Questo articolo è stato pubblicato sul numero 165/2009 di Terra
Nel suo discorso per il bicentenario della “rivoluzione di luglio 1809”, primo passo verso l’indipendenza del Sudamerica, il presidente Morales ha affermato la necessità per tutto il continente di rigettare l’influenza militare statunitense. Alle parole di Morales hanno fatto eco gli altri capi di Stato sudamericani presenti. Secondo l’ecuadoriano Rafael Correa «i popoli dell’America latina lottano affratellati per la seconda e definitiva indipendenza». Il venezuelano Hugo Chávez ha parlato di battaglia in corso contro le minacce degli imperi. Il paraguayano Fernando Lugo ha auspicato che i popoli sudamericani «diano vita all’unità, all’integrazione, all’equità e all’uguaglianza necessari per un’esistenza veramente indipendente».
Parole pesanti, pronunciate alla presenza del vicepresidente del Consiglio dei ministri cubano Jorge Luis Guerra e del rappresentante del deposto presidente honduregno Manuel Zelaya.
È una vera e propria rivoluzione copernicana che sembra farsi largo nel Sudamerica, una volta giardino di casa degli Usa e preda di dittature destrorse bellamente finanziate dalla Cia, oggi gigantesco laboratorio sociale gestito da presidenti socialisti e socialdemocratici che, grazie a leggi sinceramente progressiste, cercano di dare pari dignità sia ai discendenti dei conquistadores, oggi latifondisti e depositari del potere economico, che a quelli delle popolazioni autoctone, gli indigeni, oggi come ieri ultimi degli ultimi.
In questa lotta la Bolivia è sicuramente in prima fila, grazie all’approvazione con larga maggioranza, lo scorso gennaio, della nuova costituzione voluta da Evo Morales, primo presidente indigeno del Paese. Un passo importantissimo verso il riconoscimento dei diritti dei nativi, nonostante la forte opposizione delle regioni ricche dell’Est, dove vivono i latifondisti e i boliviani con origini europee.
La società boliviana, come tutta l’America latina, è anch’essa figlia di quei secoli bui di conquista europea attuata in nome di Dio e dell’oro, che ha lasciato a tutto il continente due eredità: un’oligarchia terriera composta dalle famiglie che ebbero antenati potenti, per lo più bianchi, e la grande povertà degli indigeni che, privati delle terre e della cultura, hanno potuto solo essere schiavi del potere.
Fu in Bolivia che visse l’ultima parte della sua avventura Che Guevara, ucciso a Santa Cruz dopo la cattura. Protetto dalla dittatura boliviana visse libero il boia di Lione, Klaus Barbie, scampato al processo di Norimberga e diventato poi agente al servizio degli Usa.
In Bolivia avvenne nel 2000 la rivolta di Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, paradigma di tutti i movimenti popolari di resistenza contro l’occupazione del territorio da parte delle lobbies industriali e finanziarie.
Fu la Bolivia il teatro della “guerra del gas”, una violenta insurrezione popolare nel 2003 contro l’allora presidente Sánchez de Lozada che fu domata a colpi di fucile. Decine di manifestanti furono uccisi e il presidente fu costretto all’esilio volontario negli Stati Uniti. Da allora prese il potere Evo Morales, leader sindacale dei produttori di coca, grande oppositore della politica regionale degli Usa.
La nuova costituzione approvata a larga maggioranza dalla popolazione boliviana è un macigno lanciato nel futuro del Paese per distruggere schemi antichi e ridistribuire ricchezze e potere tra la popolazione. Essa concede autonomia ai popoli indigeni e concentra nelle mani dello stato il controllo dell’economia. A trentasei gruppi indigeni viene riconosciuto il diritto di proprietà sui territori ancestrali e sulle loro immense risorse e il diritto di far uso delle proprie leggi tradizionali e delle proprie lingue madri. Una rivoluzione indigenista, quindi, ma anche un grosso colpo alle oligarchie terriere: gli immensi latifondi del Paese saranno limitati a proprietà di non oltre 5mila ettari.
Contrari alla nuova costituzione tutte le destre e i gruppi del potere economico, le regioni ricche di gas e petrolio della cosiddetta mezzaluna orientale, che saranno costrette a dividere i ricchi proventi delle esportazioni con le regioni agricole a maggiore presenza indigena. Contrari anche i papaveri del clero, impauriti dalla proclamata laicità dello stato che potrebbe, in ultima analisi, aprire la Bolivia ai temuti diritti degli abortisti e dei gay. Meglio morti di fame ma timorati di Dio, questa sarebbe la posizione dei vescovi.
Sono questi gli stessi settori conservatori che, in tutta la società sudamericana, hanno sempre visto di buon occhio l’intervento neocolonialista degli Usa nella politica e nell’economia del continente. Ma il vento nuovo che soffia da sinistra ha spinto Morales ad affermare che «chiunque ospiti una base militare nordamericana in qualsiasi Paese è un traditore della patria». Con buona pace di Álvaro Uribe che conta di aprirne ben tre nella sua Colombia, in sostituzione di quella chiusa proprio venerdì scorso a Manta, in Ecuador, per volontà del presidente Correa.
Bruno Picozzi
martedì 21 luglio 2009
Un continente ancora in lotta per l'indipendenza
Labels:
America Latina,
Bolivia
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