venerdì 29 maggio 2009
In Zimbabwe tutto bene, peggio non si poteva
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118/2009 di Terra
Solo qualche mese fa lo Zimbabwe aveva toccato il fondo. I dipendenti pubblici non venivano pagati, si stampavano banconote da un trilione con cui non si poteva comprare nulla e del resto i negozi erano vuoti. La disoccupazione era al 94 per cento, la gente aveva fame, la politica era all’impasse e si rischiava la guerra civile.
A dire di tutti, colpa del padre-padrone Robert Mugabe che nel 1980 aveva preso in mano un Paese governato dai colonizzatori britannici quasi in regime di apartheid, ma con un’economia solida e prospera, tanto da essere chiamato la “Svizzera d’Africa”. In quegli anni tutta la ricchezza, il potere e la conoscenza erano nelle mani dei bianchi i quali, a misurare col metro del dollaro, facevano le cose per bene. Ciò che non seppero fare fu preparare una classe dirigente locale in un Paese multietnico e tribale. Il passaggio di potere fu invece di matrice violenta, una partita giocata col fragore delle armi.
Mugabe lottò contro i bianchi e vinse. Poi colpì le etnie rivali e vinse. E cominciò, pezzo a pezzo, a smantellare l’impalcatura ingiusta ma efficiente dello Stato coloniale per sostituirla con una struttura dittatoriale, altrettanto ingiusta e largamente inefficiente. Negli anni Novanta furono presi di mira i latifondisti bianchi. Nel 2000 partì la riforma agraria per espropriare le enormi aziende agricole e distribuire le terre tra i contadini neri. Ma la ridistribuzione delle terre non fu accompagnata da misure adeguate, l’economia crollò e la crisi cominciò a galoppare fino a provocare iperinflazione, povertà generalizzata e l’estinzione della valuta locale a fine 2008. Ora, dopo che il nuovo governo di unità nazionale ha superato la magica pietra miliare dei 100 giorni, le cose vanno un po’ meglio. Negli scaffali dei supermercati sono ritornate le merci e i prezzi dei prodotti essenziali stanno lentamente scendendo.
Il nuovo governo è riuscito a ottenere crediti per oltre un miliardo di dollari Usa, ha pagato i dipendenti pubblici e ha consentito agli insegnanti di tornare al lavoro, versando loro un assegno mensile di 100 dollari. Non è abbastanza per vivere ma è sempre meglio delle inutili banconote da un trilione di nulla che si stampavano prima. Secondo Jameson Timba, ministro delle telecomunicazioni, «il nuovo governo ha creato una speranza per il popolo dello Zimbabwe».
Ma il governo di unità nazionale è in fondo un matrimonio d’interesse emerso dal braccio di ferro successivo alle elezioni del 2008, quando l’Mdc, il Movimento per il cambiamento democratico del sindacalista Morgan Tsvangirai, ha vinto sia le presidenziali che le parlamentari. Mugabe non ha riconosciuto la sconfitta e un difficile accordo è stato mediato dalla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, organizzazione che promuove la cooperazione tra i 15 Paesi dell’Africa australe. Tsvangirai è diventato quindi primo ministro ma Mugabe continua in carica come presidente, e in fondo il potere è rimasto nelle mani dell’élite del suo partito, lo Zanu-Pf. Per questo i due litigano su ogni nomina o passaggio politico e continuano a negoziare all’infinito i criteri di spartizione del potere mentre dovrebbero discutere di ricostruzione e creazione di posti di lavoro.
Ora per la maggior parte le scuole pubbliche sono aperte, ma negli ultimi due anni 20mila insegnanti hanno lasciato il Paese. In alcune scuole 15 bambini condividono un solo libro di testo, in altre semplicemente non ci sono libri.
La situazione è molto fragile e la democrazia resta un miraggio. La mancanza di libertà di stampa e le violazioni dei diritti umani dominano la vita politica, molti giornalisti, avvocati, esponenti dell’opposizione e attivisti per i diritti umani lamentano di essere stati molestati dalla polizia. Le attività agricole continuano a essere occupate, mettendo in pericolo la sicurezza alimentare del Paese. Con poco cibo e ancor meno acqua impazza il colera. La recente epidemia è arrivata a 100mila infezioni e 4300 decessi.
Solo l'assenza di un'alternativa ha impedito finora la caduta del governo. L’Mdc ha dimostrato di mantenere gli impegni mentre lo Zanu-Pf è fuori controllo, ma tutti hanno troppo da perdere e dunque l’accordo di spartizione del potere verrà tirato e spinto da ogni lato fin quando non potrà funzionare.
Il Paese ha già ricevuto 2 miliardi di dollari in aiuti da banche e governi africani, ma ha bisogno ancora di oltre 8 miliardi di dollari. I donors occidentali non si fidano e rifiutano di fare credito al governo. Il segretario di Stato degli Usa, Hillary Clinton, sostiene che sarebbe meglio nell’interesse di tutti se Mugabe rassegnasse le dimissioni. Usa e Ue rifiutano di revocare le sanzioni mirate quali il divieto di viaggio e il congelamento dei beni imposte a Mugabe e all’élite dominante del suo partito. Anche il Fmi e la Banca mondiale hanno promesso sostegno, ma vogliono vedere un programma di governo credibile prima di distribuire grandi quantità di denaro contante.
Vedremo cosa succederà nei prossimi 100 giorni.
Bruno Picozzi
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venerdì 22 maggio 2009
L'infinita battaglia per la Terra madre
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 112/2009 di Terra
L’ultima notizia era apparsa appena due settimane fa su Survival International ed era rimbalzata sui mille blog che si occupano degli indios dell’Amazzonia e della loro lotta in difesa delle terre ancestrali, quelle dove essi già vivevano quando Colombo, Cortés e Pizarro non erano ancora nati. La multinazionale colombiana Ecopetrol e la consociata brasiliana Petrobas si apprestano a condurre esplorazioni petrolifere in una vasta area di foresta che dovrebbe diventare riserva per gli indios Murunahua, popolo ancora isolato e quindi estremamente vulnerabile per mancanza di difese immunitarie nei confronti di malattie anche estremamente comuni come la rosolia o l’influenza.
Alla luce della Convenzione Ilo 169 sui popoli indigeni e tribali, in vigore dal 1989, e della più recente Dichiarazione dell’Onu sui diritti dei popoli indigeni, settembre 2007, l’accordo appare come una palese violazione dei diritti dei Murunahua e potrebbe portare al loro etnocidio o, ancora peggio, al loro sterminio. All’accordo tra petrolieri e governo peruviano si oppongono con decisione le comunità indigene, decise a tutto per impedire le esplorazioni. «Ancora una volta il governo del presidente García ha deciso di ignorare i trattati internazionali», aveva dichiarato allora Alberto Pizango, presidente dell’organizzazione indigena nazionale Aidesep, Associazione interetnica di sviluppo della foresta peruviana.
Il 16 maggio scorso, dopo 36 giorni di protesta contro un pacchetto di leggi volte a liberalizzare lo sfruttamento delle foreste, le circa 1350 comunità indigene del Paese hanno proclamato l’ “insurrezione amazzonica” in difesa di quelli che esse considerano i loro diritti inviolabili sulla terra e sulle risorse naturali. Gruppi di nativi hanno bloccato il transito stradale e fluviale nelle cinque regioni in cui vivono, contando sull’appoggio delle popolazioni rurali, degli allevatori e anche di alcune autorità locali.
In tutta risposta il presidente peruviano Alan García ha lasciato all'esercito mano libera contro gli insorti, sostenendo a muso duro che gli indios non possono pretendere di considerarsi i padroni delle regioni amazzoniche. «Le terre dell'Amazzonia sono di tutti i peruviani e non appartengono a un piccolo gruppo», ha affermato García. Affermazioni che ricalcano quelle fatte dal ministro dell’ambiente Antonio Brack lo scorso agosto, quando migliaia di guerrieri con armi rudimentali e facce dipinte dei colori di guerra avevano creato non poco scompiglio in varie zone del Perù.
Sebbene non vi sia notizia di morti o feriti, le massime autorità del Paese stigmatizzano la violenza cui gli indigeni fanno ricorso per far valere le proprie ragioni. Come se aggredire per denaro lo stile di vita e le tradizioni secolari di un popolo, giustificati dal fatto di essere in maggioranza, non fosse di per sé violenza. « I nativi non capiscono - disse allora Brack - che il sottosuolo è di proprietà di tutti i peruviani».
Può darsi che sia vero, che essi non capiscono e che le ricchezze appartengono davvero a tutti. Ma l’inquinamento che deriva dalle estrazioni minerarie e petrolifere rimane poi ai nativi, così come le malattie, la devastazione del territorio, l’avvelenamento dei fiumi e dei campi, l’annientamento culturale, la dipendenza alimentare e tutti i mille, insanabili problemi che sempre affliggono le popolazioni soggette a riconversione del territorio.
In più, cosa strana, non è mai capitato che la ricchezza derivante dalle attività industriali si distribuisca tra i nativi, i quali invece, perse le terre e i tradizionali metodi di sostentamento, rimangono di solito poveri tra i poveri, esclusi ed emarginati. Poiché rifiutano questo, essi vengono accusati di egoismo dal governo peruviano di Alan García, avvocato e sociologo di centrosinistra, la sinistra del sì, per il quale le risorse del Perù sono quelle che si vendono al chilo, al metro, al barile, e non hanno nulla a che vedere con criteri aggressivi e destabilizzanti quali diversità culturale e sviluppo sostenibile.
Le Ong urlano contro la distruzione della biodiversità animale e vegetale causata dalle attività estrattive in Amazzonia e le associazioni dei diritti umani si scagliano contro il genocidio culturale cui vanno incontro i popoli dell’area. Le lobbies industriali denunciano invece posizioni puramente ideologiche che non tengono conto del miglioramento della qualità di vita cui vanno incontro queste genti che, in fondo, vivono coperte di stracci mangiando ragni e serpenti.
Lo scontro è in profondità: da un lato la cultura della quantità, della felicità misurata in numero di giorni vissuti e di metri quadri posseduti; dall’altro la cultura della terra madre, del considerare sé stessi e ogni altro essere vivente come elementi passeggeri di un sistema di cui nessuno è padrone ma tutti siamo parte. In mezzo gli indios Murunahua armati di archi, frecce e colori di guerra, l’esercito peruviano e ricche distese di petrolio che aspettano solo di essere trivellate.
Bruno Picozzi
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giovedì 14 maggio 2009
Muri della discordia
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 105/2009 di Terra
La linea Maginot fu forse la barriera più imponente mai concepita dall’uomo contro l’uomo. Fortificazioni, blocchi di artiglieria e bunker sotterranei dal Belgio meridionale al Mediterraneo, il muro di fuoco voluto dal ministro della guerra André Maginot negli anni Venti avrebbe voluto garantire l’integrità del suolo patrio anzitutto contro il minaccioso fascismo italiano. Inutilmente. In soli sei anni di governo Hitler avrebbe trasformato la Germania nella più potente macchina bellica mai vista. La Blitzkrieg tedesca aggirerà la linea a nord, attraverso il Belgio, annichilando la Francia in tre settimane.
La storia insegna che qualsiasi muro, per quanto solido, può spaventare il nemico per un po’, gli può rendere la vita difficile, ma il momento del confronto arriva sempre. La pace affidata alla passività di un recinto che respinge ed esclude non è vera pace ma solo la quiete che precede la tempesta. Solida è invece la condivisione di regole e principi che rendano possibile a tutti la convivenza. È ciò che in fondo significano il trattato di Roma e gli accordi di Schengen: un’Europa senza confini in cambio di pace. Ma poiché difficile è costruire concordia e compartecipazione mentre facile è versare cemento nelle casseforme, i governi continuano a separare i popoli dai popoli usando la forza bruta laddove meglio varrebbe usare il dialogo e l’ascolto.
E allora si costruiscono muri, di mattoni, di sabbia, di spine, purché solidi e impenetrabili. Per frenare l’immigrazione illegale dal Marocco, la Spagna ha circondato Ceuta e Melilla di un muro alto tre metri sormontato da filo spinato, facendo prosperare i mercanti di uomini capaci di permetterne l’attraversamento.
Barriere simili esistono tra il povero Botswana e il poverissimo Zimbabwe; tra la Malesia e il Brunei; tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman. Migliaia di chilometri di barriere anticontrabbando: 1700 tra Turkmenistan e Uzbekistan; 1800 tra Arabia Saudita e Yemen; 1600 tra India e Birmania. Il Texas border fence tra Usa e Messico supera i 3mila km. Quello tra India e Bangladesh raggiunge i 4mila.
Poi vi sono le barriere di guerra. 21 km di muri separano i quartieri cattolici da quelli protestanti a Belfast, Irlanda del Nord. 740 km di filo spinato dividono in due il Kashmir, musulmani da un lato e indù dall’altro. 240 km di cemento armato segnano la tregua armata tra nord e sud della Corea. A Nicosia, capitale di Cipro, i muri tra greci e turchi stanno pian piano cadendo sotto il peso di accordi veri e duraturi.
Invece non ci sono accordi che fermino la costruzione degli oltre 700 km di barriera che chiudono Israele alla popolazione cisgiordana, attraverso Gerusalemme. Né rimuovere la gabbia completamente chiusa che circonda la Striscia di Gaza, anche dal lato mare. E nemmeno eliminare il berm, 2700 km di sabbia, pietra e mine antiuomo che dividono il Sahara Occidentale in due parti: da un lato città e terre coltivabili, occupate dal Marocco, dall’altro il deserto, lasciato ai saharawi del Polisario.
Bruno Picozzi
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giovedì 7 maggio 2009
Emirati Arabi Armati...
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 101/2009 di Terra
Secondo i dati pubblicati nell’annuario del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma, la Cina si aggiudica il titolo di maggior importatore di armi convenzionali al mondo nel periodo dal 2003 al 2007, con il 12 per cento dello share mondiale, seguita dall’India con l’8 per cento. Nulla di straordinario per le due economie emergenti che da sole rappresentano oltre un terzo dell’umanità. Al terzo posto, con il 7 per cento dell’import d’armi al mondo, si piazzano a sorpresa gli Emirati Arabi Uniti, piccola federazione di sette monarchie dove vivono gli sceicchi delle favole, quelli la cui ricchezza non finisce mai e che possono pagarsi qualsiasi capriccio, costruirsi isole artificiali a forma di palma o farsi assegnare un Gran premio di Formula 1.
Una nazione governata da paperoni dove tutto ciò che è in vendita può essere comprato. E poiché, come si dice, tra gli adulti e i bambini l’unica differenza è la dimensione dei giocattoli, ecco che negli ultimi quattro anni gli Eau, dopo essersi dotati di una trentina di elicotteri d’assalto Apache, hanno acquistato ottanta caccia da combattimento F-16E dagli Usa e dalla Francia cinquanta Mirage 2000-9, meraviglie della tecnologia moderna, contribuendo all’aumento del volume complessivo del commercio di armi convenzionali in Medio Oriente di quasi il 40 percento nel periodo considerato. Una spesa militare che continua a crescere per la piccola nazione araba e che nel solo 2009 dovrebbe superare i 7 miliardi di dollari, cifra ragguardevole superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo nazionale, in proporzione quasi il doppio dell’Italia, missioni all’estero comprese.
Prossimamente alla corte degli sceicchi arriveranno sistemi di difesa ultramoderni e 40 elicotteri d’assalto Black Hawk, per la modica cifra di 9 miliardi di dollari. Con questi ultimi investimenti la United Arab Emirates Air Force potrà contare su 368 apparecchi da combattimento e da trasporto in forza a un corpo di circa 1800 uomini. Eppure nel non lontano 2003 gli Emirati erano solo al quindicesimo posto tra gli importatori d’armi al mondo e schieravano una forza aerea molto meno minacciosa.
La verve di modernizzazione dell’apparato militare è ovviamente legata ai livelli record raggiunti dal prezzo del petrolio subito prima della crisi finanziaria mondiale, e vi è chi trovi normale che in tempi di vacche grasse si tenda a rinforzare l’apparato difensivo dello stato.
Ciononostante la performance da primato preoccupa non poco gli analisti, i quali sottolineano che gli Eau, avendo ormai appianato diplomaticamente le dispute territoriali col vicino Oman e con l’Arabia Saudita, si stanno dotando di tecnologie adatte a respingere minacce che provengono dal mare. Ultimo acquisto un pacchetto di 3,3 miliardi di dollari in missili terra-aria Patriot, gli stessi che durante la guerra del Golfo abbattevano gli Scud iracheni lanciati su Israele.
Gli Eau si trovano esattamente di fronte alla costa iraniana, e difatti disputano con la teocrazia sciita di Teheran la sovranità su alcune isole nel Golfo Persico, proprio all’entrata dello stretto di Hormuz. Una vicinanza non rassicurante vista la gittata dei missili terra-terra iraniani ampiamente capaci di colpire sia le città che i ricchi pozzi petroliferi degli Emirati.
Anche per questo la controversia sullo sviluppo della tecnologia nucleare fortemente voluta dagli ayatollah rischia seriamente di trasformarsi in conflitto armato preventivo. I conservatori musulmani degli Eau sono infatti da decenni tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti d’America, dai quali sono considerati un territorio altamente importante dal punto di vista strategico. La base aerea di al-Dhafra è ampiamente usata dall’aeronautica statunitense per attività militari nel vicino Iraq. Vi stazionano anche 10 Tornado italiani e 4 Mirage francesi. In una base vicina vi sono forze canadesi.
In ballo i milioni di barili di petrolio che ogni giorno attraversano lo stretto di Hormuz alla volta dei grandi consumatori, oltre il 40 per cento dell’approvvigionamento petrolifero mondiale e la quasi totalità della produzione dei Paesi del golfo. Se l’Iran dovesse tentare, come minacciato, di chiudere lo stretto grazie anche alla sovranità de facto sulle isole contestate, sarebbe una catastrofe non da poco per il prezzo del barile sui mercati internazionali.
Per questo motivo navi statunitensi e britanniche incrociano senza sosta nella zona.
A questo quadro non confortante si unisce ovviamente la lunga lista di tensioni che attraversano il Medio Oriente in tutte le direzioni, per cui l’attuale corsa agli armamenti nella regione, sebbene non raggiunga le punte segnate alla metà degli anni Ottanta, è un fattore di destabilizzazione che non può essere sottovalutato.
Da un punto di vista regionale, gli Eau da soli contano per il 34 per cento dell’import di armi convenzionali. Seguono Israele con il 22 per cento e l’Egitto con il 14 per cento. Il pericoloso Iran invece arriva appena al 5 per cento dello share.
Bruno Picozzi
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