In Somalia si sono riaccese le speranze di pace in seguito all’accordo firmato il 19 agosto scorso dal Governo Federale di Transizione (GFT), e dall’Alleanza per la Ri-Liberazione della Somalia (ARS). Finora, però, gli sforzi della diplomazia internazionale e soprattutto dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Somalia, Ahmedou Ould-Abdallah, non sono stati sufficienti a scacciare le molte ombre che ancora aleggiano sull’effettiva capacità delle parti di rispettare gli impegni presi. Gli scontri militari continuano e sia le istituzioni transitorie che l’opposizione sono profondamente frammentate.
Le insidie dell’accordo di Gibuti
L’accordo di pace mira a porre fine agli scontri che coinvolgono ormai da due anni almeno due fazioni. Da un lato l'esercito etiopico e le forze del Governo Federale di Transizione - nato a Nairobi nel 2004 e presieduto da Abdullahi Yusuf - dall'altro gruppi di miliziani per lo più ex militanti delle deposte Corti islamiche e ostili all'occupazione etiopica. L’accordo prevede inoltre la creazione di due commissioni: una con il compito di realizzare un cessate-il-fuoco, l'altra cui sarà affidata la gestione del processo politico di ricostruzione previsto per il 2009.
Oltre a riconoscere ufficialmente – e per la prima volta – la presenza di truppe etiopiche nel paese, l’accordo contiene anche un riferimento al loro ritiro, da effettuarsi, con il consenso del governo di Addis Abeba e contestualmente al dispiegamento di una missione di pace composta da caschi blu dell’ONU.
Lo scontro tra i due leader del GFT è anche il frutto della decisione del premier di rimuovere l'ex signore della guerra Mohamed Dheere dalla carica di primo cittadino di Mogadiscio e governatore della regione di Banadir, mossa questa fermamente respinta dal presidente, da sempre stretto alleato di Dheere. L’Unione Africana (UA) – e soprattutto il governo etiopico – sono scesi quindi in prima linea per evitare la definitiva rottura tra le due più alte cariche delle istituzioni transitorie che, se dovesse permanere e aggravarsi, potrebbe trascinare nel baratro anche l’accordo di pace.
Le divisioni dell’opposizione
Ai problemi del GFT si aggiungono inoltre quelli dell’opposizione dell’ARS. La spaccatura che ha colpito l’ARS sembra essere principalmente riconducibile a quella che da tempo coinvolge il gruppo delle Corti Islamiche (l’opposizione somala di stanza ad Asmara si compone di almeno quattro correnti: le Corti Islamiche, alcuni ex parlamentari, rappresentanti della diaspora e membri della società civile somala), e in particolare tra i due leader Sheikh Hassan Dahir Aweys – già presidente della Shura durante il periodo di governo delle Corti su Mogadiscio – e Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, considerato dalla comunità internazionale – Stati Uniti in testa – come l’anima moderata dell’opposizione, ma con un background religioso decisamente più marcato rispetto al primo.
La nomina di Dahir Aweys a nuovo presidente dell’Ars di Asmara, visto il suo passato all’interno del gruppo islamista Al-Itihaad al-Islamiya (AIAI) – presente nella “black list” americana delle organizzazioni terroristiche per i suoi presunti legami con Al-Qaida – sembra per ora aver escluso l’opposizione somala di stanza ad Asmara dalle trattative di pace, e rischia in futuro di compromettere seriamente l’accordo dipace.
I rischi di una deriva radicale
La partita somala non si gioca solo all’interno del paese, ma da tempo sembra essersi allargata all’intero scenario regionale. L’Etiopia e l’Eritrea in particolare hanno un ruolo determinante nella crisi, e possibili soluzioni non possono non tener conto delle ambizioni geopolitiche dei due paesi. Inoltre il relativo deterioramento dei rapporti tra Etiopia ed Eritrea, successivamente alla conclusione del conflitto transfrontaliero del 1998-2000, ha indotto i due governi a cercare di risolvere altrove il contenzioso di confine. La Somalia è oggi pienamente coinvolta in queste dinamiche, e considerare la crisi che attraversa Mogadiscio come di natura solamente interna potrebbe rivelarsi un errore cruciale.
Per gli Usa e parte della comunità internazionale, aver provato ad impostare il dialogo coinvolgendo solo alcune frange dell’opposizione ha sortito effetti poco confortanti. Gli scontri nella capitale e in tutto il sud del paese proseguono, e all’orizzonte si intravedono almeno due rischi. Primo, l’opposizione di stanza ad Asmara, a prescindere dai legami effettivi intrattenuti con la guerriglia somala, per il solo fatto di opporsi duramente alla presenza etiopica ha potuto trovare fino ad oggi il favore di consistenti fette della popolazione del sud del paese. Se l’ARS dovesse dissolversi, e contestualmente il dialogo impostato a Gibuti fallire, si potrebbe assistere ad un aumento esponenziale di sostegno – politico e militare – a favore di gruppi armati più intransigenti, come Al-Shabab e il GIS (Fronte Islamico Somalo), attualmente tra i movimenti più attivi nel contrastare l’esercito etiopico e le milizie fedeli al GFT. Ciò provocherebbe principalmente una spiccata “jihadizzazione” dell’opposizione, armata e non, rendendo al contempo questi movimenti nuovamente impermeabili al dialogo e rischiando di trasformare una guerra di liberazione in un’insurrezione a carattere esclusivamente islamista.
Problemi potrebbero sorgere inoltre – questo il secondo rischio rilevante - anche all’interno delle istituzioni transitorie, come di fatto sta già accadendo. Come ricordato, i rapporti tra il Primo ministro del GFT, Nur Adde, e il Presidente Abdullahi Yusuf sono attualmente molto tesi. Il futuro politico di Nur Adde è inoltre molto legato all’obiettivo di ricucire i rapporti con l’opposizione e alle sue maggiori capacità di dialogo rispetto al predecessore Mohamed Ghedi. Se ciò dovesse fallire, la posizione di Nur Adde ne risulterebbe molto indebolita, aprendo ampi margini di manovra ai “falchi” delle istituzioni transitorie, da sempre favorevoli ad una soluzione decisamente più muscolare alla crisi.
Una profezia che si autoavvera?
Gli sforzi per porre fine ai diciotto anni di guerra civile in Somalia da parte della comunità internazionale sembrano risentire profondamente delle spaccature interne alle parti in causa. Il carattere preventivo dell’azione etiopico-statunitense, che pose fine al governo delle Corti islamiche a Mogadiscio nel dicembre del 2006 attraverso una controversa operazione militare (osteggiata allora anche dal governo italiano), rivela oggi tutti i suoi limiti. La risposta bellica a un pericolo più potenziale che reale si sta traducendo non solo nell’estrema radicalizzazione dell’opposizione somala, unita alla forte delegittimazione delle istituzioni transitorie, ma anche in una profezia che si autoavvera. A uscirne rafforzata potrebbe essere infatti proprio la minaccia terroristica nel paese, testimoniata ultimamente dall’inasprimento e riorganizzazione di una guerriglia sempre meno nazionalista e sempre più islamista.
Matteo Guglielmo è dottorando in Africanistica all’Università degli Studi “L’Orientale” di Napoli con un progetto di ricerca sulla “Dimensione regionale della crisi somala”. matteoguglielmo@gmail.com
Tratto da:
Somalia, un accordo in bilico di Matteo Guglielmo
su AffarInternazionali, Italia, 4 settembre 2008
Articoli di riferimento:
Somalia - Scheda Conflitto - PeaceReporter
martedì 9 settembre 2008
Somalia, un accordo in bilico
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