lunedì 10 novembre 2008

I bambini del Congo: o piccoli soldati o morti di fame e violenze

Gli occhi dei bambini di Kibati: Dio mio, li hai mai visti, quegli occhi, David Miliband, ministro degli Esteri di sua Maestà britannica? No, non li hai visti, perché in questo caso non avresti detto che, soltanto ora, nella parte orientale del Congo si rischia la più grande catastrofe umanitaria dei tempi moderni. Non li hai visti, quegli occhi, quando sei passato da Goma, capitale assediata del Kivu, e ti hanno portato soltanto al quartiere generale dell’inutile, tremebondo esercito con il casco blu dell’Onu. Sono occhi pieni di spavento, di un dolore senza lagrime, da non potersi piangere a viso aperto. Non è entrato, il ministro, nella tenda ospedale di «Médecins sans frontières», dopo aver superato la procedura di sicurezza, la tenda dove stanno i bambini colerosi. Sempre di più, ogni giorno che passa, con i grandi occhi sgranati di chi è arrivato all’ultima resa dei conti con la vita.

E il portavoce della missione umanitaria francese, François Dumont, racconta che spesso non li si può salvare perché i contagiati fuggono per la paura dei combattimenti e non si riesce a trovarli più nel grande caos di Goma.

E i bambini soldato? Quelli con la divisa verde di Kabila, il presidente, il kalashnikov tenuto sulle spalle come fosse una canna, l’elmetto (ah, non ci sono al mondo ancora gli elmetti da bambini, bisognerà pensarci, fabbricare) calato fin sugli occhi per non vedere, non avere paura. Quando arrivano a Goma le autorità straniere, i Grandi dell’Onu e dell’Umanitario, li fanno sparire, li tengono in caserma. L’Occidente ha il cuore tenero, le guerre le vuole ragionevoli e con pochi morti. Ma qui siamo in Africa, si impara presto a uccidere e a essere uccisi. I giochi, la scuola, il diritto a essere felici sono dettagli che pochi possono permettersi.

Già, la più grande catastrofe umanitaria dell’Africa non è una possibilità: purtroppo è già avvenuta, siamo all’ultimo capitolo. Ci è semplicemente passata davanti agli occhi e per 14 anni: ha ucciso un milione di persone, tiene in ostaggio i superstiti, una generazione di bambini ad esempio che non ha mai avuto il diritto di sorridere. L’Onu, l’Occidente, le potenze, tutti non ce ne siamo accorti. E così oggi nella parte orientale del Congo si svolge la prima guerra in cui i profughi i rifugiati i fuggiaschi sono ormai ridotti alla condizione di arma, che entrambi i contendenti brandiscono con indifferenza, cinismo e ferocia.

A Kibati, dodici chilometri fuori da Goma, capitale del distretto di una delle regioni del mondo più ricche in minerali e disperazione umana, si ammassano questi sopravvissuti di questa guerra dei Grandi laghi, che assomiglia ai conflitti europei che si innestavano gli uni negli altri, fino a formare unici, ultradecennali macelli. Loro hanno percorso tutti i gironi dell’inferno, fuggendo, camminando, urlando di dolore e di paura. E sono ancora vivi. Non li hanno ammazzati ladrerie iperboliche del Grande Furfante, Mobutu, che chiedeva la tassa persino sulle biciclette e sulle lenzuola degli ospedali e hanno così riempito i forzieri di altri congolesi, i notabili, i corrotti, a Parigi in Svizzera in Belgio. Non sono morti quando qui è arrivata un’altra folla di disperati, gli hutu ruandesi, inseguiti dalla Vendetta dei tutsi, ed erano armati e volevano cibo e terra. Non sono stati torturati a morte dai soldati di Cabila, il padre e poi il figlio, che adesso governa il Congo ma solo la parte che non conta niente, dove non ci sono i diamanti il coltan l’oro il rame. Non li hanno sgozzati i miliziani del generale Nkunda, nuovo signore del Kivu.

Le donne sono state violentate dalle tante milizie che passavano di qua, governativi e ribelli; ma sono riuscite a restare in vita anche loro. In fondo, in un posto così è un miracolo, val la pena di far finta di dimenticare. I bambini sono ancora qui a sgambettare nella melma di questo immenso campo per quaranta-cinquantamila persone, i piedi piagati dalla lava diventata tagliente come una lama, il ventre gonfio, coperti dagli stracci di mille fughe. Ma non indossano le divise dei soldati-schiavi, un altro miracolo: forse solo perché sono troppo piccoli persino per i rastrellamenti che fanno governativi e ribelli nelle scuole. Tanto che ormai in classe a Goma ci vanno intruppati, con il maestro in testa, sperando che il numero li aiuti.

Sono vivi, sono loro, i profughi, i veri eroi di questo tempo dell’Africa. Intorno a Goma incontri questi pellegrini sfiniti che hanno marciato per anni ormai senza soste, senza riposo, spesso senza mangiare nè bere, umili, dimessi, l’occhio spento, atterriti dal loro stesso spettrale cammino. Per loro l’Onu non ha sparato una pallottola, solo tante parole. E quelle non contano. I signori, tutti sudici tutti colpevoli di queste guerra, da una parte un governo corrotto e incapace che pensa solo a recuperare le miniere, dall’altra un generale che dietro lo schermo della difesa della sua etnia, i ruandesi tutsi che vivono in questa parte del Congo, nasconde la volontà di impadronirsene, sono paccottiglia umana. Guerra etnica e guerra economica infilate l’una nell’altra come un incastro senza fine. Vincitori e vinti avanzano e si ritirano tirandosi dietro un immenso armento umano, un milione di persone, come ostaggio, barriera, forma di pressione. Tutte ormai rinserrate in un semicerchio di campi di fortuna, attorno a Goma. Il quarto lato è il grande lago Kivu. Adesso non possono più fuggire. Attorno assiste indifferente un fastoso fittume di foreste di acque di nuvole accaldate e basse. Non muoiono di bombardamenti aerei, cannonate, muoiono come un’oasi dai pozzi prosciugati, si svuota si spegne cade nell’oblio.

Kibati è appena fuori dalla città, passata l’autarchica sbarra che un poliziotto, i cui occhi grifagni hanno visto tempi migliori per le piccole quotidiane esazioni, solleva con aria rassegnata. Gli ultimi soldati con i colori azzurri della terza brigata stanno al di qua della sbarra, ascoltano le radioline, non si sa mai, alla prima avvisaglia, può essere il momento di scappare di nuovo. Sullo sfondo, sotto buffe montagne di un fiammante verde panchina, dietro una linea di grandi antenne a poche centinaia di metri, ci sono, invisibili, gli altri, i ribelli del generale Nkuna. In mezzo, terra di nessuno, gli sfollati.

Goma è la sintesi perfetta dell’Africa di oggi: in città c’è tutto, internet wi-fi, i negozi pieni, i ristoranti costosi sul lago; i vitelloni la domenica passeggiano, col vestito buono e la ragazza, sui «boulevard» dove mandrie di giudiziose caprette si accaniscono contro l’immondizia lasciata a marcire. Negli alberghi le coppie si sposano a mucchi, in bianco, con le invitate che esibiscono cappelli grandi come portaerei e lanciano gridolini di gioia isterica e contagiosa. Passano sulle jeep giapponesi i ricchi: grandi pance da padroni del vapore, anelli, catene d’oro. I bambini hanno la maglietta (originale) di Kaka o di Henry. È la borghesia di Kabila (prima era di Mobutu). Sono scappati in aereo quando i ribelli sembravano sul punto di prendere la città. Poi sono tornati, forse anche stavolta riusciranno a mettersi d’accordo con «il Generale».

Sulla piazza principale, davanti alle banche, i blindati bianchi dell’Onu con gli scenografici sikh dal turbante azzurro, fumano e si annoiano. Hanno tirato sul tetto dei mezzi una tendina bianca per non prendere la pioggia che nuvoloni sontuosi annunciano imminente.

Tutt’intorno alla città c’è l'Africa degli altri, i senza tutto. Ma anche la miseria non è mai tutta eguale, in questa si va a strati. Ci sono i vecchi, quelli che sono qui dal ‘95, ormai hanno tirato su casette di legno, sanno arrangiarsi, esibiscono una capretta e qualche gallina. Poi ci sono quelli scappati con le prime battaglie di due settimane fa, ormai hanno ottenuto un sacco di plastica con la sigla Onu che usano come tenda, sanno quando ci sono le distribuzioni di cibo e di legna, captano in un lampo il brusio di nuovi attacchi e dove bisogna spostarsi. E poi ci sono gli ultimi, quelli arrivati ieri, oggi, che ancora stamane marciavano lungo la strada che scende da Ngungu dove governativi e ribelli se le danno di santa ragione. Li hanno depredati gli uni e gli altri: sono nudi, è rimasta loro qualche pentola, qualcuno si è trascinato dietro uno di quei pesanti monopattini scolpiti nel legno che usano per i trasporti. Raccontano storie concitate di attacchi notturni, di compaesani sgozzati con il machete dai ribelli, di giorni e giorni passati nella foresta senza cibo, sotto la pioggia. Questa guerra che li uccide resta per loro un mistero metafisico, una fatalità come la pioggia che non viene o il vulcano Niyragongo che getta giù, com’è successo nel 2002, una micidiale fiume di lava.

Attorno alla chiesa, un grande capannone dove campeggia un ingenuo poster di «Mtoto Gesù», il bambin Gesù, una folla immensa serpeggia paziente disciplinata, attende la distribuzione dei sacchi di farina dalla Croce rossa. C’è calma, oggi, gli aiuti possono essere distribuiti, ma in altri campi sulla linea incerta del fonte è impossibile arrivare. E’ la fame. Dentro la chiesa un giovane prete officia la messa. Ci vuole coraggio a dire parole di speranza mentre attorno infuria la disperazione. Ma lui ci prova, dice con umiltà, a annunciare «la buona novella». «Andate in pace» dice ai suoi quieti fedeli mentre dalla porta una folla impaziente di profughi comincia a trascinare dentro i fagotti. La Chiesa di notte è il loro rifugio. Sì, andate davvero in pace, gente di Kibati.


Tratto da:
Congo, il Paese dei bambini col kalashnikov di Domenico Quirico
su La Stampa, Italia, 10 novembre 2008


Nessun commento: