mercoledì 11 marzo 2009

Il Burundi verso la pace

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 55/2009 di Notizie Verdi

Mentre tutti i riflettori erano puntati sulla crisi di Gaza, in Africa un’altra guerra dalle radici lontane e profonde si incamminava inesorabilmente verso la fine. L’ultimo gruppo armato di ribelli hutu attivo in Burundi, il “Partito per la liberazione dell’etnia hutu” (Palipehutu forces for national liberation), ha annunciato di recente di aver deposto le armi e di aver cambiato il proprio nome in Fln (Forces for national liberation), rinunciando alla bellicosa definizione su base etnica che era stata messa fuorilegge dal governo. Con la trasformazione di questo gruppo armato in forza meramente politica sembra completarsi il lungo processo di stabilizzazione del Paese cominciato alla fine degli anni Novanta.

Quando nel 1994 in Ruanda, dopo decenni di scontri su base etnica, si consumò il più terribile genocidio della storia contemporanea, in quello stesso periodo cause e condizioni assolutamente parallele scuotevano il vicino Burundi dove le stesse etnie, hutu e tutsi, si disputavano il potere.
In entrambi i casi il seme maligno fu piantato dalle politiche colonialiste della Germania prima e del Belgio poi, colpevoli di aver fortemente privilegiato la minoranza tutsi a svantaggio della maggioranza hutu, in quello che fu il territorio del Ruanda-Urundi.

Il secolare equilibrio tra le due etnie che permetteva una inaspettata prosperità a questo territorio, già organizzato in regni all’arrivo dei tedeschi, fu quindi totalmente sbilanciato a favore dei tutsi, trasformando il risentimento degli hutu in odio e le rivalità per il controllo della terra in scontri all’ultimo sangue. I massacri cominciarono prima ancora dell’indipendenza dal Belgio, alla fine degli anni Cinquanta, creando forti movimenti di popolazione tra i due Stati.

Gli ostacoli fondamentali alla democratizzazione del Burundi risultarono da un puro calcolo matematico: in un Paese con l’85% di popolazione hutu, la minoranza tutsi non credette in una strada democratica per l’affermazione dei propri diritti. Ne risultò la via dell’abuso e della prevaricazione. I tutsi, grazie ai privilegi lasciati in eredità dal colonialismo, si impadronirono del governo, della burocrazia, dell’esercito e delle forze di polizia, volgendo quindi a proprio vantaggio l’amministrazione della giustizia e dell’economia. Decenni di dittatura militare e l’eliminazione fisica dei leader politici hutu fecero il resto.
Ancora nel 1998 l’esercito e le forze di polizia erano largamente sotto il controllo della minoranza tutsi, secondo un rapporto del Dipartimento di stato statunitense.
In quel periodo si parlava di 900 morti al mese. Alcuni definirono gli anni di guerra civile in Burundi un “genocidio al rallentatore”.

Ma dopo decenni di scontri e 300mila morti il piccolo Paese centroafricano imboccò la strada della condivisione dei poteri. In seguito agli sviluppi degli accordi di Arusha del 2000, le milizie ribelli hutu furono integrate nell’esercito. Ugualmente le forze di polizia si divisero tra le due etnie. Si stabilì un governo di transizione con un presidente tutsi e un vicepresidente hutu che si sarebbero scambiati i ruoli dopo 18 mesi. Una nuova costituzione nel 2004 garantì sufficiente rappresentanza politica in parlamento alle due etnie, 40% dei seggi alla minoranza tutsi e il resto agli hutu.

Nonostante le violenze non siano mai del tutto cessate in questi anni, la decisione presa dal Palipehutu di trasformarsi in partito politico e di partecipare alla prossima competizione elettorale del 2010 è solo l’ultimo passo del lungo cammino di riconciliazione. La piena integrazione politica e sociale di questo gruppo è, secondo molti analisti, l’ultima barriera alla stabilizzazione del Burundi. Se questa avverrà come sembra, il Burundi potrà essere ragionevolmente preso a modello per mettere fine alle tensioni che insanguinano le vicine regioni congolesi di Kivu e Ituri, nonché il confinante Uganda.

Bruno Picozzi


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