Domenica 28 settembre l’Ecuador sarà teatro di quella che il suo presidente ha definito “la madre di tutte le battaglie”. Nove milioni di cittadini si recheranno alle urne per decidere il destino della Nuova Magna Carta, risultato del lavoro dell’Assemblea costituente che per otto mesi – da novembre a luglio – ha messo nero su bianco il sogno di tanti: le basi per un paese più giusto, più equo, più solidale. La vittoria del “no”, infatti, significherebbe una sconfitta epocale non solo politica, in quanto lascerebbe senza ossigeno la strada del cambiamento così faticosamente intrapreso dal piccolo Stato sudamericano.
In gioco non c’è solo la riconquista della sovranità nazionale, da decenni minacciata da interessi economici di multinazionali senza scrupoli che si sono spartiti territorio e risorse grazie a governi compiacenti; non c’è solo l’affermazione della capacità di un Stato finora schiavo dei grandi poteri di riprendere le redini del suo destino, regolando e ridistribuendo secondo l’interesse nazionale; non c’è solo l’installazione di basi egualitarie per avviarsi verso uno sviluppo sostenibile. Come ha spiegato Franklin Ramirez Gallegos di Le Monde Diplomatique “in gioco domenica c’è la continuità della trasformazione della matrice del potere sociale, in una direzione in cui le forze sociali popolari, che hanno dato impulso alla necessità di cambiamenti radicali in Ecuador, possano sostenere politicamente la propria esperienza organizzativa, riempire di contenuti democratici le loro proposte costituzionali e continuare nella lotta in nome del desiderio di cambiamento. Eccolo tutto il peso storico del voto cittadino del 28 settembre”.
Contrari, senza se e senza ma, a questa nuova Carta e a tutto quello che significa per il Paese sono la destra, i tradizionali gruppi del potere economico capeggiati dal sindaco di Guayaquil Jaime Nebot, e altri settori d’opinione trainati dall’Opus Dei, ossia il settore più oscurantista della Chiesa Cattolica. Per queste forze, quanto è uscito dall’Assemblea di Montecristi è totalmente da rigettare. Anzi la levata di scudi delle alte gerarchie ecclesiastiche contro una Costituzione che apre le porte alla legalizzazione dell’aborto e al riconoscimento delle unioni fra persone del medesimo sesso e che, in accordo con l’interpretazione data dall’intera cordata del “no”, rafforzerebbe eccessivamente il potere del Capo dello Stato, rende questa sfida non facile.
Le ultime inchieste danno il “sì” attestato sul 50 percento dei consensi, contro il 30 dei “no” e un 25 di pericolosamente indecisi, che rendono ogni previsione azzardata. Unica cosa certa, e insolita nella storia del paese, è il livello di partecipazione popolare alla discussione sul testo, diffuso in lungo e in largo. In ogni angolo non si parla d’altro, anche grazie ai grandi mass media, legati all’opposizione, che rendono difficile il compito di Alianza Pais e di Correa e con loro dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si stanno impegnando per diffondere il “sì” in nome di un nuovo Ecuador. Sono più di due milioni i centri appositamente creati dove si distribuisce e si spiegano gli articoli costituzionali, venendo incontro a ogni domanda e perplessità.
Per usare ancora le parole di Gallegos, contrariamente alla Costituzione adesso in vigore, nata nel 1998 in un quartier generale militare e senza tener conto della posizione del popolo, “la proposta del 2008 è l'insieme delle idee, domande, interessi emersi dalla resistenza popolare al neoliberalismo e dalle istanze di modernizzazione democratica e di trasformazione sociale dello Stato, della politica e dell’economia”. Una Carta che si basa, dunque, su un modello di sviluppo incentrato sull’uguaglianza sociale, sulla sostenibilità della sovranità economica e alimentare del paese, sul rafforzamento delle regole ambientali per lo svolgimento delle attività produttive, sul rafforzamento del principio di non discriminazione, della parità di genere e sul riconoscimento della plurinazionalità di uno Stato, culla di svariate culture e popolazioni ancestrali. La nuova Carta è un inno alla partecipazione sociale e democratica diretta, al primato del potere civile su quello militare, al suffragio universale (ampliato ai maggiori di 16 anni, agli ecuadoriani all’estero, agli stranieri). Il conflitto pluriennale che ha visto cadere per la rabbia popolare, uno dietro l’altro, i presidenti eletti, e che è sfociato nella Revolucion Ciudadania di Correa e nell’Assemblea Costituente appena conclusasi, ha dato quindi vita a questo testo, che esprime una visione del mondo condivisa da più parti. E il cammino per arrivare a tanto non è stato certo in discesa.
Anche all’interno della maggioranza, entità di diverse estrazioni ideologiche e tutt’altro che compatta, ci sono state defezioni, discrepanze, duri scontri. E le severe critiche e rotture non si sono fatte attendere. La più eclatante, quella con Conaie, la potente Confederazione di nazionalità indigene ecuadoriana, che, dopo aver presentato all’Assemblea un progetto di Costituzione che correggesse la storica esclusione delle popolazioni indigene e di altre minoranze, ha dovuto lottare con le unghie e con i denti affinché tali proposte venissero capite e incluse adeguatamente nei 444 articoli. E senza riuscirci completamente. Perché sul piano dei diritti delle popolazioni ancestrali questa Carta “resta carente” e la Confederazione promette lotta instancabile, specie sul piano minerario, contro ogni ulteriore estrazione petrolifera in barba ai diritti delle popolazioni ancestrali. Nonostante questo, però, la Confederazione ha deciso di promuovere comunque un “Si critico” in nome delle novità sociali, ambientali, culturali, economiche, di cittadinanza e sovranità che realmente la proposta di Montecristi garantisce. Basterà per incanalarsi nel vero rinnovamento?
Tratto da:
La madre di tutte le battaglie di Viola Conti
su PeaceReporter, Italia, 25 settembre 2008
venerdì 26 settembre 2008
Domenica in Ecuador il referendum sulla nuova Carta Costituzionale
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