchi arriveranno sistemi di difesa ultramoderni e 40 elicotteri d’assalto Black Hawk, per la modica cifra di 9 miliardi di dollari. Con questi ultimi investimenti la United Arab Emirates Air Force potrà contare su 368 apparecchi da combattimento e da trasporto in forza a un corpo di circa 1800 uomini. Eppure nel non lontano 2003 gli Emirati erano solo al quindicesimo posto tra gli importatori d’armi al mondo e schieravano una forza aerea molto meno minacciosa.

La verve di modernizzazione dell’apparato militare è ovviamente legata ai livelli record raggiunti dal prezzo del petrolio subito prima della crisi finanziaria mondiale, e vi è chi trovi normale che in tempi di vacche grasse si tenda a rinforzare l’apparato difensivo dello stato.

Ciononostante la performance da primato preoccupa non poco gli analisti, i quali sottolineano che gli Eau, avendo ormai appianato diplomaticamente le dispute territoriali col vicino Oman e con l’Arabia Saudita, si stanno dotando di tecnologie adatte a respingere minacce che provengono dal mare. Ultimo acquisto un pacchetto di 3,3 miliardi di dollari in missili terra-aria Patriot, gli stessi che durante la guerra del Golfo abbattevano gli Scud iracheni lanciati su Israele.

Gli Eau si trovano esattamente di fronte alla costa iraniana, e difatti disputano con la teocrazia sciita di Teheran la sovranità su alcune isole nel Golfo Persico, proprio all’entrata dello stretto di Hormuz. Una vicinanza non rassicurante vista la gittata dei missili terra-terra iraniani ampiamente capaci di colpire sia le città che i ricchi pozzi petroliferi degli Emirati.

Anche per questo la controversia sullo sviluppo della tecnologia nucleare fortemente voluta dagli ayatollah rischia seriamente di trasformarsi in conflitto armato preventivo. I conservatori musulmani degli Eau sono infatti da decenni tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti d’America, dai quali sono considerati un territorio altamente importante dal punto di vista strategico. La base aerea di al-Dhafra è ampiamente usata dall’aeronautica statunitense per attività militari nel vicino Iraq. Vi stazionano anche 10 Tornado italiani e 4 Mirage francesi. In una base vicina vi sono forze canadesi.

In ballo i milioni di barili di petrolio che ogni giorno attraversano lo stretto di Hormuz alla volta dei grandi consumatori, oltre il 40 per cento dell’approvvigionamento petrolifero mondiale e la quasi totalità della produzione dei Paesi del golfo. Se l’Iran dovesse tentare, come minacciato, di chiudere lo stretto grazie anche alla sovranità de facto sulle isole contestate, sarebbe una catastrofe non da poco per il prezzo del barile sui mercati internazionali.
Per questo motivo navi statunitensi e britanniche incrociano senza sosta nella zona.

A questo quadro non confortante si unisce ovviamente la lunga lista di tensioni che attraversano il Medio Oriente in tutte le direzioni, per cui l’attuale corsa agli armamenti nella regione, sebbene non raggiunga le punte segnate alla metà degli anni Ottanta, è un fattore di destabilizzazione che non può essere sottovalutato.

Da un punto di vista regionale, gli Eau da soli contano per il 34 per cento dell’import di armi convenzionali. Seguono Israele con il 22 per cento e l’Egitto con il 14 per cento. Il pericoloso Iran invece arriva appena al 5 per cento dello share.

Bruno Picozzi



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mercoledì 29 aprile 2009

Centro Asia, un vuoto vertice sulla crisi idrica


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 95/2009 di Terra

Si sono incontrati ieri 28 aprile ad Almaty i presidenti di Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan. Un incontro al vertice per affrontare insieme le tante problematiche specifiche della regione centroasiatica, dalla sicurezza energetica alla cooperazione con gli Stati uniti d’America, i cui cargo con gli approvvigionamenti destinati alle truppe combattenti in Afghanistan usano attraversare gli spazi aerei e terrestri della zona.

In cima all’agenda la spartizione delle scarse risorse idriche regionali, punto chiave delle relazioni diplomatiche tra i cinque stati ex sovietici. Relazioni non idilliache, vista la rarità degli incontri sia bilaterali che multilaterali, a dispetto della prossimità geografica e della quantità di interessi convergenti.

L’acqua è comunque il primo e più importante elemento di contenzioso, essendo tutta la regione stepposa a nord dell’Afghanistan una tra le più aride del mondo. Durante l’era sovietica un accordo regolava gli scambi di risorse, acqua ed energia tra i cinque stati, ma il vecchio sistema non è più in atto. I vari corsi d’acqua nascono dalle montagne che coprono gran parte di Tagikistan e Kirghizistan. Lì vengono incanalati e sbarrati per produrre energia, necessaria per combattere gli inverni freddissimi della zona, e per costituire una risorsa continua a beneficio delle popolazioni a monte. I due stati posseggono in questo modo l’80 per cento delle risorse idriche di tutta l’area.
A valle giacciono invece Kazakistan e Turkmenistan che, pur affacciandosi sul Mar Caspio, hanno territori troppo vasti per poter contare su quest’unica fonte di approvvigionamento. L’Uzbekistan è invece completamente privo di sbocchi e può dissetarsi solo grazie ai pochi fiumi che lo attraversano.

L’incontro dei cinque presidenti ha fatto nascere grandi aspettative, anche se tutti sono consapevoli che sul tavolo non vi sono problemi risolvibili in poco tempo. «La mancanza di acqua, risorsa che in futuro potrebbe essere più richiesta del petrolio e del gas naturale, è già diventata una realtà in molte province interne del continente eurasiatico», affermava lo scorso 23 aprile una nota della Ong canadese Global research.

Un primo vertice già ebbe luogo nel 1994, quando i cinque stati si impegnarono a destinare l’1 per cento del Pil alla salvaguardia del mitico lago d’Aral. Stretto tra Kazakistan e Uzbekistan, una cinquantina di anni fa questo era il quarto bacino al mondo e lo si considerava una inesauribile risorsa di acqua nel centro dell’Asia. Ma dal 1960 in poi ha visto il suo volume ridursi fino al 70 per cento e più della quantità originaria a causa dei prelievi massicci per l’irrigazione delle immense monocolture di cotone, fiore all’occhiello dell’economia tardosovietica. Da qui giungono le enormi quantità di materia grezza che vengono poi lavorate in Cina e trasformate nei tessuti che vestono a basso costo tutti noi occidentali e i popoli di mezzo mondo.

Oggi l’interminabile bacino idrico di Aral è solo un ricordo. Al suo posto vi sono tre laghi di dimensioni decisamente inferiori, quasi privi di flora e di fauna a causa dell’altissima concentrazione salina e dello straordinario inquinamento dovuto alle attività industriali, militari e agricole. Una catastrofe ambientale cui il governo del Kazakistan sta cercando di porre rimedio quanto possibile alimentando il Piccolo Aral, il più settentrionale dei tre bacini superstiti, per diminuirne la salità.

Il più povero e popoloso Uzbekistan si consola invece con il titolo di massimo esportatore di cotone al mondo, ma è ovviamente una vittoria di Pirro. Le comunità che una volta prosperavano sulle coste del lago, grazie alla pesca e alla fertilità del terreno, oggi muoiono di strane incurabili malattie, e l’approvvigionamento idrico del Paese è affidato agli accordi internazionali. Se ad esempio il Kirghizistan non rinuncerà ai già progettati sbarramenti idroelettrici a monte dei corsi d’acqua, l’Uzbekistan a valle si troverà in balia delle regolazioni di flusso idrico gestite dallo stato confinante.

Ecco perché il vertice nella metropoli kazaka di Almaty ha in gioco la stabilità geopolitica della regione, e di questo i leaders sono perfettamente consapevoli. Essi guidano democrazie non abbastanza consolidate da poter reagire pacificamente ad una crisi idrica e inoltre condividono la presenza di forti minoranze etniche, 15 per cento di Uzbeki in Kirghizistan, 5 per cento di Tagiki in Uzbekistan e via dicendo. E una gran quantità di russi dappertutto, generalmente la classe media.

La Russia da sempre guarda ai cinque stati in questione come parte della sua sfera di influenza. Mosca quindi ha grande interesse a giocare un ruolo in questi vertici regionali, che siano incentrati su gas e petrolio, sui tracciati degli oleodotti o anche sull’acqua. Il fatto che nessun rappresentante russo sia stato invitato all’incontro di Almaty è quindi un segno evidente che gli equilibri politici stanno cambiando, anche se al momento nessuno sa verso quale direzione.

Bruno Picozzi



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venerdì 17 aprile 2009

Il pantano del Kenya


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 85/2009 di Terra

«Non riportateci in guerra», titolava qualche giorno fa il Daily Nation, maggior quotidiano del Kenya, lanciando l’allarme sulla profonda crisi politica che attraversa quella che è stata a lungo una delle nazioni più prospere e stabili dell’Africa. Il presidente Kibaki mostra ottimismo ma la “grande coalizione” tra i due maggiori partiti è in crisi e si teme una nuova escalation di violenza come nel dicembre 2007, quando scontri a sfondo etnico e gravi distruzioni di proprietà causarono circa 1500 morti e 250mila profughi.

Il confronto politico in Kenya si specchia nei nodi irrisolti circa la distribuzione delle terre, sgradita eredità della storia coloniale. Parliamo di un Paese immenso abitato da 36 milioni di persone divise in oltre 40 gruppi etnici, che per lunghe generazioni furono costretti a convivere sotto il comune tetto dell’amministrazione britannica.
I kikuyu sono in maggioranza, 22% della popolazione, e grazie agli stretti legami coi colonizzatori europei all’atto dell’indipendenza poterono appropriarsi delle terre migliori. I celebri masai sono pastori e contano solo per l’1%. I kalenjin sono il 12% e hanno governato il Paese fino alla svolta democratica del 2002. I kamba furono il nerbo dell’esercito coloniale. I luo furono impiegati massicciamente come servitù dai padroni bianchi. Relegate ognuna in un suo ruolo dagli inglesi, le varie etnie necessitarono tempo per acquistare un’identità politica nel presidenzialismo forte, monolitico e monopartitico, che seguì l’indipendenza.

La transizione al pluralismo democratico agli inizi degli anni Novanta consentì ai politici locali di pescare consenso nei profondi rancori interetnici, portando a scontri e violenze già nelle elezioni del 1992 quando candidati di etnia kalenjin specularono sul recupero delle terre perdute. Bande di “guerrieri kalenjin” andarono in giro a bruciare case e sloggiare i kikuyu, causando migliaia di morti. Scene ripetute nel 97 e nel 2002, quando Mwai Kibaki divenne per la prima volta presidente.

Kibaki si distinse durante il primo mandato per la divisione del potere tra politici provenienti da ogni regione del Kenya e raggiunse obiettivi importanti quali la gratuità dell’educazione primaria. Ma allo stesso tempo non prese provvedimenti adeguati contro la povertà diffusa né mostrò sufficiente volontà politica di combattere la corruzione dilagante, vera piaga del Paese. Nel 2007 si tennero insieme le elezioni parlamentari e presidenziali. Kibaki corse per un secondo mandato a capo della coalizione Party of National Unity, Pnu. Di contro l’Orange democratic movement, Odm, candidò Raila Odinga, figlio d’arte ed ex ministro, che in parlamento vinse un’ampia maggioranza relativa di 102 seggi contro 78 della coalizione di Kibaki e 27 di altri partiti minori. Kibaki fu invece straordinariamente dichiarato vincitore alle presidenziali con un margine di appena 232mila voti.
Gli osservatori denunciarono il mancato rispetto degli standard elettorali internazionali in favore del presidente uscente Kibaki. Una commissione indipendente in seguito appurò episodi di voto di scambio, intimidazioni degli elettori, brogli in sede di conteggio e un’evidente incompetenza da parte della commissione elettorale.

Dalla guerra politica tra Odinga e Kibaki nacquero le violenze che devastarono il Paese. Un gruppo di mediazione guidato dall’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan, sostenuto dai massimi attori sulla scena internazionale, portò all’inizio della primavera 2008 alla formazione della Grande coalizione, un accordo di condivisione dei poteri tra Kibaki, presidente, e Odinga, primo ministro, con un governo di 41 ministri appartenenti a Pnu e Odm in proporzione alla loro forza parlamentare.

Questa la storia, fino allo scontro su una questione di nomine e alle dimissioni il 4 aprile scorso del ministro della giustizia Martha Karua, personaggio emergente e alleato fondamentale di Kibaki. Il presidente, indebolito, viene ora attaccato da tutti i lati, l’Odm boicotta i lavori del governo e corrono voci insistenti sul riarmo delle milizie che, al soldo di politici locali, furono responsabili delle atrocità che nel 2007 sconvolsero la Rift Valley.

«Il Kenya è a un punto di svolta», ha dichiarato Kofi Annan a Ginevra, quando né Odinga né Kibaki si sono presentati a un colloquio di mediazione. «Non c’è disaccordo su cosa si debba fare», ha aggiunto Annan, parlando di riforma della costituzione e di ridistribuzione della terra, lotta alla povertà, alle disuguaglianze di reddito, alla disoccupazione giovanile e alla corruzione. E dicendo che i veri problemi del Paese sono la politicizzazione delle etnie e l’abuso di potere derivante dall’impunità.

Ma sembra chiaro che in parlamento la Grande coalizione non è vista come uno strumento di cambiamento al servizio della gente bensì come un fine politico in sé stessa, e in queste condizioni ci si chiede come sarà possibile evitare che il Kenya ripiombi nella spirale di morte e distruzione che oggi nessuno auspica ma che tutti temono.

Bruno Picozzi



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