domenica 31 agosto 2008

Israeliani e Palestinesi cercano un rapido accordo


Il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert ha incontrato oggi il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, sperando di coprire lo scandalo che affligge il mandato alla leadership di Israele con un documento di intesa sulla pace con i Palestinesi entro le prossime due settimane.

Il partito del Primo Ministro Olmert, il Kadima, vota il 17 settembre il suo successore. Sospettato di corruzione, Olmert ha promesso di dimettersi dopo il voto, anche se potrebbe rimanere come angelo custode del nuovo primo ministro per settimane o mesi fino a quando un nuovo governo sia formato.

Un funzionario israeliano ha detto che Olmert mirerebbe a convincere Abbas per concordare un documento di intesa come quadro di riferimento per un accordo di pace, che potrebbe essere sottoposto a Washington prima della votayione del partito Kadima.

Abbas è stato freddo all'idea di qualsiasi accordo parziale nonstante il volere degli Stati Uniti di raggiungere almeno una bozza di accordo di pace prima che il presidente George W. Bush finisca il suo mandato nel mese di gennaio.

Né Olmert né Abbas hanno rilasciato una qualsiasi dichiarazione all'inizio dei loro colloqui a Gerusalemme.

Ma Yasser Abed Rabbo, un collaboratore di Abbas, ha detto alla Reuters che è "prematuro parlare di un documento." Ha aggiunto: "le differenze sulle questioni fondamentali sono ancora molto grandi".

Tzipi Livni, Ministro degli Esteri di Israele e candidato alla successione nel partito Kadima, ha ammonito di non firmare documenti nonstante le differenze di vedute con Abbas e precipitarsi verso un accordo nei colloqui mediati dagli Stati Uniti.

I suoi commenti sono stati ripresi dal Segretario di Stato americano Condoleezza Rice nel corso di una visita in Medio Oriente la scorsa settimana.

Il portavoce di Olmert, Mark Regev, pur riconoscendo che Israele fa tutti gli sforzi "per raggiungere uno storico accordo", ha detto di non essere a conoscenza di alcun limite di tempo.

Il Ministro Eli Yishai del partito ultra-ortodosso Shas ha detto che Olmert, che è stato nuovamente interrogato dalla polizia lo scorso venerdì e ha negato qualsiasi irregolarità in una serie di accuse di corruzione, non dispone di "legittimità giuridica a negoziare e certamente non per raggiungere qualsiasi accordo".

Nuove proposte

Un militante vicino ad Abbas ha detto che la Rice aveva avanzato una serie di proposte di transizione nel corso della sua visita di 25 ore la scorsa settimana, che saranno discusse da Olmert e Abbas nella riunione a Gerusalemme.

Essi stanno lavorando su una bozza territoriale basando i confini di un futuro Stato palestinese sulle frontiere esistenti prima che Israele conquistasse militarmente la Cisgiordania nella guerra del 1967, ma tenendo in considerazione diversi grandi insediamenti ebraici.

La questione di Gerusalemme sarebbe risolta nel quadro della discussione sui confini, ma il problema dei siti religiosi e della Città Vecchia murata, dove i siti sono situati, sarà discusso in una fase successiva.

Sulla sorte dei profughi palestinesi, ha detto il militante palestinese, gli Stati Uniti lavoreranno internazionalmete per fornire loro una compensazione e le discussioni sarebbero iniziate per decidere quanti potrebbe tornare nella loro terra che ora è territorio di Israele.

Non si sono stati immediati commenti da parte israeliana o statunitense alle osservazioni del collaboratore di Abbas.

Il giornale israeliano Haaretz ha detto che Olmert può proporre la supervisione internazionale per colloqui volti a risolvere la controversia su Gerusalemme. Israele considera l'intera Gerusalemme come sua capitale, una rivendicazione che non ha ricevuto il riconoscimento internazionale. I palestinesi vogliono che Gerusalemme est diventi capitale del loro futuro Stato.


Tratto da:
Israel and Palestinians seek quick "understandings" di Wafa Amr
su
Reuters, Regno Unito, 31 agosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi




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sabato 30 agosto 2008

Il ritorno della guerra in Cecenia


Oggi alcuni quotidiani internazionali, anche in Russia, riportano in prima pagina notizie tragiche proveniennti dalla Cecenia, territorio caucasico ufficialmente parte della Russia e confinante con l’Ossezia. Dopo il massacro di bambini del settembre 2004 nella scuola elementare di Beslan, in Ossezia del Nord, nei media italiani non si è più sentito parlare della causa indipendentista Cecena, fino ad allora molto popolare.

Russia (Cecenia): continua a mietere vittime la guerra dimenticata della Cecenia, territorio del Caucaso strategico per il passaggio di oleodotti e gasdotti verso la Russia.
Almeno due soldati russi sono morti e undici sono rimasti feriti in attacchi suicidi da parte di ribelli ceceni nei dintorni della capitale Grozny. Anche due attentatori sono morti nelle esplosioni.
Altri attacchi a soldati russi sono avvenuti nella settimana, causando la morte di due ufficiali.
La guerra in Cecenia è un conflitto secolare che ha radici nelle politiche espansioniste della tirannide zarista nel Caucaso. I piccoli ma fieri popoli locali hanno sempre lottato per salvaguardare la loro autonomia e i Ceceni sono stati tra i più combattivi. Alla nascita dell'Unione Sovietica la Cecenia e la vicina Inguscezia furono inglobate nella Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia.
Durante la Seconda guerra mondiale, sperando di liberarsi dal giogo russo, molti Ceceni si allearono con gli invasori tedeschi causando, dopo la vittoria dell'Armata Rossa, una durissima punizione. Il 23 febbraio 1944 Stalin ordinò la deportazione in Siberia, nella repubblica sovietica del Kazakhstan, di un milione di cittadini ceceni ossia l’intera popolazione (Operazione Lentil). Fu loro concesso di ritornare alla loro regione d'origine solo nel 1957, alla morte di Stalin.
Al crollo dell’Unione Sovietica la Cecenia ha tentato la via della secessione da Mosca. Due conflitti tra i ribelli separatisti e le truppe russe hanno causato la totale distruzione della capitale Grozny e la morte di circa 200.000 persone, per la metà civili.
La maggior parte della Cecenia è attualmente sotto il controllo dei militari federali russi. Dopo il massacro di Beslan nei media italiani non si è più sentito parlare della causa indipendentista Cecena.

Georgia: continuano le polemiche sul ritiro delle truppe russe dal territorio georgiano in seguito all’accordo di cessate-il-fuoco in sei punti che ha fermato le ostilità in Ossezia del Sud.
La Georgia ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con la Russia in seguito al riconoscimento da parte di quest’ultima dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud.
Nessun altro governo ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche separatiste anche se la Russia ha incassato la formale solidarietà dei membri della Shanghai Cooperation Organisation (SCO), tra cui la Cina. Abkhazia e Ossezia del Sud sono invece pronte al riconoscimento reciproco e alla firma di un trattato di cooperazione militare.
Dopo le firma del cessate-il-fuoco i soldati russi hanno preso posizione in una fascia di sicurezza oltre il confine delle repubbliche separatiste creando posti di blocco a oltre 10 km dalla frontiera e fin nel porto georgiano di Poti. Il Parlamento georgiano ha anche adottato una risoluzione secondo cui i soldati russi sul suolo georgiano, comprese le repubbliche separatiste, sono considerati ‘truppe d’occupazione’.
Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno sollevato forti critiche verso il comportamento del governo russo, secondo il quale invece gli accordi sono stati rispettati.
Secondo un portavoce del Ministero degli Esteri francese l’accordo permetterebbe ai peacekeepers russi di operare solo in immediata prossimità della frontiera sudosseta e in pattuglie, quindi stabilire posti di blocco e zone cuscinetto sarebbe una violazione degli accordi. L’Unione Europea tuttavia non ha aprovato sanzioni contro la Russia.

Thailandia: il governo centrale non riesce a far fronte alla forte inflazione e alla bassa crescita economica, scatenando proteste violente. Il Primo Ministro Samak Sundaravej è accusato di collusione con l’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra, in esilio a Londra e sotto processo per corruzione. Le accuse vengono da intellettuali e imprenditori del PAD, partito politico lealista monarchico che teme un colpo di stato repubblicano da parte del Primo Ministro.
Gruppi di manifestanti hanno bloccato tre aeroporti del Paese, incluso lo scalo turistico di Phuket. Oltre 15.000 persone sono bloccate nel Paese. In risposta il Primo Ministro Samak ha chiesto udienza al Re, rifiutando qualsiasi ipotesi di dimissioni.
In precedenza circa 2.000 manifestanti monarchici avevano distrutto la sede della TV di stato e occupato le sedi di alcuni ministeri e il quartier generale della polizia a Bangkok, innalzando barricate e chiedendo le dimissioni del governo. Le manifestazioni hanno fatto seguito a una campagna contro il governo lanciata da intellettuali e uomini d’affari di fede monarchica. Il Governo non ha annunciato al momento misure di sicurezza speciali ma il Primo Ministro ha affermato di star “perdendo la pazienza”.

Pakistan (Waziristan e regioni tribali): nelle regioni a nord-ovest del Paese e nella regione del Waziristan alla frontiera con l’Afghanistan i miliziani talebani supportati dalle tribù locali semiautonome si scontrano con le truppe governative filoccidentali.
La crisi politica apertasi dopo le dimissioni del dittatore filoamericano Musharraf si accompagna ad un forte intensificarsi delle violenze nelle zone di conflitto.
I due maggiori partiti che con una forte alleanza avevano prodotto le dimissioni di Musharraf hanno cominciato a litigare sulla successione a capo dello stato, presentando due diversi candidati e accusandosi reciprocamente.
In questo clima di crescente instabilità politica aumentano le violenze nel Paese. Nel sud del Waziristan 5 civili sono morti per lo scoppio di un razzo su una casa mentre 40 ribelli sarebbero stati uccisi in scontri con le truppe governative nella valle di Swat, nel nord-ovest del Paese. L’esercito ha attaccato le posizioni dei ribelli con jet e elicotteri causando attacchi suicidi in risposta.
Circa 250.000 persone hanno abbandonato le zone dei combattimenti, alcune delle quali erano mete turistiche fino all’anno scorso. I ribelli godono del sostegno della popolazione locale e i Paesi occidentali sono preoccupati dal fatto che il successore di Musharraf potrebbe non portare avanti la guerra con altrettanta determinazione.

Sri Lanka: il governo ha ufficialmente rotto l’accordo di cessate-il-fuoco con i ribelli Tamil dando inizio ad una offensiva su larga scala per mettere fine alla guerra che sconvolge l’isola dal 1983.
Almeno 45 persone sono rimaste ferite nello scoppio di una bomba in un mercato della capitale Colombo. L’attentato è stato attribuito ai ribelli Tamil.
I ribelli si fanno chiamare Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (LTTE o Tigri Tamil). L’insurrezione armata è cominciata nel 1983 con lo scopo di creare una nazione separata per la minoranza Tamil nel nord ovest dello Sri Lanka.
I 21 milioni di persone che abitano lo Sri Lanka sono per tre quarti di etnia singalese e controllano le leve del potere nel Paese da dopo l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948. I Tamil denunciano politiche di emarginazione da parte dei Singalesi e per questo lottano per l’indipendenza. A dispetto della poca celebrità di cui godono, essi detengono la paternità e il primato relativamente agli attacchi suicidi e possono vantare l’uccisione di ministri e capi di stato. La LTTE è considerata una organizzazione di terroristi dai Paesi Occidentali.

Congo: la provincia orientale del Kivu possiede grandi ricchezze nel sottosuolo. Vari gruppi ribelli su base etnica combattono contro il governo centrale continuando nei fatti quella che è stata la Grande Guerra del Congo tra il 1998 e il 2003. Nel gennaio scorso la firma di un accordo tra il governo e una dozzina di gruppi ribelli ha dato il via ad un fragile processo di pacificazione della regione.
I peggiori combattimenti da mesi sono scoppiati nella provincia del Kivu settentionale, nell’est del Congo, tra le truppe governative e i ribelli Tutsi, minacciando il fragile processo di pace. Secondo i peacekeepers dell’ONU scambi di artiglieria sono avvenuti tra l’esercito e i ribelli fedeli al comandante Nkunda. Le due parti si scambiano reciprocamente accuse circa l’inizio degli scontri.
Secondo le Nazioni Unite i combattimenti da un paio di anni a questa parte hanno causato solo in questa regione 857.000 profughi.

Filippine: i ribelli del MILF lottano da 30 anni per uno stato autonomo musulmano nel sud del Paese, corrispondente ai ‘domini ancestrali’ dei musulmani sull’isola di Mindanao. Un accordo di pace era stato raggiunto dopo anni di trattative e prevedeva l’ampliamento della Regione Autonoma Musulmana esistente, ma la Corte Suprema che ha fermato il progetto per incostituzionalità in seguito all’opposizione dei politici cattolici. Di conseguenza alcuni comandanti del MILF hanno occupato parte dei territori contestati causando feroci combattimenti con l’esercito.
Il governo filippino ha approvato la spesa di 38 milioni di dollari per rifornire l’esercito di munizioni in seguito ai recenti combattimenti con i ribelli del MILF. L’esercito ha infatti letteralmente esaurito le munizioni per l’artiglieria pesante avendo martellato nella scorsa settimana le postazioni ribelli con centinaia di granate da 105 mm.
Circa 200 persone sono morte e oltre 400.000 persone hanno lasciato le loro case in seguito ai recenti combattimenti. La guerra ha visto succedersi varie fazioni ini lotta fin dagli anni ’60, e ha causato circa 160.000 morti.

Algeria: nel 1992 un colpo di stato militare evitò l’ascesa democratica al potere di un partito fondamentalista musulmano. Da allora è cominciata una guerra civile che ha ucciso 150.000 persone. Le violenze erano quasi terminate negli ultimi anni ma sono riprese di recente quando l’ultimo gruppo combattente, il Gruppo Salafista di Preghiera e Combattimento, si è tramutato nell’ala nordafricana di al-Qaeda.
I ribelli islamisti hanno teso un’imboscata a un veicolo militare inuna regione montagnosa 350 km a est della capitale Algeri, uccidendo 2 guardie municipali e 5 soldati e ferendone 14. In un’altra regione 120 km a est di Algeri truppe governative hanno ucciso 5 ribelli in uno scontro a fuoco.
I combattenti di al-Qaeda nell’ultimo mese hanno rivendicato vari attacchi che hanno portato alla morte di 48 persone.

Colombia: nel silenzio internazionale continua la guerra tra il governo colombiano conservatore, le bande paramilitari fasciste e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), organizzazione paramilitare comunista clandestina della Colombia di ispirazione bolivariana fondata tra il 1964 e il 1966 come braccio armato del Partito Comunista Colombiano. La guerra ha provocato negli ultimi venti anni 40.000 morti e l’impressionante numero di 3 milioni di rifugiati.
Scontri mortali si sono avuti nella Valle del Cauca, nel sud est del Paese, tra guerriglieri delle FARC e soldati dell’esercito. Gli scontri hanno provocato la morte di due ribelli e di due soldati, ma anche l’uccisione di un bambino. Secondo la famiglia, i guerriglieri erano entrati di forza nella casa per rifugiarsi e quando i soldati hanno fatto irruzione hanno sparato uccidendo il bambino. L’esercito accusa invece i guerriglieri di essersi fatti scudo dei civili.
Il governo di Álvaro Uribe, pur mantenendo una alta popolarità, è considerato uno dei "fantocci" installati dal governo statunitense nel mondo. E’ fortemente criticato per i suoi tagli alla spesa sociale e per i rapporti con le bande paramilitari di destra che insanguinano il Paese.
Tuttavia Uribe, grazie ai forti aiuti militari degli USA, ha saputo costringere nell’angolo le FARC, che sono probabilmente tra le più longeve organizzazioni ribelli ancora esistenti al mondo, con una forza stimata (al 2008) di 6.000 - 16.000 effettivi, di cui tra il 20% ed il 30% con meno di 18 anni di età. I ribelli delle FARC sono considerati terroristi dai governi occidentali mentre i governi di ispirazione socialista, come quello venezuelano, li definiscono “guerriglieri combattenti”.

India (Orissa): un’impressionante ondata di violenza è scoppiata nello stato di Orissa, nell’India orientale, dopo l'assassinio di un leader induista che promuoveva una campagna contro la conversione al cristianesimo delle popolazioni locali di religione indù. Nel clima di forte intolleranza tra le due comunità religiose, la colpa del delitto è stata scaricata sui missionari che diffondono la religione cristiana tra i membri delle caste più basse.
Da quando sono cominciati gli scontri, una settimana fa, sarebbero almeno 22 le vittime delle violenze a sfondo religioso scatenate da fondamentalisti indù contro i Cristiani nello stato di Orissa. Il premier Manmohan Singh, pressato anche da appelli internazionali, ha schierato 3mila uomini a presidiare le comunità cristiane. Ciononostante, chiese e case continuano a essere nel mirino degli indù. Più di 40 chiese sono state bruciate, le case distrutte ammontano a circa 1800, ma il bilancio può crescere ancora. Più di 50mila le persone sono fuggite dai villaggi cercando riparo all'interno della giungla. Il premier Singh ha descritto gli avvenimenti come "una sciagura nazionale". Le 25mila scuole cristiane presenti nel paese sono rimaste chiuse in segno di preghiera. Finora sono state arrestate 167 persone responsabili di incendi e violenze.


Le notizie sono tratte dai maggiori quotidiani internazionali


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venerdì 29 agosto 2008

Italia e Libia si accordano sul contenzioso coloniale


L'Italia et la Libia hanno trovato venerdì un accordo di massima per regolare il loro contenzioso relativo al periodo coloniale e Silvio Berlusconi si recherà sabato a Bengasi per incontrare Mouammar Gheddhafi, secondo l'Agenzia ANSA che cita fonti dell'entourage del Presidente del Consiglio.

Un °accordo di amicizia e di cooperazione° tra Italia e Libia è stato praticamente concluso tra i due paesi, “anche se devono ancora essere risolte delle questioni marginali”, il che verrà affidato secondo l’ANSA a un gruppo di lavoro italo-libico.

L'accordo è di lunga durata (25 anni) e comprende la costruzione promessa dallo stesso Berlusconi nel 2004 di un'imponente autostrada costiera che percorrerebbe l'intera Libia, dal confine con l'Egitto a quello con la Tunisia, e un programma di sminamento degli ordigni residui collocati dagli italiani durante l'occupazione.

La notizia è stata confermata da Saif el Islam, figlio del colonello Gheddafi. Alla televisione libica ha dichiarato che l'accordo con il governo italiano sarà siglato nelle prossime settimane. Nessuna conferma ufficiale ha potuto essere immediatamente ottenuta da fonti governative italiane, ma Berlusconi ha dichiarato: «Stiamo lavorando intensamente e con la forte volontà di stipulare un patto di amicizia».

Una delegazione libica è da molti giorni a Roma per negoziare i termini di questo accordo prima del previsto incontro tra Berlusconi e il Capo di Stato della Libia.

Italia e Libia hanno negoziato per anni un accordo sul risarcimento dovuto dall’Italia per il periodo coloniale.

Il precedente governo italiano aveva riconosciuto pubblicamente, attraverso il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che l'occupazione italiana della Libia era stata una vicenda «... che ha conosciuto pagine tragiche e vergognose». Questa premessa è servita per poter passare concretamente a quel gesto riparatore che da molti anni il colonello Gheddafi chiede all'Italia.

Nel 1911, con la seconda guerra d’Africa, l'Italia occupa la Libia, e fino al 1943, i militari italiani effettuano una feroce repressione nei confronti del popolo libico. Lo storico Angelo Del Boca, nel libro “A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell'occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini”, edito da Baldini Castoldi Dalai, racconta la conquista italiana della "quarta sponda". Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogebàn, fu uno dei più irriducibili oppositori alla dominazione italiana.

Nell'arco di vent'anni la dominazione italiana causò circa centomila morti. Un numero di vittime enorme se si pensa che al momento dell'invasione la Libia aveva soltanto ottocentomila abitanti. Libici che hanno perso la vita nei combattimenti, nei lager infernali della Sirtica, nei penitenziari italiani, o appesi alla forca, nel tentativo disperato di difendere la propria terra dall'invasore italiano.

La Libia divenne indipendente nel 1951.

Lo storico Angelo Del Boca è molto scettico su come l'Italia possa riuscire a coprire economicamente la costruzione dell'autostrada. «Non so come l'Italia, in questo momento e con i costi che ha un programma simile, possa impegnarsi realmente. E non credo che i libici a loro volta possano accettare soltanto delle vuote promesse: vogliono verifcare che si cominci davvero, che si aprano dei cantieri. Guai a deluderli perché non dobbiamo dimenticare che la Libia ci fornisce un terzo del petrolio, del gas».


Tratto da:
L'Italie et la Libye ont trouvé un accord sur leur contentieux colonial
su
Le Monde.fr, Francia, 29 agosto 2008
Italia – Libia. L'accordo sul passato coloniale
su
agenzia multimediale italiana, Italia, 29 agosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
La Libia: "L'Italia ci ha offerto un'autostrada"

Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale italiana


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Acqua: verso una crisi mondiale


"I lenti progressi nel garantire l'accesso ai servizi igienici a livello globale porteranno inevitabilmente a mancare gli Obiettivi del Millennio fissati dall'Onu, mentre le politiche, la carenza nella gestione, l'incremento degli sprechi e l'esplodere della domanda di acqua stanno spingendo il pianeta al limite di una crisi globale di acqua".

E' la sintesi della dichiarazione finale della XVIII edizione della 'Settimana mondiale dell'acqua' (World Water Week) promossa dall'Istituto Internazionale dell'Acqua di Stoccolma (Siwi) che ha riunito nella capitale svedese dal 17 al 23 agosto circa 2400 esperti provenienti da 140 paesi e più di 200 tra organizzazioni internazionali e della società civile.

Quest'anno, in concomitanza con l'International Year of Sanitation (IYS), l'Anno internazionale per i servizi igienico-sanitari dichiarato dall'Onu, la settimana si è concentrata sul tema dei "Progressi e prospettive sull'acqua: per un mondo pulito e in salute con particolare attenzione all'accesso ai servizi igienici". Secondo l’Onu, un quinto della popolazione mondiale vive oggi in condizione di mancanza di acqua, due miliardi e mezzo di persone manca di servizi igienici e cinquemila bambini muoiono ogni giorno di dissenteria legata alla tale mancanza su un totale di 1,8 milioni di persone l'anno. In Asia, dove vive il 60% della popolazione, lo sviluppo economico esponenziale degli ultimi anni ha avuto un impatto significativo sulla diminuzione delle risorse idriche: oggi, ogni abitante del continente asiatico può contare in media sul 20% dell’acqua di cui poteva disporre negli Anni '50. Neanche l’Europa è risparmiata dal problema dell’acqua, considerando che 20 milioni di persone non hanno accesso a installazioni sanitarie decenti.

Da non dimenticare il timore di guerre per l'oro blu: sono 263 nel mondo i corsi d'acqua transfrontalieri, cioé condivisi da almeno due nazioni, e anche se finora non hanno scatenato conflitti - e anzi stanno nascendo forme di collaborazione - si registrano comunque 37 episodi di violenza tra Stati per questioni legate all'acqua, 30 dei quali avvenuti nel Medio Oriente. L'Associazione per i popoli minacciati presenta un bilancio critico delle gravi violazioni dei diritti umani - e in particolar modo delle popolazioni indigene - collegate allo sfruttamento delle risorse idriche.

Quella dell'"oro blu" è un'industria che a livello globale vale più di 300 miliardi di dollari: ed è in crescita tanto che si stima che il capitale necessario a coprire i bisogni di acqua urbana ed infrastrutture fognarie in 50 mercati leader entro il 2025 si aggira sui 2,3 migliaia di miliardi. Ma gli "investimenti e miglioramenti nella gestione delle risorse idriche, fornitura di acqua e servizi igienici sono spesso percepiti meramente come costi sia nel Nord che nel Sud del mondo" segnalava il documento preparatorio su "economia, finanza e settore privato". I consumi mondiali di acqua sono ripartiti in modo ineguale: a fronte dei 400 litri utilizzati ogni giorno da un nordamericano e dei circa 200 litri di un europeo, una persona povera nei Paesi del Sud del mondo non può disporre che di 10 litri al giorno per bere, fare il bucato e cucinare. Va inoltre considerato che negli Usa si butta il 30% di cibo, l'equivalente di 40mila miliardi di litri, ossia l'acqua necessaria ai bisogni di 500 milioni di persone.

E proprio sulle "enormi quantità di cibo sprecate nei processi di lavorazione, trasporto, stoccaggio, nei supermercati e nelle cucine" che "è anche spreco di acqua" si è concentrato l’appello ai governi, formulato della Fao, dell’Istituto internazionale per la gestione dell’acqua (Iwmi) e dello Stockholm International Water Institute (Siwi). Nel mondo, ricordano le tre agenzie, si produce abbastanza cibo per nutrire tutti "ma il problema sta nella distribuzione e nell’accesso", oltre che in abitudini superflue nel modo di comprare e consumare i beni. Mentre nei Paesi più poveri la maggior parte dello spreco si verifica prima che gli alimenti arrivino al consumatore - si stima che il 15-35% dello spreco avvenga già nel campo e il 10-15% nelle fasi di lavorazione, trasporto e stoccaggio - nei paesi più ricchi, invece, il processo di produzione e stoccaggio è più efficiente, ma lo spreco è comunque maggiore. Per questo Siwi, Fao e Iwmi hanno chiesto ai governi di dimezzare lo spreco di cibo entro il 2025, "un obiettivo necessario e raggiungibile" - afferma la nota.

E "dietro la crisi alimentare mondiale c'è la crisi globale dell'acqua dolce, che potrebbe peggiorare rapidamente per effetto dell´intensificazione del cambiamento climatico" - ha affermato il direttore generale del Wwf International, James Leape aprendo la settimana di lavori. "L'irrigazione agricola fornisce il 45% delle risorse alimentari di tutto il mondo e senza di essa non avremmo cibo per i 6 miliardi di persone del nostro pianeta. Tuttavia, in tutto il mondo molte aree irrigate, sia nei Paesi ricchi che nelle Nazioni meno sviluppate, sono molto stressate, così come i fiumi e le riserve di acqua sotterranee che le sostengono".

A Stoccolma il Wwf ha presentato uno studio sull'impronta idrica di Gran Bretagna e Svezia, nel quale si dimostra che la Gran Bretagna è la sesta maggiore importatrice di "acqua virtuale" al mondo, ovvero di acqua ottenuta per realizzare prodotti come cibo, abbigliamento e altri beni per i quali è necessario appunto un ampio uso di acqua. "Lo studio dimostra che solo il 38% dell’acqua usata dai cittadini britannici proviene dai fiumi, dai laghi e dal sottosuolo del Regno Unito – ha commentato Michele Candotti, Direttore generale del WWF Italia. Il resto è importato e si nasconde nei beni primari e di largo consumo che il paese compra dall’estero. Il paradosso è che moltissimi di questi prodotti provengono da aree del mondo in cui le risorse idriche sono già sotto stress o lo diventeranno presto".

Le associazioni promotrici della Water footprint da alcuni anni pongono l'attenzione proprio sull'impronta ecologica dei consumi d’acqua. I primi cinque maggiori importatori idrici mondiali di "acqua virtuale" sono Brasile, Messico, Giappone, Cina e Italia. In Italia si consumano 215 litri di acqua reale al giorno a testa, ma se si conteggia anche l’acqua virtuale la cifra aumenta di trenta volte. Nel nostro paese gli sprechi delle reti arrivano fino al 40% e secondo il 'Dossier Acque Wwf 2007', il consumo d'acqua nelle abitazioni e nelle città incide solo per il 10% sul totale, mentre all'agricoltura va il 46% dei consumi, alle industrie manifatturiere il 17%, alla produzione idroelettrica il 19% e per le forniture pubbliche il 18%.


Tratto da:
Acqua: verso una crisi mondiale, salteranno gli Obiettivi Onu
su
Unimondo.org, Italia, 27 agosto 2008


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Sistemi d'arma USA catturati dai Russi in Georgia


I soldati russi coinvolti nel conflitto in Ossezia del Sud avrebbero catturato alcuni Hummer [grossi fuoristrda costruiti dalla General Motors per l’esercito americano] abbandonati dai Georgiani in fuga, carichi di tecnologia militare "Made in USA". Per Mosca e' la prova della partecipazione degli Stati Uniti al conflitto.

La notizia viene dal quotidiano Izvestia secondo cui gli USA reclamano la restituzione di quello che Mosca considera "bottino di guerra".
A bordo di quei veicoli, hanno rivelato fonti altolocate, c'erano sofisticati strumenti e connessioni con i satelliti militari Usa per l'allarme rapido anti-missile, i pezzi per le cosiddette " guerre stellari".

Bottino "interessante"

La notizia e' prudentemente avallata dallo stesso vicecapo di stato maggiore Anatoli Nogovitsin, che ha chiarito come i russi non hanno intenzione di restituire il bottino, non solo perche' conquistato sul campo di battaglia, ma perche' e' "molto interessante" per i loro scienziati militari.
I sei mezzi hanno importanti chiavi del sistema di sicurezza americano, il che spiega l'ansia di restituzione del Pentagono, rivela una fonte del ministero della difesa.

Gioielli abbandonati

Gli Hummer sono stati presi senza colpo ferire a Gori, dopo che le forze georgiane avevano abbandonato la citta': "Immaginiamo quanto siano arrabbiati gli Americani - ha detto la fonte - per essere stati umiliati in questo modo dai loro pupilli. Per cinque anni hanno armato con mezzi sofisticatissimi e addestrato quei soldati, e loro sono scappati ai primi colpi, abbandonandosi tutto alle spalle".

I sei veicoli costituivano in pratica un centro di controllo e comando, con apparecchiature di nuovissima generazione per lo spionaggio e la ricognizione, un sistema radio a circuito chiuso per comunicare in piena segretezza, un apparecchio in grado di distinguere i mezzi amici da quelli nemici, una connessione con i dati dei satelliti spia americani, un impianto in grado di vedere e valutare la situazione delle forze sul terreno, afferma la fonte: e altre cose oggetto di studio.

Gli USA coinvolti nel conflitto

Gli hummer hanno inoltre dato ai Russi una possibile risposta su un aspetto del conflitto che li aveva lasciati perplessi: i radar del sistema antiaereo georgiano restavano spenti praticamente tutto il tempo, tranne brevi finestre per seguire lanci di missili, impedendo cosi' agli aerei russi di localizzare le strutture.
Pero' le forze antiaeree di Tbilisi hanno tirato, almeno in quattro occasioni, a colpo sicuro, abbattendo un bombardiere Tupolev 22 e tre caccia Sukhoi 25 russi. Difficile pensare che avessero individuato gli apparecchi alla cieca.

Secondo i militari di Mosca, sarebbero stati gli Stati Uniti a localizzare attraverso i loro satelliti i velivoli del nemico e ad avvertire in tempo reale, grazie alla strumentazione degli hummer, le batterie missilistiche georgiane delle coordinate su cui puntare, il tutto senza che i piloti russi potessero avere sentore di essere sotto tiro.

"Cio' significherebbe - ha detto la fonte di Izvestia - che gli USA non solo hanno armato e addestrato i Georgiani, ma hanno direttamente partecipato all'aggressione in Ossezia del sud".
Non e' il solo colpo grosso che l'irruenza del presidente Mikhail Saakashvili ha involontariamente fornito a Mosca: a Gori, i militari russi si sono imbattuti in un centro di ricognizione ‘made in USA’, ovviamente subito portato oltre confine, dotato di apparecchiature innovative per lo spionaggio.


Tratto da:
Sistemi d'arma Usa catturati dai russi in Georgia
su
RaiNews24, Italia, 28 agosto 2008


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La Corte Penale Internazionale indaga sulla Colombia di Uribe


La Corte Penale Internazionale (CPI) ha ordinato indagini preliminari sul paramilitarismo e la corruzione politica. La visita in Colombia del giudice della CPI, Luis Moreno Ocampo e del giudice spagnolo Baltasar Garzón arriva in una settimana estremamente agitata, in cui i due illustri ospiti potrebbero convincersi della fragilità della democrazia del paese.

Lo scontro tra il presidente Uribe e la Corte Suprema di Giustizia, l’organo più autorevole della magistratura colombiana, incaricata delle indagini sullo scandalo della Parapolitica, è al suo apice. Questo scandalo riguarda i legami tra il potere politico e i paramilitari delle AUC (Autodefensas unidas de Colombia) e coinvolge circa 70 tra parlamentari e senatori, quasi tutti di partiti che appoggiano il presidente.

Rivelazioni

La rivista Semana ha rivelato, alla vigilia della visita dei due importanti magistrati, che due uomini vicini al temibile capo paramilitare Don Berna, si sono incontrati nel palazzo presidenziale con due funzionari molto vicini ad Uribe. I due insoliti ospiti venivano a mostrare delle prove, poi rivelatesi inconsistenti, per aiutare il presidente a screditare i giudici della Corte Suprema. Questi fatti hanno portato Francisco Ricaurte, presidente della Corte Suprema a denunciare una "strana alleanza" tra il governo e i paramilitari contro il massimo tribunale e ha continuato: “Si sta organizzando un complotto contro la Corte Suprema di Giustizia per screditare i magistrati e delegittimare le sue indagini”. Come se non bastasse tutti i magistrati del processo di Justicia y paz e della Corte Suprema coinvolti nella parapolitica sono stati minacciati di morte recentemente.

Vicino al cuore

Il fratello del nuovo ministro della Giustizia e degli Interni, Fabio Valencia Cossio, alla guida della procura di Medellin, è stato costretto a dimettersi a causa di alcune intercettazioni telefoniche dalle quali risulta chiaro il suo coinvolgimento con il gruppo narco-paramilitare di “don Mario”, uno dei gruppi neo paramilitari più potenti che si disputa il controllo della città. Evidentemente anche il posto del ministro Cossio vacilla, proprio mentre questi cercava di far passare una riforma politico giudiziaria che ha per scopo togliere le indagini della parapolitica dalle mani della Corte Suprema e rinviare una vera riforma politica al 2010.

Indagini preliminari

E pensare che i due giudici sono in Colombia esattamente per decidere se aprire o meno un processo formale della CPI contro la Colombia, per i sospetti sulla indipendenza della magistratura e sul processo di pace con i paramilitari, nel caso riscontrino difficoltà o mancanza di volontà del governo nella ricerca della verità e della riparazione delle migliaia di vittime.
I due magistrati si sono incontrati con esponenti del governo, organizzazioni di vittime e giudici della Corte Suprema di Giustizia. L’ultimo giorno hanno partecipato alla riesumazione di 25 corpi da una fossa comune, trovata grazie alle confessioni del paramilitare noto come H.H. nell’ambito del processo di Justicia y paz. H.H. è l’unico integrante la cupola delle Auc a non essere ancora stato estradato negli Stati Uniti dal presidente Uribe.

In nome della verità

Ocampo ha espresso la necessita di far rientrare i capi estradati affinché continuino le loro confessioni in Colombia: “E’ compito di tutti gli organismi dello Stato e della Giustizia non lasciar andare gli implicati nel processo di Justicia y paz prima che questi terminino di dire la verità al paese e alle vittime.” Ocampo sta compilando un dossier sulla Colombia sin dal 2004 e questa è la sua seconda visita ufficiale. Il giudice presenterà tra un mese una relazione sul caso colombiano agli altri 18 giudici della CPI che decideranno se aprire una indagine formale, che sarebbe la prima della CPI fuori dal continente africano.
La relazione si baserà su tre punti: gli effetti della estradizione dei capi paramilitari sulla verità, le interferenze del potere esecutivo nel giudiziario, con il chiaro intento di ostacolare il processo della parapolitica, e la capacità di trovare i mandanti politici dietro i crimini dei paramilitari.
Nella lettera che annunciava la visita ufficiale, Ocampo chiede al governo: “Come si assicurerà il giudizio ai massimi responsabili dei crimini che sono sotto la competenza della CPI, inclusi quelli di dirigenti politici e di membri del Congresso presumibilmente vincolati con i gruppi smobilizzati? […] La parapolitica è un tema centrale per noi, perché i massimi responsabili debbono essere giudicati e condannati”.
Secondo quanto riportato dalla agenzia Ips News, Ocampo sarebbe molto scontento che i parapolitici siano indagati solamente per organizzazione a delinquere e non per crimini di lesa umanità.

Verso un procedimento penale internazionale

La visita di Ocampo e le sue dichiarazioni sono sembrate come il sintomo di una indagine preliminare. Al governo ora dimostrare che quel poco di potere giudiziario non politicizzato che ancora esiste nel paese sudamericano ha ancora la possibilità di operare liberamente, altrimenti la CPI potrebbe invocare la giurisdizione sul caso e iniziare una indagine formale.
Come lo stesso Ocampo dichiarò nella sua prima visita in Colombia: “La CPI rappresenta un nuovo diritto nel quale non c’è posto per l’impunità. O i tribunali nazionali fanno il loro lavoro o la faremo noi”.


Tratto da:
Colombia alla sbarra di Simone Bruno
su
PeaceReporter, Italia, 28 agosto 2008

Articoli di riferimento:
Paramilitari e narcotraffico imbarazzano Álvaro Uribe



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giovedì 28 agosto 2008

Le province ribelli della Bolivia boicotteranno il referendum sulla Costituzione


È una guerra di nervi quella che si disputa in queste settimane in Bolivia, la speranza è che non si trasformi in una vera e propria guerra del gas. L'unica certezza è che la Bolivia è spaccata in due: da una parte il presidente Evo Morales, fautore di una linea di politica economica socialista e indigenista, a tutela delle popolazioni più povere delle regioni andine. Dall'altra, le cinque province più ricche, adagiate su grandi depositi di gas, che chiedono autonomia fiscale, finanziaria e politica.

I governatori delle cinque province autonomiste della Bolivia hanno annunciato che si opporranno allo svolgimento del referendum costituzionale voluto fortemente dal presidente Evo Morales che di fatto potrebbero ampliare la crisi politica in un Paese ancora più frammentato dopo il referendum revocatorio del 10 agosto scorso.

La vittoria al referendum revocatorio ha rafforzato il presidente Evo Morales, confermato con il 67% dei consensi, ma ha radicalizzato le posizioni dei governatori delle Province che chiedono l'autonomia. fiscale, finanziaria e legislativa. Le Province gasifere, quelle di Santa Cruz de la Sierra, Pando, Beni e Tarija, pur sconfitte al referendum di due settimane fa, non recedono dalle loro posizioni autonomiste al limite del separatismo, e per questo hanno organizzato scioperi che potrebbero, in futuro, determinare una crisi energetica anche nei Paesi limitrofi.

Negli ultimi giorni si sono intensificati i blocchi delle strade che conducono in Argentina e in Paraguay, oltre al sabotaggio di alcuni gasdotti, creando le premesse per una crisi regionale. L'Argentina infatti riceve dalla Bolivia 2,5-3 milioni di metri cubi giornalieri di gas e il Brasile addirittura 30 milioni di metri cubi giornalieri. I manifestanti rivendicano la restituzione delle royalties per la vendita degli idrocarburi (IDH) trattenute dal Governo con lo scopo di finanziare la pensione di vecchiaia per gli anziani poveri.

La difficoltà nell'avvio di un tavolo di trattative ha indotto i governatori delle Province autonomiste a chiedere alla Chiesa cattolica e all'Organizzazione degli Stati americani (OSA) di aprire un'istanza di dialogo con il Governo del presidente Evo Morales.

La richiesta di mediazione rivolta ad istituzioni conservatrici quali Chiesa e OSA è l'ultima idea dei prefetti autonomisti che faranno di tutto per impedire al Governo di indire il referendum volto a far entrare in vigore la nuova Costituzione, approvata lo scorso dicembre dall'Assemblea Costituente. Referendum che, secondo i sondaggi, vedrebbe la vittoria di Morales anche nonostante il boicottaggio delle province ribelli.

La decisione circa il boicottaggio è stata adottata oggi dal Consiglio Nazionale Democratico (Conalde) che riunisce diversi prefetti autonomisti. "Nel caso in cui il governo nazionale voglia imporre questo referendum illegale, i cinque dipartimenti non permetteranno la sua realizzazione", ha affermato il governatore di Tarija. Ieri lo stesso Morales aveva detto di esser aperto al dialogo con le province 'ribelli' ribadendo però la necessità di istituire una nuova Costituzione: "Aspetteremo la volontà dei governatori ma in caso negativo approveremo comunque la nuova Costituzione", aveva dichiarato il leader di La Paz secondo l'agenzia Misna.

Pur accettando il dialogo, da lui stesso proposto subito dopo la consultazione di 20 giorni fa, Morales ha in sostanza ribadito che, in caso di mancata intesa, avrebbe convocato per decreto un ulteriore referendum per far approvare la nuova carta costituzionale che tenderebbe a ridistribuire il reddito nazionale, proveniente in buona misura dagli idrocarburi delle ricche provincie 'ribelli’, a vantaggio dei più poveri e della maggioranza indigena che finora non ha mai ottenuto sufficiente tutela nella propria economica e nelle proprie tradizioni culturali.


Tratto da:
Bolivia divisa si rischia una guerra del gas
su
Il Sole 24 Ore, Italia, 28 agosto 2008
Las provincias rebeldes de Bolivia boicotearán el referéndum de Morales
su
El País, Spagna, 28 agosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Bolivia: cosa è in gioco col referendum revocatorio di domenica



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Gaza: le tensioni tra Hamas e Fatah verso la guerra civile


La Striscia di Gaza, purtroppo, non finisce mai di stupire. Alcune volte in modo positivo, dando speranza e dimostrando la forza e la volontà di un popolo di uscire dalle disgrazie che gli cadono addosso, altre volte invece in modo del tutto negativo, che non fa che peggiorare la situazione. In questi ultimi mesi, le due fazioni hanno iniziato di nuovo a scontrarsi: ad un anno di distanza, quasi fosse un anniversario, sono ripresi duri scontri tra Hamas e Fatah.

In seguito all'assurdo attentato al caffé El Hilal, frequentato da Hamas, che ha provocato la morte di sei persone tra cui una bambina, sono seguite ritorsioni e violenze nei confronti dei militanti di Fatah, accusati di aver provocato la strage. I cecchini sono tornati a sparare, gruppi di uomini armati hanno fatto irruzione in molti edifici. Molti di loro sono dovuti scappare in Israele, chiedendo "asilo" (ironia della sorte) a chi li tiene ancora sotto dura occupazione. Situazione assurda e paradossale, cosi come è paradossale quello che è accaduto in seguito: dura repressione, arresti di centinaia di persone, botte e chiusura di molti centri e associazioni culturali e sportive, affiliati al Fatah o riconosciute tali. Non che questo non succeda in altri paesi, però qui siamo in un contesto molto particolare, con un' occupazione in atto, dove la popolazione é già messa a dura prova da blocchi e violenze. Chiunque oggi provoca o mette in atto queste modalità, è di fatto in contraddizione con quello che va "predicando", sulla liberta' e la giustizia. Nella Striscia di Gaza quello che viene detto non è seguito dai fatti, e questa arroganza e falsità non fanno altro che rendere ancora più instabile la situazione.

A Gaza sono presenti molti soggetti, che in passato hanno preso parte a momenti di rivolta noti alla Palestina sotto occupazione. Molti di loro sono stati deportati dalle loro città, molti arrestati. Chi è stato deportato a Gaza, sta vivendo una situazione di punizione molto dura, forte separazione, e soprattutto uno sradicamento dalle loro famiglie, dalle loro città, dai propri affetti. Chi a Gaza, chi all'estero, chi in prigione per anni, hanno dovuto ricostuirsi una vita e fare i conti con una realtà per la quale oggi molti di loro si chiedono a che cosa sia servito tutto ciò. Ma ancora il calvario non è finito.
Durante l'esilio di Gaza molti combattenti si sono ritirati a vita privata, in attesa di essere rimpatriati ma dopo la presa del potere di Hamas, la situazione è cambiata. Chi apparteneva all'autorità è stato comunque individuato e gli è stato chiesto di prendere parte alla fazione vincente. Il rifiuto di farlo ha comportato un attrito, e risposte anche punitive, come quella che ha subito Mazen la scorsa settimana.

"Stavo camminando in strada, quando si è fermata una jeep con degli uomini mascherti a bordo. Non mi hanno detto nemmeno una parola: mi hanno caricato a forza e portato in un posto appartato, dove hanno cominciato a picchiarmi con il calcio del fucili e le spranghe di ferro. Mi hanno spezzato le ginocchia e un braccio. Sono andati avanti così per venti minuti circa, tirando sassi come se mi volessero lapidare. Poi mi hanno lasciato sulla strada, dove mi ha raccolto un abitante e trasportato con l'ambulanza in ospedale. Ora sono pieno di chiodi e di ferri, con le ginocchia e le braccia spezzate, la testa rotta. Sono costretto a stare a letto assistito 24 ore su 24. Il motivo di questo pestaggio non può che essere legato al mio rifiuto di far parte di un gruppo. Già nei mesi precedenti avevo ricevuto delle minacce. Molti come me hanno fatto la stessa fine. Anche le nostre famiglie sono preoccupate, e hanno chiesto ad Abu Mazen di fare il massimo degli sforzi per poterci riportare nelle nostre città. Ma anche questo è assurdo, perchè anche Gaza era la nostra Palestina e la gente ci ha sempre dimostrato affetto e amicizia.
Ora siamo sotto il fuoco di due parti: i nostri fratelli e gli occupanti israeliani".
Questo il racconto di Mazen, uno dei ventisei deportati della Chiesa della Natività, da sei anni a Gaza, insieme agli altri combattenti. Osò sfidare l'esercito israeliano, nei giorni dell'invasione del 2002. Una invasione militare, con carri armati, F16 e Apache che bombardavano le città e i campi profughi dei territori palestinesi controllati dall'Autorità Nazionale Palestinese. Tra le città attaccate e occupate c'era anche Betlemme, e in particolare la Chiesa della Natività, dove, durante i combattimenti, molti dei ricercati della resistenza palestinese si rifugiarono.

L'assedio durò quaranta giorni poi, con una decisione congiunta e un compromesso tra le autorità israeliane, palestinesi e la comunità internazionale, si arrivò a un accordo per salvare la vita alle duecento persone rifugiate, mandando in esilio una buona parte di essi: alcuni in Europa, altri nella Striscia di Gaza. Oggi molti di loro si chiedono a cosa sia servito tutto questo, ma soprattutto perchè si sono ritrovati in questa assura situazione. Ma chi sono i mascherati che ogni giorno si affacciano sulle strade e cercano i soggetti da colpire? Chi gli da questo potere, e soprattutto chi gli da questo ordine cosi assurdo? Gli uomini mascherati che compiono questi atti fino ad ora non sono mai stati identificati e nessuno rivendica niente. Pare essere un nucleo che si occupa di "punire" duramente i militanti Fatah e tutti quelli che si rifiutano di abiurare l'autorità precedente. Non bastava l'occupazione militare, la disputa "immobiliare" sull'appartenenza di questa terra, le violenze e i bombardamenti; il conflitto è arrivato ad assumere aspetti di fanatismo e fondamentalismo religioso e di partito. E cosi, anche questo è diventato adesso motivo di disputa , he vede come unico sbocco solo il caos senza fine. Una disputa concentrata solo a non facilitare lo sviluppo, tornando indietro nell'organizzazone e nella vita quotidiana della società. Tutto in nome di Dio.


Tratto da:
Ancora la guerra civile
su
PeaceReporter, Italia, 28 agosto 2008



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Abkhazia e Ossezia del Sud vogliono rimanere indipendenti da Mosca e da Tbilisi


La Russia si trova isolata diplomaticamente sul riconoscimento dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud. Alla ferma condanna da parte degli Stati Uniti e del G7 si aggiunge l’ipotesi di sanzioni da parte dell’Unione Europea, ventilate dalla presidenza francese. Inoltre il Presidente russo Medvedev non ha trovato presso gli alleati asiatici il supporto sperato.

Due giorni fa la Russia ha formalmente riconosciuto l'Abkhazia e l'Ossezia del Sud come Stati indipendenti: il riconoscimento ufficiale dei due territori ribelli georgiani, e dunque della loro secessione da Tbilisi, è contenuto in altrettanti decreti firmati l’altro ieri dal presidente russo, Dmitry Medvedev, sollecitato in tal senso da entrambi i rami del Parlamento di Mosca.

Secondo il Ministro degli Esteri italiano Frattini la decisione unilaterale da parte del Cremlino di riconoscere l'indipendenza delle due repubbliche separatiste georgiane dell'Ossezia del sud e dell'Abkhazia «non ha un quadro di legalità internazionale alle sue spalle». «Una balcanizzazione su base etnica del Caucaso è un pericolo serio per tutti - ha aggiunto - si cambia il criterio della cittadinanza con la base etnica e ciò ci deve seriamente preoccupare tutti».

La Francia ha condannato «con fermezza» il riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche separatiste dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner.

Il governo georgiano ha immediatamente reagito al riconoscimento russo dell'indipendenza di Ossezia del sud e Abkhazia, parlando di «annessione» da parte di Mosca. «Si tratta di una evidente annessione di quei territori, che sono parte della Georgia», ha detto a Tbilisi il Viceministro degli Esteri georgiano Giga Bokeria.

Ma il Presidente dell’Abkhazia Sergey Bagapsh ha affermato che il suo Paese non ha alcuna intenzione di diventare parte della Russia. In un'intervista alla TV francese ha aggiunto comunque che l'Abkhazia è grata alla Russia che è stata l'unico Paese a dare aiuto nel corso di tempi difficili.

Secondo l’ex inviato della Russia alla NATO Dmitry Rogozin, il fatto che la Russia riconosca l’indipendenza delle due repubbliche dimostra che Mosca non ha alcuna intenzione di annettere i territori, come invece sostiene la Georgia. Il Ministro degli Esteri dell’ Abkhazia intende chiedere alle altre nazioni il riconoscimento dell’indipendenza. La richiesta sarà avanzata prima di tutto a quei Paesi che hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo.
L'attività diplomatica tra Russia e Abkhazia dovrebbe essere avviata nelle prossime settimane.

Ma nessun altro Stato ha ancora riconosciuto l’indipendenza dei due territori. Mentre gli Stati Uniti e le potenze europee hanno immediatamente condannato la mossa, sostenendo che questa viola il diritto internazionale, Medvedev non è riuscito a garantirsi pieno sostegno alla sua azione al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), un gruppo che collega Mosca con la Cina e con altri quattro Paesi ex-sovietici dell'Asia centrale.

La dichiarazione conclusiva del vertice infatti sembra dare un colpo al cerchio e uno alla botte dal momento che i membri della SCO hanno "espresso il loro supporto al ruolo positivo della Russia nella promozione della pace e della cooperazione nella regione" ma "esprimono grave preoccupazione in relazione alle recenti tensioni circa la questione dell’Ossezia del Sud e sollecitano le parti a risolvere pacificamente i problemi esistenti, attraverso il dialogo, a fare sforzi di riconciliazione e a facilitare i colloqui".

Il Kazakistan, un potente Stato centroasiatico produttore di petrolio e di gas, normalmente schierato con Mosca, ha affermato che è troppo presto per considerare il riconoscimento. Sembra invece avviarsi verso il riconoscimento la Bielorussia.

Nel frattempo sale la tensione tra Russia e Occidente. Le forze della NATO hanno aumentato la loro presenza nel Mar Nero, non lontano dalla costa dell’Abkhazia. Anche se la loro missione, secondo i comandanti della NATO, è la fornitura di aiuti umanitari in Georgia, gli Abkhazi sentono questa come una minaccia alla loro sicurezza e le autorità abkhaze hanno chiesto alla Russia di fornire protezione dal mare.
Nella giornata di giovedì, tre navi da guerra russe sono arrivate in Abkhazia per una missione di mantenimento della pace (peacekeeping). Mosca vuole che le sue forze di mantenimento della pace rimangano nella regione per aggiornare alcuni documenti legali e giungere alla firma di un trattato di sicurezza.

La Russia non ha ancora bloccato l'accordo sul transito militare della Nato in Afghanistan attraverso il suo territorio, ma «potrebbe farlo», ha detto il vice capo di Stato maggiore russo, Anatoly Nogovitsin, nel corso di una conferenza stampa presso la sede di Ria Novosti. Secondo l'alto esponente del Ministero della Difesa, «una cosa simile può accadere perché un certo numero di dichiarazioni sono state rilasciate dal Pentagono e da altri paesi su eventuali sanzioni». Lo scorso 8 marzo la Nato aveva invitato Mosca a collaborare in una missione di mantenimento della pace in Afghanistan ottenendo il consenso a un'intesa con l'Alleanza che permette il trasporto e il passaggio di veicoli non militari attraverso il territorio russo verso l'Afghanistan. Allora il segnale venne interpretato come un segnale distensivo. Oggi invece la situazione secondo Nogovitsin è simile «alle peggiori fasi della Guerra Fredda dei primi momenti».


Tratto da:
Medvedev: «Ossezia e Abkhazia sono due Stati indipendenti»
su Il Sole 24 ore.com, Italia, 26 agosto 2008
Russia faces diplomatic isolation on Georgia di Denis Dyomkin and Francois Murphy - Reuters
su
International Herald Tribune, USA, 28 agosto 2008
Abkhazia to remain independent from Georgia and Russia
su
Russia Today, Russia, 28 agosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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mercoledì 27 agosto 2008

Medvedev: “Non abbiamo paura della guerra fredda”


Dopo il sostegno del parlamento russo all'indipendenza delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud, il Presidente della Federazione Russa Dmitry Medvedev dà la sua opinione sulla questione in una intervista esclusiva a Russia Today.

RT: immediatamente dopo che l'indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta, Mosca ha detto che questo sarebbe potuto diventare un precedente per l'Ossezia del Sud e per l’Abkhazia. Oggi Lei ha presentato una decisione a sostegno dell’indipendenza di tali repubbliche. Perché la Russia dovrebbe farlo? Questo quadra con il diritto internazionale?

Medvedev: Inizierò col rispondere alla seconda domanda. Questo è pienamente in linea con il diritto internazionale. Quando è nato il caso del Kosovo, i miei colleghi hanno detto che si trattava di un caso speciale o, come dicono gli esperti internazionali, di un casus sui generis. Ebbene, ogni caso di riconoscimento è un caso a sé stante. La situazione in Kosovo è stata speciale, e la situazione in Ossezia del Sud e Abkhazia è altrettanto speciale.

Nella nostra situazione è evidente che abbiamo preso questa decisione al fine di prevenire il genocidio e l’annientamento di questi popoli, e al fine di aiutarli a risolvere i loro problemi. Queste repubbliche non riconosciute hanno lottato per la loro indipendenza per diciassette anni. Nonostante tutti i tentativi da parte della comunità internazionale nessun progresso è stato fatto nel corso di questo tempo. Fino a pochissimo tempo fa abbiamo cercato di contribuire a ripristinare lo stato di unità della Georgia. Tuttavia non ha funzionato.

La decisione [da parte georgiana] di avviare un’aggressione ha sepolto tutte le speranze di raggiungere un accordo. Così, nelle attuali circostanze, l'unico modo per preservare questi popoli è di riconoscerli come soggetti di diritto internazionale, e riconoscere il loro stato di indipendenza.

È per questo che la nostra decisione è perfettamente in linea con il diritto internazionale, con la Carta delle Nazioni Unite, con le dichiarazioni di Helsinki e con altri documenti internazionali.

RT: La Russia è preparata ad un lungo e duro confronto con le principali potenze mondiali cui può portare la decisione di oggi? E, in generale, non ci fa paura la prospettiva di entrare in un’altra Guerra Fredda?

Medvedev: Non abbiamo paura di nulla, neppure della prospettiva di un'altra guerra fredda. Naturalmente non la vogliamo. In questa situazione tutto dipende dalla posizione dei nostri partner nella comunità mondiale, i nostri partner in Occidente. Se vogliono mantenere buone relazioni con la Russia finiranno per capire il motivo di tale decisione, e la situazione resterà calma. Ma se scegliessero uno scenario di scontro, bene, siamo passati attraverso tutti i tipi di situazioni, e sopravviveremo anche questa volta.

RT: Lei ha firmato l’accordo in sei punti. Uno dei punti dice che la Russia dovrebbe ritirare le truppe della Georgia. Tuttavia la Russia è ancora accusata di non soddisfare tale obbligo. È vero? Ci sono ancora truppe russe in Georgia?

Medvedev: Questo non è vero. La Russia ha pienamente rispettato i suoi obblighi derivanti da sei principi del cosiddetto accordo Medvedev-Sarkozy. Le nostre truppe sono state ritirate dalla Georgia, fatta eccezione per il cosiddetto corridoio di sicurezza.

RT: Negli Stati Uniti è in corso la campagna presidenziale. Entrambi i candidati hanno parlato più di una volta sulle azioni della Russia in Georgia. Non crede che questa situazione venga utilizzata come strumento per la lotta politica all'interno degli Stati Uniti?

Medvedev: Beh, per quanto ne so, di solito durante le elezioni negli Stati Uniti d'America gli elettori sono abbastanza indifferenti a ciò che avviene all'estero. Ma se uno dei candidati è riuscito a utilizzare questa questione, beh, buon per lui. La cosa principale è che questa questione non dovrebbe portare a tensioni internazionali. Non ho alcun dubbio sul fatto che i due candidati proveranno a girare questa situazione per i loro scopi. Ma queste sono le regole di una campagna elettorale.


Tratto da:
Medvedev exclusive: We’re not afraid of Cold War
su
Russia Today, Russia, 26 agosto 2008
Tradotto da Bruno Picozzi


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Anche l'Honduras aderisce all'ALBA di Chávez


E’ passata quasi inosservata ieri l’adesione dell’Honduras all’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Americas), contestata dalle critiche di opposizione politica e gruppi finanziari. “Non c'è un vero programma, il documento è ambiguo. Sembre esclusivamente un'alleanza contro gli Stati Uniti” sostiene tra gli altri il deputato d'opposizione Carlos Kattan.
Proviamo a raccontare questa storia con l’aiuto di PeaceReporter, El País e Wikipedia.


L'Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA) è un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell'America Latina ed i paesi caraibici, promosso dal Venezuela e da Cuba in alternativa all'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti. L'aggettivo "bolivariana" si riferisce al generale Simon Bolivar, l'eroe della liberazione di diversi paesi sudamericani dal colonialismo spagnolo.

Il progetto ALBA è una proposta di integrazione economica totalmente contrapposta all'ALCA. Mentre l'ALCA risponde agli interessi del capitale transnazionale e persegue la liberalizzazione assoluta del commercio dei beni e dei servizi, l'ALBA pone enfasi alla lotta contro la povertà e l'esclusione sociale nel tentativo di rispondere ai bisogni dei popoli latinoamericani.

Da oggi i Paesi membri dell’ALBA sono:

Venezuela
Cuba
Bolivia
Nicaragua
Repubblica Dominicana
Honduras

L'accordo preliminare fu siglato il 14 dicembre 2004 tra il Presidente del Venezuela Hugo Chávez e il Presidente cubano Fidel Castro. Inizialmente, l'accordo riguardava lo scambio tra il supporto medico cubano e il petrolio venezuelano: il Venezuela assicurava a Cuba una fornitura di 96.000 barili di petrolio al giorno ad un prezzo molto favorevole, Cuba inviava 20.000 medici e migliaia di insegnanti in Venezuela.
La forza economica dell’ALBA è infatti il petrolio del Venezuela, settimo produttore al mondo, che ha nazionalizzato nel 2002 la produzione togliendo il controllo delle raffinerie della Cintura petrolifera dell’Orinoco alle compagnie straniere, tra cui l’americana Exxon e la francese Total.

L'ALBA è un'alternativa all'egemonia dell'impero. Uno spazio di integrazione dei governi progressisti di governi che programmano un cammino dentro la giustizia sociale e per i nostri popoli” ha detto Chavez ai margini della cerimonia di adesione dell’Honduras che ha visto presenti anche i presidenti di Bolivia e Nicaragua, Morales e Ortega, e il vicepresidente di Cuba, Carlos Lage.
Dello stesso avviso il presidente hondureño Manuel Zelaya che davanti a una fitta schiera di suoi sostenitori ha firmato l'adesione. “Il nostro Paese e la sua popolazione non hanno bisogno di chiedere il permesso a nessuno per sottoscrivere l'impegno di adesione all'ALBA”, ha detto Zelaya, forse disturbato dalle critiche piovute dai partito d'opposizione e dalle associazioni degli industriali, contrari alla nuova adesione.

Risulta infatti inconprensibile a molti il motivo per cui il governo di centrodestra honduregno, di fronte ad una crescente opposizione interna, si sia lanciato tra le braccia petrolifere dell’ALBA.
Zelaya non condivide il socialismo indigenista di Evo Morales né il progetto socialista-rivoluzionario di Ortega. Un milione di Honduregni vivono negli Stati Uniti e inviano rimesse in patria per 3 miliardi di dollari l’anno, il che è un grande aiuto al Paese centroamericano. Inoltre dal 2006 è in vigore un trattato di libero commercio con gli USA. Per questo le opposizioni politiche e le imprese, con le parole dell’ex Presidente Maduro, vedono l’adesione all’ALBA come un “mordere la mano dell’amico che ti nutre”, l’amico nordamericano ovviamente.

Eppure ieri Zelaya, nella capitale Tegucigalpa davanti a migliaia di persone, ha abbracciato Hugo Chávez, il quale può a giusta ragione sentirsi fiero del suo primo vero successo nel progetto geopolitico nato duranta una mattinata di colloqui con Fidel Castro, a Cuba, nel 2001.

Ora si attendono le conseguenze internazionali di questa adesione. Washington non ha reagito al momento, ma tutti si chiedono cosa succederà a El Salvador con un eventuale governo guidato da Mauricio Funes, del Fronte Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN, forza rivoluzionaria di sinistra), che è in testa ai sondaggi per le elezioni del prossimo gennaio.
Con il socialdemocratico Álvaro Colom al potere, anche il Guatemala strizza l’occhio all’ALBA mentre Óscar Arias in Costa Rica dà segnali di voler rafforzare le sue relazioni con Cuba e Venezuela, magari aderendo a Petrocaribe, un’alleanza tra Paesi caraibici e Venezuela per comprare petrolio a condizioni vantaggiose.

Nella stessa direzione va anche la creazione di una zona di pace, sicurezza e di sviluppo sostenibile nell Golfo di Fonseca, tratto dell'Oceano Pacifico che bagna Honduras, Nicaragua e El Salvador. La decisione è stata presa dai presidenti dei tre Paesi che si affacciano sul Golfo e Ortega ha anche proposto di cambiarne definitivamente il nome in Golfo dell'Unione. Sicuramente a breve il progetto stabilirà le regole per lo sviluppo del turismo, di un'economia sostenibile e dello sfruttamento delle risorse naturali.
Tutto questo è un buon esempio del nuovo clima di cooperazione condiviso dai Paesi latino-americani.

Intanto giungono i primi segnali su quali saranno per l’Honduras i benefici dell'ingresso nell'ALBA. Per prima cosa il Venezuela, vero motore di tutta l'operazione, faciliterà all'Honduras il pagamento del petrolio proveniente da Caracas. In secondo luogo Chavez ha promesso che il suo Paese parteciperà alle imprese di produzione alimentare, energetiche e a vari progetti sociali.

L’ALBA infatti è basata sulla creazione di meccanismi di cooperazione vantaggiosa fra le nazioni, i quali permettano di compensare le asimmetrie (sociali, tecnologiche, economiche, sanitarie, etc.) esistenti tra i Paesi del continente. Tecnicamente si basa sulla cooperazione tramite fondi di compensazione destinati a correggerele disparità che pongono i Paesi deboli in posizione di svantaggio rispetto alle potenze economiche. Perciò la proposta dell'ALBA dà priorità all'integrazione latinoamericana e privilegia la negoziazione tra i blocchi sub-regionali, aprendo nuovi spazi di consultazione con l'intento di identificare ambiti di interesse comune e costruire alleanze strategiche, assumendo posizioni comuni nei processi di negoziazione.

L’ALBA è una proposta di costruzione del consenso che possa riformulare gli accordi di integrazione allo scopo di promuovere lo sviluppo nazionale e lo sviluppo regionale con l’obiettivo dichiarato di sradicare la povertà, correggere le disuguaglianze sociali ed assicurare una crescente qualità della vita per i popoli. La proposta dell'ALBA si affianca alla coscienza dell'urgenza di una nuova classe politica, economica, sociale e militare in America Latina e nei Caraibi. Si affianca alla lotta dei movimenti, delle organizzazioni e delle campagne nazionali che vanno moltiplicandosi ed articolandosi nel continente contro l'ALCA neoliberista promossa dagli Stati Uniti. È, in definitiva, una manifestazione della decisione storica delle forze progressiste del Venezuela di dimostrare che "un'altra America è possibile".

L’adesione dell’Honduras all’ALBA sembra quindi illogica solo a chi non ne conoscesse la storia e le condizioni presenti.

L’Honduras è il quarto Paese più povero dell’America Latina con otto milioni di abitanti dei quali il 65% vive sotto la linea di povertà e con un tasso di disoccupazione pari al 28%.
In Honduras ogni anno muoiono di morte violenta centinaia di giovani sotto i ventitré anni. Un fenomeno quotidiano in varie città che sta sprofondando il paese in un baratro di illegalità di proporzioni immense. Secondo i dati forniti da alcune Organizzazioni Non Governative che operano nella zona di Tegucigalpa, la capitale honduregna, sarebbero circa 2000 gli omicidi avvenuti dal 1998 a oggi, mentre Amnesty International denuncia nel 22% degli omicidi il coinvolgimento di membri delle forze di sicurezza, agenti di polizia e personale militare, operanti con il consenso implicito delle autorità. Quasi tutte le giovani vittime risultano provenire da quartieri molto poveri e da storie di miseria ed emarginazione, ma molti di essi non avevano precedenti penali.

L’Honduras è un crocevia tra sud e nord del continente, influenzato da sistemi politici ed economici di Stati come la Colombia e il Venezuela (con tutte le implicazioni del traffico di droga, di corruzione e di omicidi misteriosi impuniti). Forte è l’influenza di Stati Uniti e delle organizzazioni internazionali, in particolare del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani).

Dal 2006 un ulteriore grave problema ha colpito l’economia del Paese, già molto debole. I prezzi dei combustibili sono arrivati alle stelle e il peso degli aumenti si è scaricato sulla popolazione. Da allora è cominciata la ricerca di fornitori alternativi rispetto alle compagnie statunitensi che in pratica controllavano tutto il mercato, creando non poca irritazione all’amministrazione di George W. Bush, intervenuta con il blocco dei visti per gli Honduregni che volevano andare a lavorare negli USA, mossa mascherata dalla lotta al traffico di falsificazioni di passaporti e contro la corruzione che trasversalmente riguarda la burocrazia honduregna.

E’ in questa situazione di necessità che negli scorsi due anni sono maturati i rapporti col Venezuela di Chávez e l’ingresso nell’ALBA.
Così raccontata, la storia non ha più nulla di illogico o di stupefacente.

Queste sono le linee guida del progetto ALBA:
1. L'integrazione dà priorità alla liberalizzazione del commercio ed agli investimenti; comunque l'ALBA è una proposta focalizzata alla lotta contro la povertà, l'analfabetismo e l'esclusione sociale.
2. Nella proposta dell'ALBA hanno importanza cruciale i diritti umani, del lavoro e delle donne, la difesa dell'ambiente e l'integrazione fisica.
3. Nell'ALBA, la lotta contro le politiche protezionistiche ed i rovinosi aiuti dei paesi industrializzati non possono negare il diritto degli stati poveri di proteggere i propri agricoltori e produttori agricoli.
4. Per i paesi poveri, dove l'attività agricola è fondamentale, le condizioni di vita di milioni di agricoltori e nativi saranno irreversibilmente compromesse dall'invasione di prodotti agricoli importati, anche in assenza di sussidi.
5. La produzione agricola è molto più che una produzione di merce, è la base per preservare istanze culturali, è una forma di occupazione del territorio, definisce le modalità di relazionarsi con la natura ed è direttamente collegata alla sicurezza ed all'autosufficienza alimentare. In questi paesi l'agricoltura è , ancora, un modo di vivere e non può essere trattato come una qualsiasi altra attività economica.
6. L’ALBA deve combattere gli ostacoli all'integrazione delle sue radici, cioè:
a. la povertà della maggioranza della popolazione,
b. le profonde diseguaglianze e asimmetrie tra i paesi,
c. gli interscambi e relazioni non paritarie nelle relazioni internazionali,
d. il peso di un debito impossibile da pagare,
e. l'imposizione della politica di risanamento strutturale del FMI, della Banca Mondiale e le rigide regole dell'OMC insidiano le basi del sostegno politico e sociale,
7. gli ostacoli all'accesso all'informazione, alla conoscenza ed alla tecnologia che derivano dagli attuali accordi sulla proprietà intellettuale; e,
8. il prestare attenzione ai problemi che affliggono il consolidamento di una vera democrazia, come la monopolizzazione dei mass media,
9. Affrontare la cosiddetta "riforma dello stato" che ha portato a brutali processi di deregulation, privatizzazione e disarticola la capacità di gestione della cosa pubblica.
10. In risposta alla brutale dissoluzione sofferta in più di un decennio di egemonia neoliberale, si impone il rafforzamento dello Stato sulla base della partecipazione del cittadino negli affari pubblici.
11. Ci si deve interrogare sull'apologia del libero commercio e del libero mercato, come se solo questi bastassero per garantire automaticamente migliori livelli di crescita e di benessere collettivo.
12. Senza un chiaro intervento dello Stato diretto a ridurre le disuguaglianze tra i paesi, il libero commercio tra paesi diseguali non può condure che al rafforzamento dei più forti a discapito dei più deboli.
Rafforzare l'integrazione latinoamericana richiede un'agenda economica definita per gli Stati sovrani, al di fuori dell'influenza nefasta degli organismi internazionali.


Tratto da:
Honduras, il presidente Zelaya firma l'ingresso nell'Alba
su
PeaceReporter, Italia, 26 agosto 2008
Honduras 'se convierte' al ALBA di Álvaro Murillo
su
El País.com, Spagna, 26 aosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi


Articoli di riferimento:
Voce ‘ALBA’ su Wikipedia



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martedì 26 agosto 2008

La Moldavia, la Transnistria e l'errore georgiano


Qualcuno ancora non ha avuto modo di informarsi sulla storia passata e recente dell’Ossezia del Sud per capire come mai i carri armati georgiani ne hanno invaso il territorio il 7 agosto scorso, mentre con disonestà i nostri maggiori quotidiani ci raccontano che sono stati i carri armati russi a invadere la Georgia.
Chi vuole capirne di più può aprire questa meravigliosa finestra sulla storia del Caucaso e comprendere, con poca pazienza, quale partita Saakashvili ha giocato in queste settimane, perdendo irrimediabilmente e aprendo la strada a Mosca per il riconoscimento dell'indipendenza delle due repubbliche separatiste.


La guerra per l'Ossezia Meridionale
di Daniele Scalea
su EURASIA, rivista di studi geopolitici.


Pakistan: nel regioni a nord-ovest del Paese e alla frontiera con l’Afghanistan i miliziani talebani supportati dalle tribù locali semiautonome si scontrano con le truppe governative filoccidentali.
La crisi politica apertasi dopo le dimissioni del dittatore filoamericano Musharraf si accompagna ad un forte intensificarsi delle violenze nelle zone di conflitto.

I due maggiori partiti che con una forte alleanza avevano prodotto le dimissioni di Musharraf hanno cominciato a litigare sulla successione a capo dello stato, presentando due diversi candidati e accusandosi reciprocamente.
In questo clima di crescente instabilità politica aumentano le violenze nel Paese. Ultimo di una serie di attentati, un’esplosione ha ferito almeno 20 persone durante una manifestazione volta a chiedere maggiore autonomia per la ricca regione mineraria del Baluchistan.

Filippine: i ribelli del MILF lottano da 30 anni per uno stato autonomo musulmano nel sud del Paese, corrispondente ai ‘domini ancestrali’ dei musulmani sull’isola di Mindanao.
L'esercito filippino continua a martellare le postazioni del MILF nel tentativo di catturare due leader separatisti. Fonti dell'esercito parlano della distruzione di 15 campi dei ribelli.
Un accordo di pace raggiunto tra governo e ribelli dopo anni di trattative prevedeva l’ampliamento della Regione Autonoma Musulmana, ma l’opposizione dei politici cattolici ha provocato il blocco dell’accordo da parte della Corte Suprema che ha tacciato il progetto di incostituzionalità. In seguito alle manovre della Corte Suprema alcuni comandanti del MILF hanno occupato parte dei territori contestati causando feroci combattimenti con l’esercito.
Oltre 160.000 persone hanno lasciato le loro case in seguito ai recenti combattimenti.

Moldavia: la regione orientale della Moldavia, la Transnistria, è abitata da una popolazione russofona. A inizio degli anni ’90 una guerra ha segnato l’indipendenza de facto di questa provincia, nella quale stazionano peacekeepers russi.
La Reuters riferisce che il Presidente russo Medvedev e il Presidente moldavo Voronin si sono incontrati sul Mar Nero. Medvedev ha avvertito Voronin di non ripetere l’errore georgiano tentando di riprendere il controllo della regione separatista della Transnistria con la forza. La Russia si sta ufficialmente adoperando per promuovere un accordo diplomatico tra il governo centrale moldavo e il governo separatista col fine di ottenere una forte autonomia per questa regione, all’interno della Moldavia. Secondo questo accordo, qualora la Moldavia decidesse di fondersi con la Romania, culturalmente simile, la Transnistria potrebbe unirsi alla Russia. Questo stesso accordo fu rifiutato dal governo moldavo qualche anno fa, su pressione della NATO.

Thailandia: il governo centrale non riesce a far fronte alla forte inflazione e alla bassa crescita economica, scatenando proteste violente.
Migliaia di manifestanti monarchici hanno distrutto la sede della TV di stato e occupato le sedi di alcuni ministeri e il quartier generale della polizia a Bangkok, chiedendo le dimissioni del governo. Le manifestazioni hanno fatto seguito a una campagna contro il governo lanciata da intellettuali e uomini d’affari di fede monarchica. Il Governo non ha annunciato al momento misure di sicurezza speciali ma il Primo Ministro ha affermato di star “perdendo la pazienza”.

Zimbabwe: Robert Mugabe governa il Paese da venti anni con metodi dittatoriali, ricorrendo anche a persecuzioni e torture. Le elezioni del marzo scorso hanno visto le accuse di brogli da parte dell’oppozione guidata da Morgan Tsvangirai e un lentissimo spoglio che ha dato la vittoria finale al dittatore. L’opposizione è scesa in piazza e si sono temuti gravi disordini, alimentati anche dalla grave crisi alimentare.
I parlamentari dell’opposizione hanno boicottato il discorso di apertura del Presidente Mugabe cantando e battendo le mani per coprirne le parole. Lo stallo politico rimane inalterato e non ci sono segnali di un accordo per la condivisione del potere tra il Presidente e l’opposizione, che ha la maggioranza in Parlamento. La situazione in Zimbabwe rimane critica e molti pensano che il Paese sia sull’orlo di una guerra civile.

Sudan: finite le Olimpiadi ritornano i massacri in Darfur ad opera delle milizie governative. Secondo gli analisti, il Sudan mantiene questa politica assassina in Darfur grazie all'appoggio incondizionato della Cina.
18 persone sarebbero morte in un attacco a un campo profughi da parte delle truppe sudanesi. Il conflitto tra il nord del paese prevalentemente arabo-musulmano ed il sud cristiano-animista è alimentato da una guerra civile che dura da più di 40 anni. I ribelli combattono per liberarsi dal giogo della legge islamica, ma in Darfur i conflitti hanno origini remote e risalgono agli scontri fra le popolazioni nomadi arabe e le popolazioni stanziali africane per le risorse vitali come terra e acqua.

La Corte internazionale dell'Aja ha accusato il Presidente sudanese Omar Hassan al Bashir di genocidio e crimini di guerra.

Iraq: un grosso contingente di forze internazionali guidato dagli Stati Uniti ha invaso il Paese nel 2003, portando alla caduta del dittatore Saddam Hussein, in seguito impiccato, e alla creazione di un governo filoccidentale.
Il Governo iracheno assicura che le truppe straniere, 147.000 soldati al momento, lasceranno il Paese entro il 2011. Il risultato sarebbe venuto dopo 10 mesi di negoziati con gli Stati Uniti, ma il Governo americano smentisce la chiusura dell’accordo, parlando solo di bozze. Rimarrebbe garantita l’immunità dei soldati americani di fronte alla legge irachena e la permanenza oltre il 2011 di un certo numero di addestratori.
Nel frattempo continuano le violenze nel Paese. 28 aspiranti poliziotti sono stati uccisi da un attentato suicida nella provincia settentrionale di Diyala, mentre altri 45 sono rimasti feriti dall’esplosione.
Altre quattro persone sono morte in un altro attentato a Tikrit, maggiore città settentrionale.

Afghanistan: negli ultimi mesi molti analisti concordano nel dire che i Talebani starebbero ricostruendo il loro potere e lentamente rioccupando il Paese. Sempre più diffuso è il sentimento di inimicizia nei confronti della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, responsabile della morte di un numero enorme di civili.
Il Governo afghano ha chiesto un cambio sostanziale nelle regole che governano l’intervento della coalizione internazionale nel Paese in seguito all’uccisione di oltre 90 civili in un bombardamento aereo dell’ISAF, guidata dagli Stati Uniti. Tuttavia la NATO afferma di non essere informata di alcuna richiesta ufficiale in tal senso.
In Afghanistan sono presenti circa 70.000 soldati da 40 Paesi. La coalizione internazionale ISAF, presente su mandato dell’ONU in scadenza a ottobre, conta su circa 53.000 soldati, per i due terzi americani. La guerra ha causato ad oggi oltre 40.000 morti, per oltre metà civili. 900 civili sono morti solo quest’anno.

India: continuano le violenze nello stato di Orissa dove la forte presenza di minoranze religiose alimenta conflitti tra le varie confessioni. La morte di un leader hindu ha fatto scoppiare quella che viene definita come una caccia al cristiano.
È salito a cinque il bilancio delle vittime delle violenze contro i Cristiani scoppiate nello stato indiano di Orissa dopo che estremisti hindu hanno iniziato ad attaccare chiese ed altri edifici di cattolici, tra i quali un orfanotrofio dato alle fiamme. La polizia del distretto di Kandhamal ha imposto il coprifuoco nel tentativo di bloccare le violenze iniziate dagli estremisti del Visha Hindu Parishad e del Bajrang Dal dopo che un loro leader, impegnato una campagna contro le conversioni dall'induismo al cristianesimo, è stato assassinato lo scorso fine settimana.
Il quotidiano La Stampa riporta una intervista ad un leader hindu che spiega gli avvenimenti recenti nel quadro dell'intolleranza religiosa, nella quale sguazzano politici di ogni nazione:
"Tutta colpa dei missionari" di Pablo Trincia


Le notizie sono tratte dai maggiori quotidiani internazionali


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lunedì 25 agosto 2008

Abkhazia e Ossezia del Sud verso l’indipendenza


La camera alta del Parlamento russo ha votato all'unanimità per chiedere al Presidente russo Medvedev di riconoscere l'indipendenza di Abkazia e Ossezia del Sud. Si prevede che anche la Duma, la camera bassa del Parlamento, approvi la stessa misura.

Le due regioni sono riconosciuti a livello internazionale come parte della Georgia, ma hanno goduto di una indipendenza de facto da quando si sono separate dal controllo di Tbilisi nei primi anni 1990.

Non appena la sessione straordinaria del Consiglio della Federazione Russa è iniziato a Mosca, i presidenti delle due repubbliche separatiste hanno ancora una volta affermato che non saranno mai d'accordo a rimanere all’interno della Georgia.

Nel suo discorso il Presidente dell'Ossezia meridionale, Eduard Kokoity, ha detto che entrambi gli Stati non riconosciuti hanno diritto all’indipendenza più del del Kosovo.
Dal canto suo il Presidente Abkhazo, Sergey Bagapsh, ha detto che né l’Abkhazia, né l’Ossezia del Sud continueranno ad essere uno stato unico con la Georgia.

Anche se la Russia riconoscerà l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud, l'intero processo richiederà molto tempo. Ci sarà la necessità di decidere quale forma potrà assumere la loro indipendenza.

Inoltre il tentativo di riconoscere l'indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud creerebbe ulteriori tensioni tra la Russia e l'Occidente, che ha pesantemente criticato Mosca per la sua gestione del conflitto in Georgia.

La Russia era adirata per il tentativo di includere la Georgia nell’alleanza militare della NATO e si era opposta alla dichiarazione di indipendenza unilaterale del Kosovo, mosse sostenute dagli Stati Uniti e da molti paesi europei. Se la NATO dovesse spingere per portare la Georgia all’interno della NATO, la Russia riconoscerebbe l'indipendenza di entrambe le repubbliche istantaneamente, ha detto il commentatore politico Peter Lavelle.

Nel frattempo, Nicolas Sarkozy, il Presidente francese, ha annunciato un vertice straordinario dell’Unione Europea per discutere la situazione nella regione. Il Vertice di Bruxelles discuterà il futuro delle relazioni tra l'UE e la Russia e gli aiuti alla Georgia

La difficile strada verso l'indipendenza

L’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, che confinano con la Russia rispettivamente nel Caucaso meridionale e sul Mar Nero, avevano già tentato di separarsi dalla Georgia attraverso referendum popolari che sono stati ampiamente a favore dell’indipendenza. I risultati sono stati ignorati da Tbilisi, secondo cui i Georgiani costretti a fuggire dalle regioni non sono stati consultati. Il recente conflitto in Ossezia del Sud ha aggiunto ulteriore urgenza alle richieste di autodeterminazione.

Le radici della discordia attuale risalgono possibilmente alla politica del divide et impera di Joseph Stalin – egli stesso per metà georgiano e per metà osseto. Prima della rivoluzione del 1917, i gruppi etnici di tutto il Caucaso vivevano separatamente all’interno dell’impero russo. Tuttavia con i bolscevichi arrivò la ridefinizione della geografia della regione, e sia l'Ossezia meridionale e che l’Abkhazia diventarono parte della Georgia.

Quando l'Unione Sovietica crollò, l'allora leader georgiano Zviad Gamsakhurdia lanciò lo slogan nazionalista "La Georgia ai Georgiani", riaprendo vecchie ferite. Seguirono due conflitti militari che lasciarono migliaia di morti e costrinsero molti a fuggire dalle zone di conflitto.

Il cessate-il-fuoco nei primi anni 1990 ha sancito l'indipendenza de facto di entrambe le regioni separatiste, con la traballante tregua gestita da forze di peacekeeping composte principalmente da truppe russe.

La Russia non ha mai riconosciuto l'indipendenza delle due repubbliche, anche se la Georgia ha ripetutamente accusato Mosca di cercare di annettere parte del suo territorio.

Dal quando Mikhail Saakashvili è diventato presidente, nel 2004, si è impegnato a portare il suo Paese più vicino all’occidente, il che ha anche motivato il suo tentativo di porre fine alle dispute territoriali.

Georgiani e Osseti hanno vissuto fianco a fianco per secoli. I due gruppi condividono la storia sovietica e la religione cristiana ortodossa e i matrimoni misti sono comuni. Ma i legami che una volta le due culture condividevano sono stati gravemente danneggiati dal trauma dei recenti combattimenti. La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel mese di febbraio, inoltre, ha favorito le ambizioni di queste regioni.

Il governo russo ha già fornito un sostegno economico ai governi separatisti nelle due regioni e la maggior parte deegli Abkhazi e degli Osseti del Sud portano un passaporto russo, mentre l'unica moneta valida è il rublo russo. Inoltre, entrambe le repubbliche hanno presidenti eletti, bandiere, inni nazionali, eserciti e il sostegno di Mosca.


Tratto da:
Upper chamber backs independence of Abkhazia and South Ossetia
su
Russia Today, Russia, 25 agosto 2008
Russia moves to back separatists
su
Al Jazeera.net, Qatar, 25 agosto 2008
tradotto da Bruno Picozzi



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