martedì 30 settembre 2008

El Salvador. La violenza è la nostra compagna di vita

Intervista in esclusiva a Puppet, capo della “Pandilla 18” nella città di El Salvador. Dice che ha letto la Bibbia tre volte e che i pandilleros - i membri delle pandillas, le bande di strada - sono “non solo esecutori, ma anche vittime del sistema di violenza” in El Salvador.

Ci sono voluti tre mesi per riuscire a parlare con “Puppet” (burattino), dopo diversi tentativi falliti e misure di sicurezza molto simili a quelle che servivano per entrare in contatto con i gruppi della guerriglia ai tempi della guerra civile (1980-1992).

Per raggiungere il luogo concordato, abbiamo dovuto addentrarci per i vicoli di un paesino di cui non possiamo rivelare il nome, nella parte occidentale di questo paese centroamericano.

E vincere la diffidenza del nostro interlocutore, un ragazzo di 28 anni, nei confronti dei giornalisti. Tendete sempre a “mostrare solo il lato perverso delle pandillas”, assicura. Forse proprio per rimediare questa mancanza, anche lui un giorno vorrebbe diventare giornalista.

Per molto tempo si è dedicato allo spaccio di droga e al furto. “Mi ha dato la possibilità di fare molti soldi e di avere molte macchine", un’attività che, insiste, ha già abbandonato da tempo.

Puppet ammette che le pandillas hanno anche praticato l’estorsione e che molti pandilleros vengono reclutati, a titolo personale, dalla criminalità organizzata, come sicari.

Il suo aspetto fuga ogni dubbio: sulle braccia e sul petto mostra tatuaggi che lo hanno segnato per sempre, visto che un pandillero “non smette mai di essere membro della banda anche se non è più attivo”. Ha una figlia di quattro anni, Puka. E non si separa mai dal suo telefono cellulare.

IPS: Quanti anni avevi quando sei entrato nella banda?

PUPPET: Avevo 13 anni.

IPS: Perchè?

P: Dopo la fine della guerra, era diventata una moda. Pura curiosità. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto, nonostante le mie follie e quello che sono diventato. Ho sempre vissuto con i miei genitori e ho sempre avuto un ottimo rapporto con loro. La mia famiglia non è mai stata la ragione per cui sono entrato nella banda.

IPS: Hai superato il rito di iniziazione (essere picchiato da diverse persone per 18 secondi)?

P: Ovvio, è la regola.

IPS: Di cosa ti occupavi in quel periodo?

P: Le nostre attività erano proteggere e difendere il nostro quartiere da altre bande, che venivano a rubare e a maltrattare i più piccoli. Così ci siamo guadagnati il rispetto degli abitanti della comunità, che si sono resi conto che noi li proteggevamo. Una protezione che non avevano neanche dalla polizia.

IPS: Come vi difendevate?

P: All’inizio non avevamo armi da fuoco, usavamo solo coltelli, machete, bastoni e pietre.

IPS: E voi non facevate le stesse cose nel quartiere dominato dall’altra banda?

P: Dove sono cresciuto, ho imparato che le famiglie, e quelli che non sono membri delle bande, non sono tuoi nemici; i tuoi nemici sono le altre bande. Per questo cresciamo in gruppo. Nei quartieri sotto il nostro controllo non chiediamo nemmeno soldi e non viene rubato niente, perché noi proteggiamo queste comunità.

IPS: Fate uso di droghe?

P: La droga - marijuana e alcol - in questo ambiente sono cose normali. Dal 1995, la vendita di cocaina e crack fa parte del business, ma il loro consumo è proibito, per i danni alla salute. Noi vendiamo droga per sopravvivere. La stessa polizia ci vendeva la droga che aveva sequestrato da qualche altra parte. Quella droga la comprano avvocati, giudici, dottori e gente con i soldi.

Per un anno sono stato dipendente dalla cocaina, ma mi sono reso conto dei danni che provocava a me e alla mia famiglia; sono riuscito ad uscirne. Dio mi ha aiutato a lasciare le droghe.

IPS: Se sapete che la cocaina provoca danni, perché la vendete?

P: Così riusciamo a sopravvivere. Ai pandilleros quasi nessuno dà lavoro. Abbiamo bisogno di mangiare, di vestirci, e i nostri figli devono andare a scuola, mangiare.

IPS: Come sei diventato leader?

P: Ci sono molte persone nella banda che mi danno retta. E poi, ovunque vada nel paese c’è gente che mi conosce e sa che potrei aiutarli a fare molte cose, e probabilmente è così. Ogni zona ha un suo leader. L’idea dei leader nazionali in passato è stata una stupidaggine.

Mi riconoscono e mi rispettano come leader, forse perché mi conoscono da quando ero molto giovane, per il mio comportamento con gli “homeboys” (compagni). Non mi è mai piaciuto fare del male alla gente del mio quartiere. Se uno rispetta gli altri, gli altri lo rispettano. Anche quando un membro della banda esagera con gli abitanti del quartiere…

IPS: Che succede?

P: Prima preferisco parlare con loro e fargli capire che stanno facendo una cosa sbagliata. Poi, se si è già parlato e il pandillero non ha capito, bisogna punirlo perché nella pandilla esistono delle regole. La deve pagare, un sacco di botte.

IPS: E in casi estremi, giustiziarlo?

P: Anche. È una regola che hanno tutte le organizzazioni in tutto il mondo.

IPS: Cosa significa la violenza per voi?

P: Fa parte della storia de El Salvador: violenza dentro la famiglia, abuso e abbandono di minori, disgregazione, violenza privata e istituzionale, e abusi e tortura psicologica della polizia e nelle carceri, anche se le autorità assicurano che siamo praticamente solo noi, le pandillas, la causa della violenza.

So di due pandilleros che sono diventati matti nel carcere di massima sicurezza di Zacatecoluca (centro del paese), come conseguenza della reclusione totale. Uno di loro ha finito per mangiare sapone.

Noi siamo esecutori ma anche vittime del sistema di violenza del paese. La violenza è diventata la compagna di vita di tutti i Salvadoregni.

IPS: Gli esperti della sicurezza e le autorità assicurano che le pandillas si sono trasformate, da quando il governo di Francisco Flores (1999-2004) ha cominciato a usare il pugno di ferro con il suo piano del 2003-2004. Da organizzazioni giovanili sono diventate bande criminali.

P: È stato così in alcune zone. Nel mio caso, io vivo in semiclandestinità. Le pandillas hanno dovuto cercare altri metodi per sopravvivere in un ambiente che ci obbliga a non stare più per la strada.

Dobbiamo ricordare che hanno modificato i programmi di governo per poterci perseguire. E se loro fanno un passo avanti, anche noi facciamo un passo avanti per difenderci dalla morte, dal carcere. Le pandillas non possono essere fermate, neanche impiegando “gruppi di sterminio”. Per questo ci associano alla criminalità organizzata, per avere il diritto di sterminarci.

Noi ci siamo decentralizzati, e agiamo per gruppi. La struttura è più orizzontale, la catena di comando verticale appartiene al passato. Quando serve una riunione nazionale, si convocano solo i “pezzi” (membri) che permettono di prendere decisioni globali; ma se poi si prendono decisioni che un leader locale giudica controproducenti, in alcuni posti non si mettono in pratica. C’è autonomia.

IPS: È difficile riunire diversi leader?

P: … (Sorride e prende in mano il cellulare)

IPS: Siete entrati a far parte della criminalità organizzata?

P: Se facessimo parte della criminalità organizzata, una buona parte di pandilleros non sarebbe in prigione, e saremmo prosperi, avremmo la polizia dalla nostra parte, come fa la mafia in altri paesi.

IPS: Le autorità attribuiscono alle pandillas la maggior parte dei delitti, e il 70 per cento degli omicidi.

P: Non è umanamente possibile... Molti gruppi si fanno scudo delle pandillas. Siamo i capri espiatori. Esistono altri gruppi criminali, c’è molta gente che ha fame e commette atti criminali. Ma come dice il proverbio, “fatti la fama e dormici sopra”.

IPS: Qual è il tuo futuro come pandillero?

P: Nella mia zona, la mia “clica” (banda) è disarticolata. La maggior parte dei membri è in galera e appena qualcuno esce, lo rimettono subito dentro, che abbia o meno commesso un altro reato. La polizia e la procura mettono in prigione i pandilleros senza prove.

Ho alcuni amici che per anni non sono stati più attivi nella pandilla, ma per il solo fatto che vivevano nel mio quartiere li hanno presi di nuovo, li hanno associati a delitti in cui non c’entravano niente, e condannati a tantissimi anni di carcere.

Voglio finire gli studi e diventare giornalista. Il mio obiettivo, tra cinque anni, se non sarò in carcere, è vivere in un luogo stabile, lavorare e forse avere un nuova famiglia, un altro figlio. Aiutare la mia Puka.


Tratto da:
La violenza è la nostra compagna di vita di Raúl Gutiérrez
su IPS
, Italia, 29 settembre 2008


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