Questo articolo è stato pubblicato sul numero 157/2009 di Terra
Sembra ormai fatta per Susilo Bambang Yudhoyono, presidente indonesiano uscente che, secondo le ultime proiezioni, sarebbe stato confermato già al primo turno delle elezioni presidenziali tenutesi mercoledì scorso con oltre il 60 per cento dei consensi.Alle sue spalle, con il 27 per cento, l’anziana presidentessa già sconfitta nel 2004, Megawati Sukarnoputri, figlia dell’eroe dell’indipendenza Sukarno. Invece il vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, si è fermato al 13 per cento. Quasi una competizione fatta in casa, quindi, tra vecchi compagni e avversari che nulla lasciano alla novità e al cambiamento.
Piuttosto strano per una nazione che conta quasi 240 milioni di abitanti, quarto Paese più popoloso al mondo, terza democrazia e prima nazione per numero di musulmani. Con i suoi 300 e passa gruppi etnici, le 742 lingue parlate e le sei religioni riconosciute, il tutto sparso per 17.508 isole grandi e piccole, l’Indonesia dovrebbe essere uno Stato dinamico, vitale, sempre adagiato sull’orlo del rinnovamento. Invece i personaggi al potere sono oggi gli stessi di ieri e, probabilmente, gli stessi di domani.
Nelle sue prime dichiarazioni Yudhoyono ha promesso di abbracciare l’onda riformista che attraversa il mondo intero per dare impulso all’economia e scacciare i fantasmi della crisi. Con l’aiuto di Allah onnipotente, sia ben chiaro.
Solo dieci anni fa l’Indonesia era etichettata come “il malato dell’Asia”, sempre sul filo del fallimento dal punto di vista sociale, economico e soprattutto politico. Il trentennio del feroce dittatore anticomunista Suharto, benvoluto dalla Cia e dalle potenze occidentali, aveva lasciato un livello impressionante di corruzione e nepotismo, oltre che un milione di morti e un numero incredibile di conflitti armati: Aceh, Timor Est, Sulawesi, Molucche, West Papua, oltre a una quantità di rivendicazioni da parte di popolazioni indigene.
La discutibile democrazia giunta a furor di popolo in sostituzione della dittatura ha fatto meglio, ma non bene. La concessione della libertà d’espressione ha aperto sicuramente scenari nuovi tra questi popoli antichi. La decentralizzazione del potere politico ha permesso la crescita di quadri locali e una maggiore rispondenza delle scelte ai bisogni locali. La separazione tra polizia e esercito ha sicuramente migliorato le qualità democratiche del Paese.
Ma un decennio di neoliberismo incontrollato e privatizzazioni ha causato l’aumento di povertà, disoccupazione e distruzione ambientale. Come dappertutto. Oggi oltre 100 milioni di indonesiani vivono con meno di 2 dollari al giorno, 37 milioni sono disoccupati e migliaia di bambini soffrono di malnutrizione. La destrutturazione dell’industria nazionale, sia in campo agricolo che manifatturiero, ha visto salire alla ribalta una generazione arrogante di uomini d’affari che si sono impadroniti senza ritegno delle risorse naturali del Paese, entrando in rotta di collisione con le popolazioni indigene che vengono zittite attraverso ogni tipo di abusi da parte di militari e paramilitari.
La deforestazione incalzante è il termometro di quanto sta avvenendo: miniere e trivellazioni avanzano, siano i mezzi legali o illegali, la foresta retrocede. La gente non è consapevole di questa lenta ma inesorabile degradazione del territorio e della società e concede il suo voto ai soliti noti, mentre le oligarchie da sempre al potere si combattono per impugnare le leve del comando. L’estremismo religioso pesca nel malcontento diffuso e mette in pericolo la democrazia. Tutto ciò, i riformisti indonesiani lo chiamano sviluppo.
Molti osservatori comunque sottolineano che il governo dell’attuale presidente Yudhoyono ha portato stabilità politica, una ventata di pace e la migliore performance economica degli ultimi dieci anni. Il presidente esce inoltre politicamente rafforzato dal voto di mercoledì e anche dalle elezioni parlamentari dello scorso aprile, nelle quali il suo partito democratico ha più che triplicato il numero di seggi. Eppure il Paese continua a non vedere le riforme promesse, affondato com’è dalla corruzione dilagante e dalla povertà diffusa. La gente avrebbe voluto ascoltare candidati autorevolmente schierati contro gli errori del passato, con idee nuove e voglia di lottare. Invece si ritrovano con le stesse ricette già bruciate e gli stessi volti di prima.
Nella corsa elettorale il terzo candidato e vicepresidente uscente, Jusuf Kalla, ha condotto la sua campagna proponendo come suo vice Wiranto, ex comandante in capo dell’esercito accusato dalle Nazioni unite di crimini contro l’umanità per i massacri a Timor Est, nel 1999, e già candidato sconfitto nel 2004. L’anziana presidentessa Sukarnoputri ha invece candidato alla vicepresidenza Prabowo Subiyanto, tenente generale in pensione che comandava le truppe speciali Kopasus responsabili nel 1998 della sanguinaria repressione ai danni degli attivisti democratici. È probabile che gli indonesiani si aspettassero un altro tipo di cambiamento, che non avranno.
Bruno Picozzi
sabato 11 luglio 2009
L’Indonesia in mano ai soliti noti
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