giovedì 19 febbraio 2009

Un limbo chiamato Kosovo

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 38/2009 di Notizie Verdi

Per celebrare il primo anno di vita del Kosovo la capitale Pristina si è vestita di bandiere, colori e cartelli con su scritto “buon compleanno”. Il parlamento del più giovane stato europeo si è riunito martedì scorso alle 11 in punto, l’ora esatta della dichiarazione di indipendenza dalla Serbia. In migliaia sono scesi per strada a festeggiare, cantando l’inno nazionale e ostentando la propria identità culturale, di matrice albanese. Sullo sfondo una situazione relativamente migliore di un anno fa, quando si conviveva con black out elettrici continui, acqua a singhiozzo e servizi inesistenti, pesante eredità della guerra recente.

Eppure i problemi sono ancora tanti, la disoccupazione ha raggiunto il 75% tra i più giovani mentre i prezzi sono divorati dall’inflazione, e il piccolo stato balcanico vive nel limbo di un’esistenza precaria, garantita dal poco consistente ombrello diplomatico europeo, per l’occasione anche dimezzato. Solo 54 Paesi, dei 192 aderenti all’Onu, hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. A favore la madre Albania, gran parte del blocco Nato, Usa in testa, con gli alleati Turchia e Giappone e buona parte degli ex fratelli jugoslavi. Contraria ovviamente la Serbia che ha fatto ricorso alla Corte internazionale di giustizia contro la secessione unilaterale. Contrari Russia e Cina, ma anche l’India, erosa com’è da tanti piccoli conflitti interni di matrice autonomista e separatista. Contrari gli europei Spagna, Grecia, Romania e Cipro, alle prese con i rispettivi indipendentismi. Contraria la Bosnia.

Una missione civile, la Eulex, è stata finanziata dall’Ue con circa duemila tra poliziotti, magistrati, avvocati e doganieri inviati con lo scopo di aiutare il giovane governo a costruire uno stato di diritto. A questi si aggiungono migliaia di militari Nato, europei e statunitensi, nel ruolo di peacekeepers, principalmente chiamati a proteggere il 10% della popolazione di etnia serba concentrata nella regione settentrionale di Mitrovica. Da gennaio il Kosovo può anche contare su un suo piccolo esercito nel cui reclutamento sono state coinvolte le minoranze.

Le catastrofi preannunciate da alcuni analisti non si sono verificate: né esodo di serbi verso la madrepatria, né guerre di pulizia etnica, né destabilizzazione della regione, né secessioni a catena. Ma le relazioni con il governo serbo, che peraltro è filoeuropeo, sono di aperta ostilità. Piccoli incidenti ricorrenti tra le due comunità hanno allontanato Mitrovica dal controllo di Pristina. Non vi circolano le forze dell’ordine kosovare e nemmeno gli europei dell’Eulex sono benvenuti. Un parlamentino alternativo, apertamente appoggiato da Belgrado, guida la piccola comunità serba in terra kosovara, rifiutando ogni offerta di dialogo. Del resto coloro che a Pristina sono eroi, a Belgrado sono considerati criminali di guerra.

Ma il fatto grave è che la giovane classe politica mostra debolezza e incapacità. Una prima fase di transizione avrebbe dovuto chiudersi con le elezioni politiche che sono state invece rimandate, rimandando con esse il rafforzamento democratico della nazione. Molti accusano i dirigenti attuali di essere la soldataglia e i contrabbandieri di ieri riciclati alla politica, gente inadatta a gestire un processo democratico. L’economia non decolla, colpa della crisi globale ma anche del fatto che il Kosovo non produce nulla e sopravvive di rimesse dall’estero e di aiuti internazionali.

Nel frattempo il popolo fa festa e i giovani sperano in un futuro di pace, benessere e apertura verso l’Europa. Ma il Kosovo rimane oggi una piccola prigione da cui è difficile uscire, e se le aspettative create con l’indipendenza non saranno rispettate sentiremo ancora parlare di questo piccolo stato troppo vicino a noi.

Bruno Picozzi


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