domenica 24 agosto 2008

Tra i dannati del Sichuan oscurati dalle Olimpiadi

Manifestavano a favore dei diritti umani durante i Giochi Olimpici. La polizia cinese li ha arrestati e li ha tenuti in prigione per almeno dieci giorni. Protagonisti di questa ennesima violazione dei diritti civili da parte delle autorità di Pechino sono dieci ragazzi stranieri arrivati nella capitale cinese nelle scorse settimane.
Lo ha denunciato l’organizzazione non governativa di New York «Students for a Free Tibet», precisando che gli arresti più recenti risalgono a giovedì e riguardano quattro militanti pro-Tibet - un tedesco, due americani e un britannico - sorpresi a srotolare una bandiera tibetana vicino al «Bird’s Nest» National Stadium. Il Foreign Office di Londra ha confermato l’arresto del manifestante britannico e ha emesso un comunicato in cui afferma che la Cina deve rispettare i suoi impegni verso la libertà di espressione. Utilizziamo lo spirito olimpico per risollevarci dalla catastrofe». Lo striscione, rosso a ideogrammi cubitali gialli,è appeso sopra un ponte che attraversa la statale verso Beichuan. Ma lo spirito olimpico qui è assai lontano: perché nella zona dell’epicentro del terremoto di maggio, non c’è nulla in cui la Cina abbia voglia di specchiarsi. In compenso la «catastrofe» inizia dopo pochi chilometri, sotto un cielo infernale gonfio di pioggia che minaccia migliaia di baracche e tende di fortuna, stracci issati sopra il bambù, bambini che vagano nel nulla. Si arrampica lungo una strada di quasi 200 chilometri che da Chengdu, capoluogo del Sichuan, porta all’epicentro del terremoto che il 12 maggio scorso, alle 14.28, cancellò dalla faccia della terra una zona grande più o meno due volte il Piemonte, lasciando senza casa 10 milioni di persone, un milione in più degli abitanti della Lombardia. E termina, «la catastrofe», diventando tragedia, in quello che doveva essere un paesaggio da fiaba, tra montagne a cono e torrentelli allegri, dove una volta sorgeva Beichuan, quasi 20 mila anime, ora un gigantesco cumulo di macerie sotto le quali sono morte oltre 10 mila persone, di cui moltissimi bambini in quel momento a scuola. Uno dei sopravvissuti lo ha visto tutto il mondo il giorno dell’inaugurazione dei Giochi, teneva per mano il gigante del basket Yao Ming.

La strada per Beichuan, o quel che ne rimane, è stata riaperta tre giorni fa, e si percorre a proprio rischio e pericolo tra piccole voragini nell’asfalto e crolli improvvisi delle pareti rocciose tra cui si snoda, incontrando colonne di camion militari che non hanno affatto abbandonato quest’area, come dichiarato invece a Pechino. A due o tre chilometri dall’ingresso del paese ci si deve fermare comunque: lì possono andare solo i sopravvissuti per recuperare le poche cose che riescono a trovare tra le macerie, prima che le ruspe portino via tutto e spargano la calce per seppellire scorie e cadaveri «dispersi», che ancora impestano l’aria con l’odore della putrefazione. Ed è una pena vedere la spola di questa povera gente che con i cesti di vimini intrecciati sulle spalle o i carretti spinti a mano fa avanti e indietro tra i luoghi del dolore e quelli della disperazione, dove si accumulano mobili, suppellettili, magari un televisore, una ruota di bicicletta, qualche vestito.

Anche ieri notte c’è stato un terremoto, quarto-quinto grado grado della scala Mercalli, che ha colpito la vicina provincia dello Yunnan: tre morti e un centinaio di feriti. Sui giornali se ne trova a stento notizia, ma è da tempo che le scosse si susseguono e la gente continua a tremare. E, se ha ancora una casa, a scendere per strada. Come succede ad Anxian, 30 chilometri più a valle, dove le persone vivono in palazzi ormai deformati, con i vetri rotti e le macerie ancora sui marciapiedi. È la Cina poverissima, umiliata e nascosta che sul far della sera è costretta a rischiarare le povere tende con i lumini a petrolio mentre a 2 mila chilometri di distanza Pechino accende i suoi scintillanti grattacieli e illumina le Olimpiadi.

Meno male che ci sono gli striscioni del Partito: «Non perdere la speranza! Prevenire la tragedia, cooperare insieme!». Nel paese degli slogan, giusto tre giorni fa il governo ha convocato una conferenza stampa per annunciare trionfalmente che la ricostruzione era iniziata. «Chi ha perso la casa nel terremoto - ha dichiarato Huang Yanrong, responsabile del partito comunista nella regione del Sichuan - potrà entrare in una nuova abitazione entro dicembre del prossimo anno». Passando di qua, tuttavia, si ha la sensazione che la promessa difficilmente verrà mantenuta. Che fine hanno fatto i segretari di partito locali accusati dalla gente di aver lasciato costruire agli speculatori case di cartone, scuole senza protezione? Ride amara Meng, l’autista che ci accompagna: «Li hanno puniti... con una multa».
Mentre le donne, le madri dei bambini sepolti dalle macerie, sono state dissuase con metodi non proprio urbani dal recarsi a Pechino per protestare nei parchi: l’Olimpiade non si disturba. Il 9 luglio scorso il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, aveva rivelato che i genitori di Beichuan avevano raccolto firme per una petizione da inviare a Pechino: chiedevano maggiore chiarezza sui crolli delle «scuole tofu», così chiamate per la friabilità dei materiali, simili alla consistenza del formaggio di soia cinese. Alla fine non se n’è fatto nulla. Un po’ perché l’avvocato che si era offerto di aiutarli, Huan Qi, è stato arrestato, un po’ perché la gente non crede molto alle promesse del governo. Infine la polizia ha fatto un’opera capillare di convincimento, costringendo i capi famiglia ad accettare un risarcimento in cambio della rinuncia alla protesta: 8.800 dollari per la morte di un figlio, e 5.600 dollari per un genitore. Tutto in contanti.

«Agire da soli! Il governo dà il suo supporto!» - Supporto? «Qui non ci considera nessuno», spiega la signora Zhou, un bimbo di tre mesi in braccio. «Olimpiadi? Io ho preferito non guardarle. E come potevamo vederle poi? Con i televisori rimasti sotto le macerie delle nostre case? Viviamo in tende o baracche che ci siamo costruiti da soli dove l’aria è irrespirabile, l’umidità impossibile». «Il giorno del terremoto non lo dimenticherò mai», si velano gli occhi al signor Zhang mentre, dopo averci accolto come ospiti d’onore nella sua tenda-baracca, racconta gli istanti del sisma: «Tremava tutto, le montagne crollavano sui villaggi. I soldati arrivarono qua alla sera, sono stati bravi. Della mia famiglia non è morto nessuno ma ora non abbiamo più nulla. Non posso neanche lavorare la terra perché non c’è più un campo rimasto piatto». E per mangiare? «Il governo ci passa 15 chili di riso e 300 yuan (30 euro, ndr) al mese». Bastano? Non risponde, allarga la mano verso figli e la nuora incinta, magri da far spavento.

«Lo spirito olimpico, lo spirito cinese, lo spirito di Beichuan!». I numeri ufficiali parlano da soli: 68 mila morti, 360 mila feriti, 18 mila dispersi (che dopo 100 giorni esatti dal terremoto forse si potrebbero considerare defunti). Secondo il governo poi, dal 12 agosto, il 93 per cento delle fabbriche e il 92 per cento dei negozi hanno riperto. Basta vedere le fabbriche ancora distrutte nella vallata per farsi un’idea delle percentuali. Quanto ai negozi, quassù ci sono una serie di baracche che vendono sigarette e biscotti... «Il terremoto non può fermare lo spirito del popolo». Effettivamente lungo le strade più a valle si notano cumuli di mattoni lasciati sui bordi a disposizione di chi voglia prenderli con auto o carriole. E va segnalato che tra gli atleti olimpionici c’è stata una vera gara di solidarietà, così come tra gli attori famosi. Il governo si è mosso in fretta, stanziando fondi per miliardi di euro. Il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jiabao si sono precipitati sul luogo della tragedia facendosi vedere in televisione mentre consolavano le vittime, dirigevano i soccorsi e partecipavano al lutto. Quasi fossero politici eletti davvero dalla gente. La loro risposta è stata comunque più rapida e solidale di quella del presidente George Bush dopo l’alluvione di New Orleans. Ma alla base di questo comportamento c’è una ragione cruciale: nonostante le Olimpiadi, la Cina rimane sempre un Paese in bilico. Dietro gli slogan e le risposte gentili della gente, dove le tragedie prendono corpo, s’intuisce una profonda insofferenza. Che prima o poi potrebbe esplodere.


Tratto da:
Tra i dannati del Sichuan oscurati dalle Olimpiadi di Paolo Colonnello
su
La Stampa.it, Italia, 24 agosto 2008


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