Questo articolo è stato pubblicato sul numero 85/2009 di Terra
«Non riportateci in guerra», titolava qualche giorno fa il Daily Nation, maggior quotidiano del Kenya, lanciando l’allarme sulla profonda crisi politica che attraversa quella che è stata a lungo una delle nazioni più prospere e stabili dell’Africa. Il presidente Kibaki mostra ottimismo ma la “grande coalizione” tra i due maggiori partiti è in crisi e si teme una nuova escalation di violenza come nel dicembre 2007, quando scontri a sfondo etnico e gravi distruzioni di proprietà causarono circa 1500 morti e 250mila profughi.
Il confronto politico in Kenya si specchia nei nodi irrisolti circa la distribuzione delle terre, sgradita eredità della storia coloniale. Parliamo di un Paese immenso abitato da 36 milioni di persone divise in oltre 40 gruppi etnici, che per lunghe generazioni furono costretti a convivere sotto il comune tetto dell’amministrazione britannica.
I kikuyu sono in maggioranza, 22% della popolazione, e grazie agli stretti legami coi colonizzatori europei all’atto dell’indipendenza poterono appropriarsi delle terre migliori. I celebri masai sono pastori e contano solo per l’1%. I kalenjin sono il 12% e hanno governato il Paese fino alla svolta democratica del 2002. I kamba furono il nerbo dell’esercito coloniale. I luo furono impiegati massicciamente come servitù dai padroni bianchi. Relegate ognuna in un suo ruolo dagli inglesi, le varie etnie necessitarono tempo per acquistare un’identità politica nel presidenzialismo forte, monolitico e monopartitico, che seguì l’indipendenza.
La transizione al pluralismo democratico agli inizi degli anni Novanta consentì ai politici locali di pescare consenso nei profondi rancori interetnici, portando a scontri e violenze già nelle elezioni del 1992 quando candidati di etnia kalenjin specularono sul recupero delle terre perdute. Bande di “guerrieri kalenjin” andarono in giro a bruciare case e sloggiare i kikuyu, causando migliaia di morti. Scene ripetute nel 97 e nel 2002, quando Mwai Kibaki divenne per la prima volta presidente.
Kibaki si distinse durante il primo mandato per la divisione del potere tra politici provenienti da ogni regione del Kenya e raggiunse obiettivi importanti quali la gratuità dell’educazione primaria. Ma allo stesso tempo non prese provvedimenti adeguati contro la povertà diffusa né mostrò sufficiente volontà politica di combattere la corruzione dilagante, vera piaga del Paese. Nel 2007 si tennero insieme le elezioni parlamentari e presidenziali. Kibaki corse per un secondo mandato a capo della coalizione Party of National Unity, Pnu. Di contro l’Orange democratic movement, Odm, candidò Raila Odinga, figlio d’arte ed ex ministro, che in parlamento vinse un’ampia maggioranza relativa di 102 seggi contro 78 della coalizione di Kibaki e 27 di altri partiti minori. Kibaki fu invece straordinariamente dichiarato vincitore alle presidenziali con un margine di appena 232mila voti.
Gli osservatori denunciarono il mancato rispetto degli standard elettorali internazionali in favore del presidente uscente Kibaki. Una commissione indipendente in seguito appurò episodi di voto di scambio, intimidazioni degli elettori, brogli in sede di conteggio e un’evidente incompetenza da parte della commissione elettorale.
Dalla guerra politica tra Odinga e Kibaki nacquero le violenze che devastarono il Paese. Un gruppo di mediazione guidato dall’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan, sostenuto dai massimi attori sulla scena internazionale, portò all’inizio della primavera 2008 alla formazione della Grande coalizione, un accordo di condivisione dei poteri tra Kibaki, presidente, e Odinga, primo ministro, con un governo di 41 ministri appartenenti a Pnu e Odm in proporzione alla loro forza parlamentare.
Questa la storia, fino allo scontro su una questione di nomine e alle dimissioni il 4 aprile scorso del ministro della giustizia Martha Karua, personaggio emergente e alleato fondamentale di Kibaki. Il presidente, indebolito, viene ora attaccato da tutti i lati, l’Odm boicotta i lavori del governo e corrono voci insistenti sul riarmo delle milizie che, al soldo di politici locali, furono responsabili delle atrocità che nel 2007 sconvolsero la Rift Valley.
«Il Kenya è a un punto di svolta», ha dichiarato Kofi Annan a Ginevra, quando né Odinga né Kibaki si sono presentati a un colloquio di mediazione. «Non c’è disaccordo su cosa si debba fare», ha aggiunto Annan, parlando di riforma della costituzione e di ridistribuzione della terra, lotta alla povertà, alle disuguaglianze di reddito, alla disoccupazione giovanile e alla corruzione. E dicendo che i veri problemi del Paese sono la politicizzazione delle etnie e l’abuso di potere derivante dall’impunità.
Ma sembra chiaro che in parlamento la Grande coalizione non è vista come uno strumento di cambiamento al servizio della gente bensì come un fine politico in sé stessa, e in queste condizioni ci si chiede come sarà possibile evitare che il Kenya ripiombi nella spirale di morte e distruzione che oggi nessuno auspica ma che tutti temono.
Bruno Picozzi
venerdì 17 aprile 2009
Il pantano del Kenya
Labels:
Cultura di guerra,
Kenya
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