martedì 7 ottobre 2008

Angola: i perché di una scelta da non imitare

Ci sono voluti sedici anni perché il popolo angolano potesse tornare alle urne, perché la politica del non cambiamento prevalesse e il Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola del presidente José Eduardo dos Santos, capo dello Stato dal 1979, si aggiudicasse le elezioni legislative con l’81,64% delle preferenze. Sedici anni durante i quali, pur rimanendo politicamente statico ed asfittico, l’Angola ha scoperto le immense ricchezze naturali di cui dispone e si è trasformato: è diventato il quarto produttore al mondo di diamanti e, insieme alla Nigeria, il primo produttore africano di petrolio; è entrato a far parte dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio e tra i maggiori sostenitori delle missioni di pace organizzate dall’Unione Africana; ha abbandonato definitivamente l’idea marxista che ne aveva contraddistinto i primi anni dell’indipendenza dal Portogallo aprendosi all’economia di mercato.

Dietro a tutto questo però c’è un rovescio della medaglia, un rovescio amaro che lascia sbalorditi e che dimostra quanto in Angola “democrazia” sia ancora una parola astratta: periferie degradate, baraccopoli che ospitano centinaia di migliaia di persone fuggite dalle campagne durante gli anni della guerra civile, disoccupazione, analfabetismo e una popolazione che per il 70% vive con meno di 2 dollari al giorno. E allora, che cosa è che ha determinato una vittoria così schiacciante?

Due delle peculiarità fondamentali del regime gestito dal presidente dos Santos sono la corruzione e il fenomeno generalizzato delle spese disinvolte, caratteristiche che hanno impedito ai proventi dell’oro nero di cambiare le sorti del paese e di far si che il tessuto sociale avesse i mezzi e le risorse necessarie per recepire l’economia di mercato. Nel 2007 le entrate derivanti dallo sfruttamento del sottosuolo hanno portato il Pil a sfiorare una crescita del 30%, un andamento costante che dura ormai da anni, ma che non è ancora sufficiente a creare, se non per pochi “fortunati”, quella rete d’infrastrutture e servizi di cui ha bisogno il paese: acqua potabile, fognature, luce elettrica, strade e strutture sanitarie capaci di far fronte ad epidemie come quella di colera, che nel solo 2007 ha contagiato circa 80 mila persone, 3 mila delle quali sono morte. Inoltre almeno un terzo dei bambini angolani non va a scuola e uno su quattro muore prima di compiere cinque anni. Così, con un tasso di crescita del 2,7%, un’aspettativa di vita alla nascita di 38 anni per gli uomini e 42 per le donne, un tasso di alfabetizzazione al 42%, un forza lavoro di 6,39 milioni di persone e una disoccupazione che raggiunge il 65%, l'Indice dello Sviluppo Umano redatto nel 2007 dalle Nazioni Unite pone l'Angola al 162simo posto, dietro a Stati quali il Sudan, l’Uganda, l’Eritrea e lo Zimbabwe.

Le elezioni del 5 settembre scorso, le prime dal 1992, sono l’ennesimo esempio della politica del non cambiamento messa in atto da un regime che, a discapito delle regole, si è liberato dell’opposizione e si è impadronito di tutti gli apparati istituzionali del paese. Per l’occasione la classe dirigente che negli ultimi sedici anni ha governato l’Angola si era preparata con grande attenzione, promettendo al mondo un confronto democratico e una struttura organizzativa all’avanguardia: 12.274 seggi per 8 milioni e duecentomila elettori, 17 organizzazioni internazionali e 1.200 osservatori stranieri chiamati a monitorare e controllare il corretto svolgimento delle elezioni.

Un “sacrificio” quantomeno inutile, visto che all’apertura dei seggi la tanto agognata macchina elettorale è subito collassata trasformandosi in un evento che gli osservatori dell’Unione Europea hanno addirittura definito “disastroso”. I problemi, definiti dal governo di Luanda marginali, potrebbero però non essere stati casuali, soprattutto visto il verdetto delle urne che può essere definito un vero plebiscito: Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (Mpla) 81,64% e 191 seggi; Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angola (Unita) 10,39% e 16 seggi; Partito per il rinnovamento sociale (Prs) 3,17% e 8 seggi; Fronte Nazionale per la Liberazione dell'Angola (Fnla) 1,11% e 3 seggi; la Nuova Coalizione Democratica 1,20% e due seggi.

Una delle prime persone che è corsa in Angola per capire cosa realmente stava accadendo è stata Lara Pawson, giornalista e scrittrice che coraggiosamente denuncia da tempo la tragica situazione in cui si trova il paese. La Pawson pone l’attenzione su alcuni fatti che lasciano quantomeno perplessi: tra le fila dell’Mpla sono stati eletti l’ex hostess ed attuale first lady, Ana Paula Dos Santos, ed uno dei suoi figli, Welwitchia Dos Santos Pêgo "Tchizé", quel Pêgo "Tchizé" che praticamente controlla la quasi totalità dei media angolani; l’Mpla stravince anche nelle province di Huambo e Bié, da sempre considerate roccaforte incontrastata dell’opposizione, così come a Luanda dove vota più di un terzo degli avente diritto.

Nella capitale, dove di solito era possibile trovare il sostegno delle radio e dei giornali indipendenti, formazioni quali il Fronte Democratico e l’Alleanza della gioventù operaia e contadini dell’Angola (Pajoca) non raggiungono i seimila voti, meno di un decimo dei sondaggi che gli avevano accreditato almeno 70 mila preferenze. Il leader di Pajoca, David Mendes, giustifica così il fallimento: il ruolo svolto dai media che avrebbe pesantemente condizionato gli elettori; il fatto che la stragrande maggioranza dei seggi e la gestione delle liste elettorali era in mano agli uomini dell’Mpla; i dubbi sul reale numero dei votanti che potrebbe essere notevolmente inferiore ai 7. 213.146 dichiarati.

Le poche dichiarazioni raccolte da Lara Pawson disegnano un quadro di estrema ingiusta, consultazioni viziate dal comportamento della Commissione Elettorale Nazionale (Cne), il comitato composto da undici membri, otto dei quali nominati direttamente da José Eduardo dos Santos, che non ha garantito regole giuste ed imparziali. A causa della mancanza di schede elettorali, la mattina del 5 settembre, a Luanda, centinaia di seggi sono rimasti chiusi e, nonostante la Commissione Nazionale Elettorale abbia deciso di estendere il voto al giorno successivo, le sezioni aperte sono state solo poche decine (22 seggi da quanto riferito dagli osservatori dell’Unione Europea). Per la campagna elettorale la Commissione interministeriale per il processo elettorale (Cipe), anch’essa nominata dal Capo dello Stato e presieduta da Virgílio Fontes Pereira, ministro per l’Amministrazione territoriale e candidato al parlamento tra le fila dell’Mpla, avrebbe dovuto distribuire ai 14 partiti in lizza una cifra pari a 17 milioni di dollari; in realtà i fondi sono stati resi disponibili solo l’8 agosto, tre giorni dopo la fine della campagna elettorale. Ma anche se il denaro fosse arrivato la settimana precedente, i partiti minori non avrebbero avuto nessuna possibilità i battere l’Mpla, una piovra dalle incalcolabili disponibilità finanziarie (più di 300 milioni di dollari spesi per organizzare la campagna elettorale conclusasi il 5 agosto) e da trentatre anni padrona dell’apparato statale, inclusa la Televisione pubblica dell’Angola (Tpa) che per mesi è stata praticamente monopolizzata dalle immagini propagandistiche del presidente José Eduardo dos Santos.

La libertà è un diritto che il popolo angolano non ha mai conosciuto realmente e che nella sua recente storia ha accarezzato solo per qualche mese: dalla fine del colonialismo portoghese, arrivata con la Rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974, al 18 luglio 1975, giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Gerald Ford, dà il via all’operazione segreta “IA Feature” (IA per designare il paese; Feature, la parola chiave scelta per un intervento svolto sotto copertura). Attirati dalle enormi risorse minerarie e spaventati dalla rapida espansione sovietica in Africa, gli Stati Uniti finanziano l’Unita di Jonas Malheiro Savimbi e il Fronte nazionale di liberazione dell’Angola (Fnla) di Holden Roberto: 31 milioni di dollari per combattere contro i militanti comunisti dell’Mpla di Antonio Agostinho Neto, il primo presidente dell’Angola post-coloniale.

La guerra civile, che alla fine costerà la vita a oltre 500 mila persone, cambia il suo corso con l’arrivo di 15 mila cubani arrivati in Angola per combattere a fianco del popolo angolano e in difesa del presidente Neto. Nel marzo del 1988, a Quito Cuanavale, l’Mpla e i soldati di Castro sconfiggono la coalizione formata da Unita, Fnla, Zaire e Sud Africa; per gli Stati Uniti ed Israele, che con i gruppi filo-americani fa affari, il paese è definitivamente perso. Nel 1992 però l’Unita riapre le ostilità: la causa è la sconfitta elettorale, cosa che Savimbi non accetta; la guerra civile continua fino al 22 febbraio 2002, giorno in cui il leader dell’Unita viene ucciso.

Negli anni l’Mpla è cambiato: quella di dos Santos non è più l’organizzazione di combattenti che ha sconfitto l’Unita e che lui stesso ha guidato contro l’invasione post-coloniale delle multinazionali occidentali; non è più neanche il partito che si aggiudicò le legislative del 1992 e neppure quella creatura politica nata dalle idee di libertà e giustizia di Agostinho Neto, il poeta che negli anni Sessanta diede vita al movimento indipendentista angolano di cui fu leader incontrastato. Oggi dos Santos è a capo di un establishment incompetente, una classe dirigente che non sembra in grado di gestire le enormi ricchezze del paese se non, come molti credono, a proprio vantaggio.

Quello che appare evidente è che tutto questo accade ancora una volta a vantaggio degli stranieri, affamati di petrolio e diamanti, e a discapito di quei due terzi dell’Angola che vive con meno di due dollari al giorno e che sembra avulsa dal pensare alla politica come mezzo per risolvere i suoi problemi. Ora però che l’opposizione è praticamente scomparsa e che il popolo ha, bene o male, espresso la sua scelta, tocca al presidente mantenere quello che ha promesso: le tanto attese riforme di governo, la sostituzione dei ministri più criticati e corrotti, la modernizzazione della Costituzione e maggiori risorse per il popolo; un’occasione unica, attraverso la quale potrà rispondere alle critiche di chi lo accusa di voler trasformare l’Angola in uno dei tanti regimi Africani in cui la vita vale meno di pochi dollari e riscattare il destino amaro di un popolo che sembra destinato a soffrire.


Tratto da:
Angola: I perché di una scelta da non imitare di Eugenio Roscini Vitali
su Altrenotizie, Italia, 7 ottobre 2008


Nessun commento: