mercoledì 28 gennaio 2009

I piccoli uomini non cantano più

Si chiamano “twa”, o “batwa” al plurale, e sono pigmei, abitanti delle foreste. In fondo null’altro che uomini, anche se i più alti tra loro arrivano appena al petto di un europeo. I colonizzatori tedeschi li incontrarono alla fine dell’800 nelle foreste dell’Africa centrale, nella regione dei Grandi laghi, sparsi tra quelli che oggi sono Ruanda, Burundi, Uganda, Tanzania settentrionale e Congo orientale. Lo stesso territorio abitato dagli altissimi watussi delle canzoni e dei film, quei tutsi del genocidio ruandese che diventano batutsi grazie al prefisso plurale ba proprio delle lingue autoctone. Quegli stessi che oltre dieci anni fa furono massacrati dagli hutu, o bahutu al plurale, una volta noti come bantù.

Cacciatori e raccoglitori di frutta selvatica, i twa vivono in quelle foreste da tempo immemorabile. Erano lì prima che gli hutu vi giungessero dal nord dopo l’anno mille. Molto prima dei tutsi, che vi arrivarono mentre Colombo si aggirava alla corte di Spagna. All’arrivo di questi nuovi popoli i piccoli uomini si rifugiarono sempre più nel profondo delle foreste, spogliati delle proprie terre da agricoltori e pastori, e per secoli riuscirono a sopravvivere sebbene soggiogati da tutti e considerati ultimi nell’implacabile scala sociale centroafricana: primi i tutsi, poi gli hutu, poi gli animali, poi nulla. Infine i twa.

Il terribile colonialismo europeo li trattò con curiosità morbosa, a metà tra fenomeni da baraccone e animali da compagnia. Mentre belgi e inglesi creavano colpevolmente i presupposti di rivalità violenta tra hutu e tutsi, piantando i semi delle guerre che seguirono la decolonizzazione e che ancora oggi proseguono, compreso il genocidio ruandese, i twa rotolarono verso la condizione di subumani, scacciati da dominatori e dominati. In molte aree diventarono gli schiavi dei proprietari terrieri locali e tali sono ancora oggi. Durante la sanguinosissima guerra civile nella Repubblica democratica del Congo, altrimenti conosciuta come “guerra mondiale africana”, i pigmei delle foreste orientali furono fatti oggetto di terrore e massacri, persino cacciati e mangiati come animali selvatici da alcuni gruppi di esaltati paramilitari al soldo delle compagnie minerarie occidentali.

Nel 2000 ne sopravvivevano 80mila, per lo più in estrema povertà, ormai sradicati da terre e tradizioni in una secolare fuga per la sopravvivenza. Nessun governo ha mai riconosciuto i loro domini ancestrali e nessun tipo di compensazione è mai stato discusso. Limitato accesso all’educazione e alla partecipazione politica condannano questo popolo a un implacabile declino.

L’ultima minaccia ha il volto dei ribelli hutu che imperversano nel Kivu meridionale, in Congo. Lo stesso governo che ha venduto le loro terre alle ricche imprese occidentali per deforestarle e sfruttarne le risorse non li ha saputi proteggere dagli stupri e i massacri di quelle stesse milizie interhamwe che operarono il genocidio in Ruanda. Perdendo le foreste i twa hanno perso le case, il cibo, i vestiti e le medicine tradizionali. Ora perdono la vita a colpi di machete.
Nel profondo delle foreste pluviali era la musica ad accompagnare i diversi riti di questa antica società. Gli etnomusicologi raccontano di meravigliosi cori a più voci e di una incredibile varietà di strumenti musicali, di canti gioiosi espressione di tradizioni millenarie. Ora i twa sono disgregati, perseguitati e massacrati dalle guerre per le risorse minerarie pagate dalle imprese dei Paesi industrializzati. Nel mezzo di tanta rovina i piccoli uomini delle foreste non hanno più nessuna ragione per cantare.


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