Questo articolo è stato pubblicato sul numero 112/2009 di Terra
L’ultima notizia era apparsa appena due settimane fa su Survival International ed era rimbalzata sui mille blog che si occupano degli indios dell’Amazzonia e della loro lotta in difesa delle terre ancestrali, quelle dove essi già vivevano quando Colombo, Cortés e Pizarro non erano ancora nati. La multinazionale colombiana Ecopetrol e la consociata brasiliana Petrobas si apprestano a condurre esplorazioni petrolifere in una vasta area di foresta che dovrebbe diventare riserva per gli indios Murunahua, popolo ancora isolato e quindi estremamente vulnerabile per mancanza di difese immunitarie nei confronti di malattie anche estremamente comuni come la rosolia o l’influenza.
Alla luce della Convenzione Ilo 169 sui popoli indigeni e tribali, in vigore dal 1989, e della più recente Dichiarazione dell’Onu sui diritti dei popoli indigeni, settembre 2007, l’accordo appare come una palese violazione dei diritti dei Murunahua e potrebbe portare al loro etnocidio o, ancora peggio, al loro sterminio. All’accordo tra petrolieri e governo peruviano si oppongono con decisione le comunità indigene, decise a tutto per impedire le esplorazioni. «Ancora una volta il governo del presidente García ha deciso di ignorare i trattati internazionali», aveva dichiarato allora Alberto Pizango, presidente dell’organizzazione indigena nazionale Aidesep, Associazione interetnica di sviluppo della foresta peruviana.
Il 16 maggio scorso, dopo 36 giorni di protesta contro un pacchetto di leggi volte a liberalizzare lo sfruttamento delle foreste, le circa 1350 comunità indigene del Paese hanno proclamato l’ “insurrezione amazzonica” in difesa di quelli che esse considerano i loro diritti inviolabili sulla terra e sulle risorse naturali. Gruppi di nativi hanno bloccato il transito stradale e fluviale nelle cinque regioni in cui vivono, contando sull’appoggio delle popolazioni rurali, degli allevatori e anche di alcune autorità locali.
In tutta risposta il presidente peruviano Alan García ha lasciato all'esercito mano libera contro gli insorti, sostenendo a muso duro che gli indios non possono pretendere di considerarsi i padroni delle regioni amazzoniche. «Le terre dell'Amazzonia sono di tutti i peruviani e non appartengono a un piccolo gruppo», ha affermato García. Affermazioni che ricalcano quelle fatte dal ministro dell’ambiente Antonio Brack lo scorso agosto, quando migliaia di guerrieri con armi rudimentali e facce dipinte dei colori di guerra avevano creato non poco scompiglio in varie zone del Perù.
Sebbene non vi sia notizia di morti o feriti, le massime autorità del Paese stigmatizzano la violenza cui gli indigeni fanno ricorso per far valere le proprie ragioni. Come se aggredire per denaro lo stile di vita e le tradizioni secolari di un popolo, giustificati dal fatto di essere in maggioranza, non fosse di per sé violenza. « I nativi non capiscono - disse allora Brack - che il sottosuolo è di proprietà di tutti i peruviani».
Può darsi che sia vero, che essi non capiscono e che le ricchezze appartengono davvero a tutti. Ma l’inquinamento che deriva dalle estrazioni minerarie e petrolifere rimane poi ai nativi, così come le malattie, la devastazione del territorio, l’avvelenamento dei fiumi e dei campi, l’annientamento culturale, la dipendenza alimentare e tutti i mille, insanabili problemi che sempre affliggono le popolazioni soggette a riconversione del territorio.
In più, cosa strana, non è mai capitato che la ricchezza derivante dalle attività industriali si distribuisca tra i nativi, i quali invece, perse le terre e i tradizionali metodi di sostentamento, rimangono di solito poveri tra i poveri, esclusi ed emarginati. Poiché rifiutano questo, essi vengono accusati di egoismo dal governo peruviano di Alan García, avvocato e sociologo di centrosinistra, la sinistra del sì, per il quale le risorse del Perù sono quelle che si vendono al chilo, al metro, al barile, e non hanno nulla a che vedere con criteri aggressivi e destabilizzanti quali diversità culturale e sviluppo sostenibile.
Le Ong urlano contro la distruzione della biodiversità animale e vegetale causata dalle attività estrattive in Amazzonia e le associazioni dei diritti umani si scagliano contro il genocidio culturale cui vanno incontro i popoli dell’area. Le lobbies industriali denunciano invece posizioni puramente ideologiche che non tengono conto del miglioramento della qualità di vita cui vanno incontro queste genti che, in fondo, vivono coperte di stracci mangiando ragni e serpenti.
Lo scontro è in profondità: da un lato la cultura della quantità, della felicità misurata in numero di giorni vissuti e di metri quadri posseduti; dall’altro la cultura della terra madre, del considerare sé stessi e ogni altro essere vivente come elementi passeggeri di un sistema di cui nessuno è padrone ma tutti siamo parte. In mezzo gli indios Murunahua armati di archi, frecce e colori di guerra, l’esercito peruviano e ricche distese di petrolio che aspettano solo di essere trivellate.
Bruno Picozzi
venerdì 22 maggio 2009
L'infinita battaglia per la Terra madre
Labels:
Amazzonia,
Cultura di guerra,
Diversità culturale,
Perù
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