martedì 2 settembre 2008

Ruanda, 14 anni dopo i massacri

Dalla collina di Gisozi la vista su Kigali è magnifica. Il cielo ti sembra di toccarlo. In Africa, soprattutto sulla linea dell’equatore è così. Ma qui è diverso: il cielo incontra davvero la terra e tocca le persone... Eppure è questo il luogo in cui è concentrato tutto l’orrore del Ruanda. Qui è concentrata una storia di pochi mesi che ha sostituito la notorietà dei suoi meravigliosi gorilla, dei maestosi monti Virunga, delle celeberrime “Mille colline” con una sola, terribile parola: genocidio.

Qui, sulla collina di Gisozi, sorgono gli edifici del Memorial of Genocide. Entri e d’improvviso ti accorgi di come sia strano che i pensieri possano correre ed essere fermi nello stesso tempo. Entri, e il tuo tempo si ferma. Come quello bloccato da colpi di machete o bastoni. E’ noto: in circa 100 giorni furono oltre 800mila le persone uccise in maniera barbara, orrenda. Si trattava di Tutsi, e Hutu moderati.

In un’orgia di orrore e sangue che ancora oggi, dopo quattordici anni, non ha risposte. Certo ci sono le risposte politiche, razionali, terribilmente logiche (conquista del potere, eliminazione degli avversari, fino al tentativo di cancellare una etnia 'scomoda' e 'odiata') che in tanti hanno analizzato. Ne sono venute fuori pubblicazioni, interviste, film e relazioni ufficiali. Ma quelli che sono qui, le persone con cui abbiamo cercato di ricostruire un filo, quelle risposte non ce le hanno. E in realtà non sai davvero perché è accaduto", ci dice chi ha acconsentito ad accompagnarci nonostante questo posto rappresenti per lei un luogo di dolore troppo grande anche per essere espresso. "Quello che sai è che il futuro qui è un'ipoteca e non puoi fare progetti. Se non comprendi davvero il perché sia accaduto, non sai come puoi prevenire che accada di nuovo. Quello che voglio dire è che non sono le ragioni politiche che vanno analizzate, ma il perché si può arrivare a un livello così estremo di barbarie". La ricerca del perché … Ma come si possono trovare perché quando se provi a interrogare, cercare, capire, la prima raccomandazione è: per favore non fare riferimento a Tutsi e Hutu, non chiedere mai se apparteniamo all’una o all’altra etnia. Sì, formalmente questa distinzione non esiste più, ma è solo all’indomani del genocidio che venne abolito l’obbligo di indicare l’appartenenza etnica sui documenti d’identità. Pratica introdotta dal sistema coloniale belga e di cui si avvantaggiarono i carnefici per identificare le vittime in caso di dubbio. In Ruanda, quindi, è impossibile chiedere. Eppure puoi capire chi è la persona che ti sta di fronte ascoltando ciò che dice (sempre che accetti di parlare). A volte comprendi in fretta dai riferimenti espliciti, altre volte devi cogliere dalle sfumature, dalle frasi dette a metà, dai silenzi …

Qui, dopo quattordici anni, nulla è placato. Né il ricordo, né il dolore. Neanche il rancore e il desiderio di rivalsa. Ma le cose non si dicono e, come ci avverte una insegnante italiana in servizio da anni a Kigali per una diocesi locale, "sarà difficile trovare un Hutu che lamenta apertamente di sentirsi oggi una minoranza controllata a vista ed esclusa dalla vita sociale". Come è difficile trovare qualcuno in grado di confermare voci di sparizioni di gente comune di cui all’improvviso non si sa più nulla. Semplicemente la sera non torna più a casa. Leggenda, discredito o verità, poco importa. I ruandesi hanno capito semplicemente una cosa, che "la cronaca di una morte annunciata, come è stato il genocidio, può diventare realtà all’improvviso e dopo tanto tempo stai ancora a domandarti come sia stato possibile". Così la nostra accompagnatrice sintetizza un percorso di riflessione che non ha ancora trovato fine. Non si parla di quelle della giustizia, delle commissioni di inchiesta e dei tribunali, ma delle persone che si interrogano sulla ferocia dell'uomo e basta, che continuano a convivere con il vicino che ha massacrato i figli o i genitori, che avevano amici che gli sono entrati in casa per metterla a fuoco.

Ci guardiamo intorno e ci accorgiamo che ci sono soprattutto giovani. Sono in gruppo, si muovono con scuole, associazioni, parrocchie e, dopo aver salito a piedi la collina che porta al Memorial agitando striscioni, si aggirano silenziosi in queste stanze che ripercorrono i giorni dell’inferno. Qualche ragazza piange, vorresti evitare di guardare, ma ti accorgi che invece c’è qualcuno che guarda te e ti fa sentire uno spettatore alieno che osserva ma non comprende. Ma neanche loro capiscono...

Il Memorial è costruito su uno spazio dove sono state seppellite 250mila persone, all'interno l'ossario (una grande stanza buia) toglie il respiro. Non riesci a guardare a lungo, ma riesci a guardare meno le migliaia di sguardi delle foto che ricoprono un'intera stanza del Memorial. Chi ci viene, ancora oggi riconosce parenti, amici, conoscenti. In tanti ci sono venuti cercando qualcuno che non ha mai più rivisto. La stanza riservata al ricordo dei bambini ha un titolo, 'Tomorrow lost', e poi ha i volti (qualche volta si tratta dell’unica fotografia di bambini di pochi mesi o pochi anni) e le parole, le ultime pronunciate prima di essere massacrati. C’è voluto un bel po’ di lavoro per questa ricostruzione, la ricerca dei testimoni non è stata certo semplice, molti di questi bambini sono morti tra le braccia dei genitori, che poi sono stati uccisi. Ma quello che ne viene fuori è l’orrore più grande contenuto in questo luogo. Infine, c’è la storia, anzi le storie. C’è il racconto di questo genocidio, cominciato ufficialmente il 7 aprile 1994, attuato sotto gli occhi della comunità internazionale e fermato poco più di tre mesi dopo, solo quando le forze del Fronte Patriottico Rwandese (Rpf) presero il controllo del Paese lasciandosi a loro volta alle spalle esecuzioni sommarie, violenze, vendette. Ci sono i nomi e cognomi delle persone coinvolte, dei governi europei compromessi, dei carnefici, dei leader sotto accusa per genocidio: pochi condannati, molti ancora in attesa del processo, alcuni ricercati. Ma ci sono anche le storie di altri genocidi, lunghe pagine che, anche in questo caso, non hanno trovato risposte, qualche volta neanche quelle dei tribunali e della giustizia. Quello degli ebrei, degli armeni, dei kosovari, dei cambogiani …

I ragazzi del luogo con cui condividiamo silenziosamente questa esperienza, fianco a fianco senza conoscerci, si fermano nella stanza dove è allestito un grande schermo che trasmette le testimonianze di alcuni sopravvissuti. Sono storie di violenze bestiali, ma sono storie vere. Ci domandiamo cosa ne pensano questi giovani che all’epoca erano solo dei bambini o appena adolescenti, e che cosa ricordano. In molti, la maggior parte, non vuole parlare, ma quando usciamo da questo contesto di dolore e andiamo a trovare qualcuno di loro nel posto dove vive, allora l’atmosfera è diversa, appena più rilassata e disposta al dialogo.

Maurice aveva 15 anni nel ’94, i genitori sono stati massacrati dai vicini "gli stessi vicini che poi quando le cose sono cambiate si sono offerti di dare una mano a me e ai miei due fratelli", ricorda. Loro erano a casa, nel distretto di Ruhango, e chissà come intuirono che era meglio fuggire. Quando l’ondata di violenza si placò tornarono. Lì nella stessa casa, accanto agli stessi vicini. Del resto non avrebbero saputo dove altro andare. "Sapevamo che i nostri vicini avevano ucciso i nostri genitori - dice Maurice - ma se avessimo rifiutato il loro aiuto cosa sarebbe accaduto?" Alla domanda "perché" lui non sa cosa rispondere, ma riflette: "Io non so cosa c’era nella testa delle persone in quei giorni ma quello di cui sono sicuro è che ognuno di noi ha un valore. I giovani, soprattutto, devono crederci se vogliamo evitare che cose del genere accadano ancora". Marcel, che all’epoca aveva 8 anni dice: "Io non voglio che si dimentichi quello che è accaduto, a scuola, soprattutto nei primi tempi, si formavano dei gruppi e se ne parlava, anche se non era facile. Oggi credo che i giovani siano più consapevoli, il pericolo di separazione viene dagli adulti". Jeanne fa fatica a parlare, dopo un po’ che siamo insieme, si alza e si allontana per piangere da sola. Nessuno dei ragazzi si alza per seguirla, la lasciano andare. Poi, dopo qualche minuto, ritorna. I genocidiares le hanno massacrato la madre, lei ne ebbe conferma solo dopo due anni, quando un conoscente le disse in quale fossa comune era stata sepolta. Per tanto tempo non ha saputo cosa pensare. Jeanne aveva 15 anni, con l’aiuto della nonna e dell’assistenza umanitaria è riuscita a studiare sociologia. "Ci hanno braccati come fossimo animali - racconta - tutto era bestiale in quei mesi, non c’era nulla di umano. Quando sono tornata a scuola non facevo altro che pensare: forse il genitore di questa mia compagna o di quel compagno sono gli assassini di mia madre. Come posso parlare con loro?" Anche Jean Claude, che oggi fa l’assistente sociale, aveva 8 anni all’epoca del genocidio. Suo padre era nel Fronte Patriottico Rwandese. Di quei giorni ricorda "bambini che uccidevano bambini e non capivi perché". Lui veniva dal Burundi dove viveva, già ad 8 anni, la vita del rifugiato, vittima di un altro conflitto. "Ma sarebbe stato meglio tornare lì - dice - qui in quei giorni sembravano tutti impazziti".


Tratto da:
Ruanda, la collina della memoria
su
PeaceReporter, Italia, 2 settembre 2008

Articoli di riferimento:
Il genocidio nel Rwanda


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